La vita straordinaria di Maria Giudice raccontata da Giuseppe Felice Turani

“Nell 1916 il grande salto: il Psi la manda a Torino, e sarà la prima donna a dirigere la Camera del Lavoro di quella città. Viene anche eletta segretaria della locale federazione del Psi. E dirige il giornale “Grido del Popolo”, che poi passerà nelle mani di Antonio Gramsci.”

“Nel 1927 il regime fascista non sopporta più questa rivoluzionaria venuta dal nord. In Sicilia ha fondato un giornale, i cui uffici spesso sono dati alle fiamme, e una volta lei e il marito si salvano scappando da una finestra appesi a un lenzuolo.”

“Sono anni in cui si dedica allo studio, soprattutto greco e latino, con gruppi di studenti, oppositori del regime, amici e compagni che girano per le stanze e che discutono di tutto. La figlia Goliarda racconterà: “Si passava dall’ultimo lavoro di Rosa Luxemburg ai romanzi di Dostoevskij”

Fonte: clicca qui

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‘Quel corpo che mi abita’

Rossana Rossanda, “Quel corpo che mi abita”, a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri 2018

Sono felice di informare che uscirà a breve un libro che sognavo da anni, il dono di un’amicizia tra me e Rossana Rossanda che dura da tanti anni e che ha trova nella raccolta dei suoi articoli sulla rivista “Lapis” (1987-1997) pensieri di straordinaria intensità, coraggiosa narrazione e riflessione su di sè.
Il titolo della mia “postfazione” – “L’amicizia. Un tranquillo deposito di sè”- sono parole sue, ma che condivido profondamente e di cui le sono grata.

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Simonetta Fiori intervista Rossana Rossanda

PARIGI. Una confessione intima, sorprendente. Uscendo dalla casa parigina di Rossana Rossanda, grandi vetrate affacciate sulla corte interna verdeggiante d’un bel palazzo borghese sul Lungosenna, ci si chiede se tra cinquant’anni esisteranno più queste grandi madri capaci ogni volta di spiazzarti. Di andare un passo più in là. Su questioni intime che investono la femminilità, il sesso, l’amore, la desiderabilità erotica delle donne. Il mistero del corpo e della morte.

Seduta sull’odiata carrozzina resa invisibile dal flusso di parole, Rossanda va dritta al cuore dei problemi. La bella faccia contrassegnata da quel neo bizzarro («l’ho sempre detestato, come il sigillo negativo in un racconto di Hawthorne…»), le lunghe mani affusolate che sono l’unica sua concessione alla vanità («erano bellissime, sì, d’una bellezza un po’ segreta, lo sai tu e non salta subito agli occhi»). Come capita nella vita di molte donne, anche la sua deve molto all’incontro con un’amica sideralmente lontana: Lea Melandri maestra di sapienza femminista. «Ci siamo sbaruffate molto, ma è stata Lea a farmi scoprire la specificità del femminile».

A distanza di svariati decenni, il volume Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhieri) ripropone il ricchissimo scambio intercorso sulla rivista Lapis. E non poteva esserci occasione migliore per tagliare il nastro di un anniversario importante, il cinquantesimo della «più ridente» e «decisa» delle rivolte che riguarda anche chi allora non era nato. Perché «fu il Sessantotto a cambiare il senso delle relazioni, dando a tutti la parola». Nelle scuole, all’università. Nei

giornali e nei posti di lavoro. E soprattutto in famiglia. E «se pure il movimento non è stato in grado di conservare, ha segnato una linea di confine». Anche nel rapporto tra donne e uomini…

Continua sul Venerdì del 5 gennaio 2018, fonte online qui

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Rossana Rossanda, “Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986”, Feltrinelli 1987.

Il ’68 di Rossana Rossanda

Da una pagina del libro:
Rossana Rossanda, “Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986”, Feltrinelli 1987.

Un libro da ristampare

“Se mai avessi dubitato che si poteva scrivere, dai non toccati dalla grazia, soltanto così, come un servizio, ma ne avrebbe convinto il ’68: quelle assemblee, prima di studenti poi di tutti, riscoprivano l’io, rivestivano la protesta di gioco, vivevano la rivolta già come un modo di essere, implacabile gioioso; ma dissacrarono ferocemente, loro che erano un bizzarro prodotto del sapere, l’intellettuale di professione che si rispecchia in faccia al mondo ed esibisce le sue preziose viscere da un convegno all’altro, in alberghi confortevoli di luoghi esotici, il tutto pagato. Il ’68 irrideva in particolare l’intellettuale di sinistra, in nome della parla di tutti: che cos’ha di straordinario la “tua” parola per esigere più attenzione di quella dell’ultimo degli ultimi che si alza nell’assemblea di un’università, che non aveva mai osato varcare, per dire: ascoltatemi, sono io che parlo? O dei “cioè” che aprivano vertiginosi vuoti in coloro che si abbrancavano per la prima volta al microfono, e avevano un messaggio da mandare e non sapevano quale, ma essenzialmente che esistevano quanto te, signore e mestierante della parola?
Ancora pochi anni fa, al festival dei poeti di Castelporziano, qualcuno invase la scena nella speranza di enunciare parole decisive, perché per ognuno è decisiva la sua vita ed è atroce sentire che no, non lo è.
Furono, credo, gli ultimi a tentarlo. Oggi come prima siamo in pochi ad accedere ai microfoni, a un editore, a un canale televisivo, e nessuno ci contesta. Agli altri è stata tolta la certezza, o speranza, di avere una comunicazione importante da farci…”
(…)
Si dicono molte vacuità oggi su quel bisogno di un pensare e sentire collettivo che, è vero, toccò in alcuni il limite del misticismo e del ridicolo: ma allora fu sentito non come un demolitore della persona ma come un suo asse, luogo di realizzazione, ponte fra politico e morale, privato e collettivo. Così del resto è avvenuto sempre nei momenti di tensione sociale; di straordinario, a rendere più problematici quegli anni quegli anni e il loro rapido bruciarsi, fu la spinta gregaria di soggetti non gregari, nei quali già era più complessa d’un tempo la domanda rivolta al leader e più ultimativa la ricerca di senso collettivo. Non per affogare in esso ma per respirare in esso. Vanno prese alla lettera le parole di chi, in questi momenti o quando si addensano le scelte definitive, scrive: “Oggi la mia vita ha un senso, so quel che faccio, e anche se non ne vedrò la realizzazione, so per quale scopo sono al mondo”.
Questa non è assenza della dimensione della persona, ma un suo estremo affermarsi.”

Nota
La mia recensione al libro uscì su Il Manifesto il 15/16 marzo 1987 ed è stata poi ripubblicata nel mio libro “Lo strabismo della memoria”(Edizioni La Tartaruga 1991)

 

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‘Perché hanno paura di una sedicenne?’

Articolo di Ariel Gold e Taylor Morley:

“Mentre #Me Too Movement continua a costruire e a esaltare altre voci emarginate, la voce di Ahed non è riconosciuta quando lei dovrebbe essere riconosciuta come un pilastro del movimento. Ahed sta revocando il suo consenso alla brutale occupazione di Israele. Si rifiuta di dare il suo consenso alle forze israeliane che invadono la casa della sua famiglia in un ulteriore brutale, inutile attacco notturno. Affronta i suoi aggressori e resiste al violento sistema di potere che continua a perpetuare questo ciclo di violenza contro i Palestinesi. Nello stesso modo i sopravvissuti ad assalti sessuali e allo stupro vengono zittiti, si dubita di loro, sono biasimati per i crimini commessi contro di loro. Ahed sta affrontando la stessa reazione violenta da parte dei suoi aggressori. Israele sta “facendo gli straordinari” per screditare Ahed e cancellare la sua voce, con la speranza che le persone crederanno alle loro invenzioni invece che alla verità. È ora che le voci di #Me Too Movement chiedano la sua liberazione e aiutino a fare dei parallelismi.”

Per leggere l’articolo completo, pubblicato su Comune-info.net il 2 gennaio 2018, clicca qui

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La politica del desiderio

Scrive Roberto Ciccarelli:

‘La forza di allargarsi “senza far uso di bibbie”. Ciò che conta non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio. Quella da cercare è un’ostinata obiezione di incoscienza. Lea Melandri scrive del “desiderio dissidente” di Elvio Fachinelli, probabilmente l’eredità più appassionante di una stagione così lontana, così presente. #Sessantotto cinquant’anni dopo’

Entrati nel cinquantenario -1968/2018, ripropongo con piacere l’originale lettura che di quella rivoluzione culturale e politica fece lo psicanalista Elvio Fachinelli.

Per leggere l’articolo di Lea pubblicato su Comune-info.net il 21 dicembre 2015, clicca qui

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Un augurio speciale

Il 21 dicembre 1989 moriva a Milano Elvio Fachinelli, psicanalista, originale interprete del ’68, fondatore della rivista “l’Erba voglio” (1971-1977).

Quanto fosse rimasto legato alla”rivoluzione” culturale e politica di quegli anni, lo dimostra il suo articolo uscito su “L’Espresso”, n.14, 12 aprile 1987.

Lo dedico come augurio per il nuovo anno a tutte le vecchie e giovani “talpe” che non hanno mai smesso di scavare carsicamente, consapevoli – come scriveva Fachinelli- che “la rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevenibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni.”

Elvio Fachinelli

Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli*
1987

l mutamento dei costumi sessuali in Occidente (per favore, non la
«rivoluzione») comincia molto tempo fa, forse all’epoca di Abelardo
ed Eloisa. Ma per limitarci agli ultimi vent’anni in Italia, sentiamo e
sappiamo che ci sono notevoli differenze fra i settanta e gli ottanta.
Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto
a tentativi di uscire dalla famiglia, di far fuori la famiglia, l’esecrata
famiglia. C’è una specie di diffusa fobia per questa istituzione,
vista come luogo chiuso, coatto, defecatorio.
Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche
soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi
si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in
là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi, una bella
contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi, eppure aguzzi, e taglienti
per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la
pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti,
svaniti, introvabili.
Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella
che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non
c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì
andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto
enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà (chi ha
mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che
è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando. Anche con l’Aids, nuova cintura di castità, ombrello sanitario, castigo degli infedeli. «Va’, va’, povero untorello, non sarai tu che schianterai Metropoli».1 E anche nella reintegrata famiglia reaganiana, che si vuole a guscio pieno, non vuoto, muro solido, non friabile, e che a guardarla da vicino è invece piuttosto spesso una riunione di single che stanno lì soprattutto per i figli.
Ed ecco i single, appunto, parola abbastanza nuova, però quasi un emblema, che contrassegna tanti tipi strani, diversi, spesso infelici (ma chi ha mai detto che la felicità del sesso stia in quell’idiota sorriso di redenzione che aleggia sui volti dei «liberati sessuali»?). Tanti tipi diversi uniti forse dall’essere eredi non testamentari, continuatori casuali, ricercatori extrafamiliari degli anni settanta che scoprivano amori fantastici, irregolari, anche un po’ impossibili. Amori abbastanza vicini a quelli che albeggiano oggi dalle videocassette nelle camere dei single, prima di dormire o di vegliare; amori di sogno, o d’occasione, o di crociera immaginaria, insomma amori di solitudini comuni, come quelli delle comunità solitarie sparite nel vuoto verso la fine
degli anni settanta.

(da “L’Espresso”, n.14, 12 aprile 1987)

Foto di Lisetta Carmi

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