C’era una volta la buona abitudine di analizzare i fenomeni più inquietanti andando alla radice, alle ragioni inconsapevoli da cui erano mossi, proprio per evitare che si ripetessero. Era chiaro che le migrazioni in massa verso l’Europa, lasciate allo sbando, avrebbero creato allarme, non importa quanto reale o immaginario, paure di essere invasi, danneggiati, espropriati da “stranieri”, e, conseguentemente, arroccamenti difensivi, ricerca di capri espiatori -cioè nuovi ‘nemici’ al proprio interno (vedi oggi in Inghilterra: gli anziani, le periferie, i contadini, gli ignoranti, ecc.).
Lo scritto di Elvio Fachinelli, “Gruppo chiuso o gruppo aperto?”, nato
dall’esperienza del controcorso – un gruppo di analisi su settarismo e accomunamento- nel ’68 all’Istituto Superiore di Scienze Sociali all’Università di Trento e inserito nel libro “Il bambino dalle uova d’oro”, Feltrinelli 1974, appare oggi purtroppo ancora una volta di una lucidità tristemente profetica. Senza andare troppo in là con gli anni, basterebbe ricordare cosa è successo nei Balcani e porsi qualche interrogativo su dove stiamo pericolosamente andando.
Alcuni frammenti
(da Elvio Fachinelli, “Il bambino dalle uova d’oro”, Feltrinelli 1974)
“Abbiamo delineato due movimenti di gruppo che, usando modalità formalmente simili, giungono a conclusioni radicalmente divergenti. La prima soluzione, quella che porta al gruppo sempre più chiuso, appare all’inizio come la più ‘realistica’, la meglio motivata sul piano dei compiti pratici, effettivi; ma il suo sviluppo tende a smentire nettamente le sue motivazioni di partenza. Le inevitabili pulsioni e frammentazioni interne, che sono il frutto di una continua difesa dell’ideale del gruppo continuamente minacciato, segnano il percorso di un ‘processo di settarizzazione’. La seconda soluzione -quella che da inizio a uno svolgimento opposto, di tipo espansivo- nel nostro caso non ha neppure avuto la possibilità di cominciare; è chiaro dunque che ad essa si oppongono grosse difficoltà, tali da renderla, non irreale, ma certamente ‘rara’. Potremmo chiamarla ‘processo di accomunamento’, anche se il termine non rende affatto l’intensità dello svolgimento, che si incarna compiutamente nel punto più alto, più espansivo, di uno sviluppo rivoluzionario. La difficoltà di trovare una parola che centri il fenomeno corrisponde dunque alla rarità del fenomeno stesso.
Esso presuppone infatti un uso assolutamente inconsueto di uno degli schemi più forti di comportamento e di formazione del gruppo: quello che ne fonda la coesione sulla presenza di un altro gruppo esterno ad esso. Storicamente lo straniero, l’uomo che spunta sconosciuto all’orizzonte, è stato, ed è, più spesso nemico che amico. Di qui il riflesso di chiusura del gruppo nei suoi confronti, che è tanto più forte quanto più il gruppo è internamente debole, incerto, diviso, e che riesce a dargli momentaneamente una sua unità e una sua forza. Il processo di settarizzazione sembra dunque ripetere, esasperandolo, moltiplicandolo, questo riflesso di difesa rispetto a un ‘esterno’ percepito quasi esclusivamente come nemico, come negativo.
(…)
Ma il processo di accomunamento, ed è qui la sua eccezionalità, riesce a capovolgere questo riflesso sedimentato nella collettività, e da cui anch’esso trae origine: l’esercito agguerrito che schiaccia la setta diventa per esso la massa sterminata offerta alla propria comunicazione. E’, in altre parole, quella diversa valutazione dell’estraneo che abbiamo visto profilarsi nel nostro gruppo. Perché questo avvenga, occorre però che la comunicazione, la generalizzazione, l’affermazione e la ricerca di ‘ciò che accomuna tutti’, sia la parte essenziale del bene interno che viene comunicato.
(…)
Certo non ha vinto! Ogni ostacolo incontrato, esterno o interno, tende a far sì che il gruppo, o una sua parte, sia tentato di abbandonare, nei fatti, l’azione di comunicazione iniziata; sia tentato di cercare la propria sicurezza in un proprio ‘interno’ indiviso. A questo punto il processo di accomunamento rischia continuamente di capovolgersi in modo talora rapidissimo, nel processo opposto…”
