Articolo pubblicato il 9 giugno 2016 su Il Manifesto
TEMPI PRESENTI. Il lavoro di cura e domestico, la centralità delle donne nella vita pubblica segnalano alcune contraddizioni delle teorie sull’emancipazione femminile. Una lettura sulla trasformazione delle relazioni tra i sessi
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Le donne sono state confinate sul versante che è parso più vicino alla loro «natura» di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia, l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: «come una stirpe – scrive Freud ne Il disagio della civiltà – o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo».
La critica a ogni forma di dualismo non poteva che partire da chi ne aveva portato per secoli il peso di maggiore alienazione e sofferenza, ma era chiaro che riguardava entrambi i sessi, i ruoli che erano stati chiamati a rivestire di generazione in generazione. Altrettanto chiare erano l’estensione e la complessità del cambiamento che si prospettava: una «modificazione di sé» che spingeva la politica fin dentro le zone più remote e misteriose della vita psichica, per venire a capo di una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e dalla donna «aprioristicamente ammessa» – per usare le parole di Sibilla Aleramo-, «compresa solo per virtù di analisi»; ma anche l’idea che si potesse partire da questa incursione nella storia personale, nel «sé» meno conosciuto, per modificare l’ordine sociale nel suo insieme.
Si potrebbe dire che il sogno d’amore, inteso come fusione di nature diverse, ricongiungimento degli opposti, oggi esce dalla sfera intima degli individui per diventare paradigma delle trasformazioni che interessano l’economia, la politica, l’organizzazione sociale nei suoi vari aspetti. Il lavoro di cura o il lavoro domestico, come qualcuna preferisce chiamarlo, elargito finora gratuitamente a bambini, malati, anziani e adulti perfettamente autonomi all’interno delle case, fa il suo ingresso senza soluzione di continuità nella sfera pubblica: un maternage senza fine che da «destino naturale» diventa per le donne il passaporto per la loro piena cittadinanza.
Se il femminismo degli anni ’70 nasceva come processo di «liberazione» da modelli imposti, divenuti habitus mentali, incorporati fino a confondere la lingua dell’oppressa e dell’oppressore, i decenni successivi hanno visto riemergere logiche emancipazioniste, sia pure in forme diverse da quelle del Novecento.
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