Corpi a digiuno, di Sotirios Pastakas

Corpi a digiuno di Sotirios Pastakas dal libro Corpo a corpo, Multimedia Edizioni, Salerno 2916.

 
Corpi a digiuno s’appendono
alle maniglie nel tram,
nella metro. Compressi,
si toccano come succede
la domenica quando diventano
archi i giovani corpi.
Quando li lacera l’eccitazione.
E si abbracciano.
Che non entri il controllore
e ne trovi uno da solo
senza biglietto.

Goliarda Sapienza

Gogliarda Sapienza
“Jean Gabin non ne sapeva nulla di lady di ferro, donne poliziotto, soldate e culturiste. I suoi occhi azzurri – di Jean, intendo – sognavano una donna che fosse come un fiume, un grande fiume languido e vertiginoso che andava a nutrire con le sue acque limpide il mare. Questo ho imparato da lui, e per me la donna è sempre stata il mare. […] il mare segreto della vita, avventura magnifica o disperata, bara o culla sibilla muta e risposta sicura..”

Articolo pubblicato su Poetarum Silva – clicca qui per leggere il testo completo

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Sul FertilityDay

Molto peggio del Family Day.
Se le donne fossero “mucche da latte”, come sembra considerarle il Piano Fertilità del Ministero della Salute, interverrebbe la protezione animali per sfruttamento intensivo. Del tipo: allevamento.
Ipocrisia massima: le donne sono state da secoli un “bene comune ” (vedi: obbligo procreativo). Quello che oggi fa problema è che cominciano a non volere esserlo più.

Condivido l’ottimo articolo di Giorgia Serughetti, riservandomi riflessioni meno emotivamente ‘pregiudizievoli’ dopo aver letto il sermone ministeriale alle ‘cattivissime’ donne che non fanno figli.
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“Le donne childfree in Italia sono circa il 20%, e secondo una ricerca dell’Università di Firenze, solo una piccola percentuale di ultraquarantenni che non hanno avuto figli avrebbe cambiato idea nel caso fossero state in atto migliori politiche pubbliche di sostegno alla maternità. Un terzo delle donne intervistate non è voluto invece diventare madre per via delle eccessive rinunce che un figlio comporterebbe, constatando che sono le donne a dover sopportare in toto il peso della cura dei figli, la cui presenza determina molto frequentemente un peggioramento del loro status e la perdita di diritti e posizioni all’interno della coppia, così come nella società.”

(Immagine tratta dalla campagna del FertilityDay)

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‘Odiatevi tra voi, che state in basso’ di Alessandro Gilioli

Un articolo di Alessandro Giglioli pubblicato su L’Espresso il 26 agosto 2016
“Ecco appunto: questo è il tratto forte dell’oggi, quello a cui ci hanno portato gli ultimi decenni – e ben oltre il terremoto: odiatevi tra voi, che state in basso.
Odiatevi tra voi, che avete dei problemi.
Ammazzatevi tra voi, che siete deboli.
Italiani e migranti, certo, ma non solo: anche pensionati al minimo e giovani disoccupati, interinali e voucheristi, partite Iva e operai, cassieri dei centri commerciali e precari dei call center, poveri del nord e poveri del Sud, e così via all’infinito.
La giustapposizione tra migranti e terremotati è solo la rappresentazione plastica di questo gioco dell’odio intrecciato, di questi non-blocchi sociali che sono diventate schegge di rabbia messe una contro l’altra.”

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Il tempo virtuale, un battito di ciglia

Sapere che una lettera inviata per posta elettronica arriva a destinazione prima ancora che il pensiero sia riuscito a immaginarne l’effetto sulla persona che la riceverà produce una inquietante dissimmetria tra il tempo di cui si fa esperienza soggettivamente e quello della protesi meccanica che lo trasforma in estensione e velocità. Può capitare allora che l’attesa di una risposta obbedisca allo stesso impulso magico: abolire spazio, tempo, congiunture personali, per disporsi a ricevere la parola dell’altro nell’immediatezza di un presente immobile e disincarnato.
Tra il “tempo freccia” della vita sociale e il “tempo tartaruga” che ha radici nei ritmi biologici e psichici di ogni individuo, passa l’incantesimo del “qui” e “ora” di una comunicazione che sembra svincolata da luoghi e persone concrete. Il senso di leggerezza che si prova nell’ ‘intimità’ virtuale dei ‘contatti’ telematici nasce dall’assenza di qualunque tipo di attrito: dalla rugosità della carta da lettera, all’impatto sensoriale col corpo di chi ci sta davanti. Lo schermo stesso del computer si fa trasparente, sottile e impercettibile per i segni che vi scorrono sopra, veloci come i pensieri, e , come i pensieri, pronti a sparire e ricomparire in un battito di ciglia.
“C’è dell’ascetismo nel moto di idee e nelle pulsioni che fondano il trionfo della tecnica -scriveva Asor Rosa nel suo libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986)- un ascetismo del sacrificio e della sottomissione, della perdita di identità (…) non del dinamismo e della concentrazione spirituale”.
Eppure, se l’ascesi è “conservazione del tempo, rallentamento della fine”, concentrazione dentro il singolo istante di un tempo infinito, non c’è dubbio che un sistema di informazione “vorticoso, rutilante, prodigo di notizie sempre nuove” finisce paradossalmente per ottenere un effetto analogo, come cancellazione sia del tempo storico che del tempo biologico. E’ vero che non ci restituisce a noi stessi, a “ciò che effettivamente siamo”, ma spalanca le strade del mondo a quei “residui notturni” che non hanno mai smesso di agitare i sonni dell’uomo cosiddetto “civile”, a quel flusso torrenziale di immagini e voci che, come un inconscio diffuso, oggi attraversa la molteplicità dei mezzi di comunicazione.
Il tempo del sogno, della memoria arcaica della specie, con tutto quello che porta con sé di infantile e di barbarico, non solo non può essere considerato marginale o separato dalla realtà, ma, stando all’apparenza, va addirittura a confondersi con le costruzioni più artificiali della tecnologia.
Il rischio non è un eccesso di virtualità, ma di confusione. Aperto il vaso di Pandora, liberate le “viscere della storia” da una immobile “naturalità”, consegnata la “vita intima”, i suoi ritmi segreti, le sue ombre, alle luci abbaglianti dello spettacolo, è difficile immaginare per quali strade tornare a fare esperienza di sé e del mondo.
Saltati i confini tra ritmi temporali e lingue che si sono scontrate per millenni da sponde opposte e complementari, sembra che a reggere l’urto di tecnologie sempre nuove sia rimasto solo quella soglia di resistenza che finora ha impedito all’individualità concreta di uomini e donne di dissolversi totalmente dentro modelli, simboli, costruzioni sociali incorporate. Contro l’assalto di una “interiorità” che ci guarda dai manifesti pubblicitari, dagli schermi televisivi, dalle vetrine dei negozi, rimane sempre quel rumore di fondo che fanno i pensieri quando sembra che gli sia preclusa ogni via di uscita. Come acque inquiete, se proprio non trovano la strada della parola, già troppo consumata dalla chiacchiera mediatica, ci provano col gesto, la scrittura, il rifugio nel silenzio e nella memoria.
Ci sono molti modi per rallentare una corsa che oggi assomiglia sempre più alla freccia ferma di Zenone, un tempo che si segmenta tendenzialmente all’infinito, nell’illusione di una padronanza assoluta del principio e della fine di ogni cosa. Una strategia efficace consiste nel ritagliarsi una marginalità consapevole, qualunque sia il contesto in cui ci si muove, e da lì cominciare a guardarsi dentro e attorno, per scoprire che il passato, come già scriveva Virginia Woolf, non ha mai smesso di far affiorare le sue “scene”, i suoi odori, le sue ferite, sulla superficie del presente, in quelle acque, ora lisce ora agitate, in cui sempre torna a immergersi la “lenza” del pensiero.
Fare e disfare la propria storia, riconoscere nella mutevolezza della narrazioni possibili la materia ibrida, eterogenea, su cui si costruisce l’identità del singolo, è stata la pratica politica anomala del movimento delle donne degli anni ’70. Quello che poteva apparire, rispetto alle conquiste dell’emancipazionismo, un viaggio anacronistico “verso il luogo dell’origine”, si è rivelato al contrario un modo inedito di vivere il tempo: ripresa di esperienze del passato come apertura verso nuove soluzioni, nostalgia per qualcosa che ancora non si conosce e che, nella praticabilità del cambiamento, riesce a proiettarsi verso il futuro.
Nella foto: Achille e la tartaruga

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‘Il maschio al bivio’ di Pierangiolo Berrettoni

Pierangiolo Berrettoni
Il maschio al bivio
Bollati Boringhieri, 2007
Prefazione dell’autore (stralci)
Questo libro nasce come profonda revisione di un volume precedente, La logica del genere, in cui avevo cercato di tracciare una sorta di genealogia e archeologia della cultura di genere nel mondo occidentale a partire dal periodo greco antico, quando si sono costituite le griglie interpretative con cui continuiamo in larga misura a organizzare la realtà, compresa quella umana.
(…)
In quel libro individuavo anche le lontane origini di uno schema mentale ricco di conseguenze nella nostra visione e di-visione della realtà, compresa quella umana: quello «schema comparativo» che inquadra le opposizioni non secondo la semplice constatazione di una differenza (l’uomo è differente dalla donna, il bambino è differente
(…)
Così com’era, il libro era troppo ampio e conteneva troppe digressioni specialistiche di tipo logico e grammaticale, che potevano scoraggiare un pubblico più vasto. È nata, così, l’idea di una sua riduzione drastica e di una sua concentrazione intorno a una sola delle due polarità di genere: il maschile nelle sue due varianti meno conflittuali di
quanto siamo portati a pensare, ma anzi in qualche modo «complici», come cercherò di mostrare, il maschio eterosessuale e quello omosessuale.
L’ho intitolato Il maschio al bivio, sia perché l’immagine del bivio si è costituita attraverso il mito di Ercole come una delle componenti più insistenti nella formazione di un’identità maschile fondata sulla scelta tra impegno/fatica (pónos) e impenetrabilità da una parte, piacere, desiderio, edonismo, paticità dall’altra, sia perché il maschio occidentale, nella sua millenaria dialettica con il femminile, si è gravato nella cultura moderna di un ulteriore «fardello», la scelta esclusiva e dicotomica tra omosessualità ed eterosessualità.
Non ho usato casualmente il termine «fardello», se uno dei miti più tenaci con cui il maschio ha costruito il proprio sistema di dominazione è stato proprio quello del white man’s burden, che non si è configurato necessariamente come cattiva coscienza e mistificazione, ma come autoimposizione (al limite del masochismo) di una logica e di un’etica del sacrificio, della rinunzia e della frustrazione. Quando Freud costruiva la sua teoria della civiltà come rinunzia al soddisfacimento immediato dei bisogni da parte dei fratelli in seguito all’uccisione del padre, non si rendeva ben conto che questa rinunzia era più precisamente all’origine del potere androcentrico istituito con una serie di interdizioni, quella dell’incesto (con il conseguente scambio delle donne e la loro riduzione a segni), dell’equa distribuzione del lavoro sessuale, del desiderio omosessuale, in ultima analisi della liberazione del desiderio, di cui si è forcluso il carattere fluido ed «emanante» in favore di quello fondato sulla mancanza.
Per lungo tempo Freud si è posto il problema di rispondere alla domanda su che cosa voglia la donna: nella trentatreesima lezione introduttiva alla psicoanalisi tenuta nel 1933 sulla femminilità (Die Weiblichkeit), iniziava l’esposizione affermando che durante il corso della storia si era sempre presentato il rompicapo (Grübel) sull’enigma (Rätsel) relativo alla determinazione della natura femminile, e presumeva che anche i suoi ascoltatori maschi si ponessero il problema, diversamente dalle donne, perché proprio loro sono il problema. Oggi sappiamo, naturalmente, che la domanda sul desiderio femminile era mal posta o, per meglio dire, apparteneva a quello strato del pensiero freudiano che era maggiormente datato e più affondava le proprie radici nella cultura del periodo in cui si era formato: non un’acquisizione definitiva e atemporale, dunque, ma piuttosto un frammento di discorso di cui si può fare storia (…)
Così come oggi sappiamo che il senso profondo di quella domanda dello scopritore dell’inconscio riguardava in realtà il desiderio e, più ancora, le paure dell’uomo, e si sarebbe dovuto formulare piuttosto come domanda su che cosa voglia l’uomo, se non fosse che i regimi discorsivi interni alla cultura di quel periodo non avevano ancora preparatol’uomo a interrogarsi su sé stesso e i suoi desideri, per quanto proprio Freud stesse aprendo una radura nel terreno in cui si sarebbero potute porre più tardi queste domande.
Le rivoluzioni della modernità, soprattutto quella femminista e quella omosessuale, hanno posto il maschio di fronte alla necessità di ripensare la propria identità in termini diversi, quando non alternativi, a quelli ereditati da millenni di costruzione dei valori dell’androcentrismo.
A chi, come me, si sia posto il problema doloroso di ripensare in termini nuovi la propria identità di genere, la posizione freudiana appare ribaltabile e proprio il maschile si costituisce come il vero enigma.
In particolare sono due gli enigmi maschili che mi sembrano particolarmente difficili da comprendere.
Il primo è come mai il maschio, nell’imporre il proprio modello di dominazione sulla donna, ma anche sul bambino, il barbaro, il selvaggio,in altre parole nell’inventare una logica e un ethos imperiali e «civilizzatori», abbia accettato di sottoporsi a una serie di fardelli che vanno dalla fatica del corpo alla rimozione delle emozioni e dell’affettività (…)
Il secondo enigma che continuo a trovare senza risposta è come mai il maschio imperiale, temprato a ogni sorta di rinunzia e sacrificio, capace di affrontare deserti assolati e lande ghiacciate, nostalgie e pericoli, guerre e massacri per compiere la propria missione civilizzatrice, si mostri, poi, particolarmente «fragile» non solo nel campo delle emozioni, ma anche e soprattutto in quello dell’autoaccudimento quotidiano e bisognoso di delegare all’altro, perlopiù la donna o un suo sostituto (l’attendente), la propria stessa sopravvivenza emozionale e materiale: interrogativi forse impossibilitati a trovare una risposta, se non quelle parziali che ci danno la psicoanalisi e le archeologie dei saperi-poteri su cui si basano i vari sistemi di dominazione.

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La perdita

Manuela Fraire e Rossana Rossanda, “La perdita”, a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri 2008.
“Un pezzo di noi, dietro, abituandoci”. (Rossanda)
(Stralci dalla mia Lettura)
“Due donne, a cui mi legano un profondo affetto e una lunga amicizia, hanno deciso di riflettere insieme su un tema dalle molte sfaccettature come la «perdita», e di parlarne «senza perdersi di vista». A me arrivano i loro pensieri e le loro parole divenuti scrittura nelle pagine della rivista che ne ha dato diffusione pubblica. Non saprei dire che cosa più mi ha spinto a promuoverne la ristampa: se il desiderio di allargare l’ascolto di due singolari voci dialoganti a chi non ha avuto l’occasione di avere tra le mani la «Rivista di Psicologia analitica» (69/2004, nuova serie n. 17), o la fantasia di potermi ritagliare una parte, a lato e come una discreta accompagnatrice, rispetto al fluire di un discorso denso di suggestioni intellettuali ed emotive, catalizzatore di memoria e, insieme, di grandi narrazioni storiche.
Dal giorno in cui ho saputo che ciò era possibile a oggi, è passato più di un anno, molti altri progetti, letture, scritture, incontri hanno preso il sopravvento, molte altre voci si sono addensate, dissonanti, a coprire il silenzio necessario per en-trare in un ordine di pensieri inquietante e doloroso. C’era all’orizzonte, come il cielo scuro che dissuade dal mettersi in viaggio, il declino lento di mia madre; c’era, confuso con quel corpo famigliare la cui perdita mi sembrava intollerabile, l’at-tenzione crescente ai segnali del mio invecchiamento.
La «perdita» era un tema da un lato troppo presente, dall’altro ancora lontano: idea assillante ma sospesa sul vuoto dell’esperienza che avrebbe potuto sostanziarlo di pensieri e sentimenti reali. Forse la condizione «giusta», né troppo dolorosa né troppo distaccata, per pensare la morte propria e delle persone che abbiamo amato, non si dà mai. La morte, come coscienza che siamo destinati a scomparire «uno a uno», come dicono Rossana e Manuela, è il «grado zero» della rappresentazione, l’«impensabile». Tra tutte le opposizioni «incomponibili» che danno un’impronta «tragica» alla vita, la più resistente ai nostri sforzi di pacificazione è sicuramente quella di un Io costretto a riconoscersi straniero nel proprio corpo, parte del ciclo biologico e, al medesimo tempo, di una «natura» speciale, irriducibile alla materia di cui sono fatti gli altri viventi.
O vivi evitando di pensare alla morte o vivi una finitezza che ti nega. (Rossana)
Eppure c’è un momento in cui «pensare e scrivere la morte» non è più quell’impresa ardua che viene lasciata ai poeti, ai mistici, ai visionari. È quando si apre, dentro il ritmo vertiginoso degli impegni e delle relazioni quotidiane, una smagliatura, il passaggio rapido, inafferrabile di un tempo «altro», la percezione che i morti, gli amici, i famigliari che abbiamo perduto strada facendo, non ci hanno mai lasciato del tutto, «un pezzo di noi, dietro, abituandoci».

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Voce: ‘tenerezza’.

Voce: Tenerezza
“La corrente di tenerezza – scrive Freud- è la più antica. Essa deriva dai primissimi anni di infanzia, si è formata sul terreno degli interessi della pulsione di autoconservazione e si rivolge alle persone di famiglia, essa corrisponde alla scelta oggettuale infantile primaria(…) Il lattante attaccato al petto della madre è diventato il modello di ogni rapporto amoroso.”
Se è vero che la memoria del corpo trattiene, come un buon archivio, anche le esperienze più remote di un essere umano, che cosa resta di quel singolare passaggio che è l’unità a due o la parziale indistinzione tra la madre e il figlio nella fase che precede la nascita e nei primi mesi di vita? Se l’amore conserva, nonostante la varietà delle relazioni e degli interessi umani, una indiscussa ‘centralità’, non è forse per quella tenerezza antica che precede ogni separazione, ogni differenziazione di poteri, ruoli, attitudini, tutto ciò che ha opposto storicamente l’uomo e la donna, l’adulto e il bambino? Non è questa ‘preistoria’ che mantiene aperta la strada del ritorno nostalgico all’origine, al ‘paradiso perduto’ dell’infanzia?
L’amore, nella sua definizione più nota e più duratura, è simpatia profonda di nature diverse, fusione assoluta e miracolosa di che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso. Se la “coercizione al lavoro” spinge l’uomo verso aggregazioni sempre più ampie, la “potenza dell’amore” sembra invece premere in senso opposto e trattenere la coppia degli amanti nel chiuso di sentimenti “teneri e intimi”. “Al culmine dell’innamoramento –scrive sempre Freud nel saggio”Il disagio della civiltà”- il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se le cose stessero così.”
Amore di sé e amore dell’altro nascono insieme, ignari della distanza che permette di vedersi e darsi confini. Ma è proprio questa ideale permeabilità reciproca, questa ‘oasi’ che sembra fare dell’amore la sola eccezione alla legge del dominio maschile, a far passare in ombra i destini così vistosamente divergenti di un sesso e dell’altro. Difficile dire quanto abbia contato la nostalgia di figlio nel volere che la donna restasse essenzialmente madre, luogo di partenza e di ritorno, utero e tomba, rifugio primo e ultimo per il viaggiatore del mondo; quanto invece sia stata la donna stessa a ripiegarsi su una ‘proprietà’ biologica, carne della sua stessa carne, vita affidata alle sue cure, conferma di senso e indispensabilità capace di compensare l’insignificanza a cui l’ha condannata la vita pubblica.
Relegati rispettivamente sul versante dell’origine e della storia, la donna e l’uomo non sembrano conoscere altra tregua a un conflitto millenario che l’illusoria cattura dell’innamoramento, sogno febbricitante di unioni impossibili. Neppure l’indifferenza delle logiche produttive e di mercato sembrano aver scalfito l’idea di tenerezza come “appartenenza intima” legata alla ‘casa’ comune, primordiale, del maschio e della femmina, quel mondo-corpo della madre, che la comunità storica degli uomini continua ad amare e temere, ad esaltare immaginativamente e ad aggredire con violenza.
Confinando la donna nel ruolo di custode della casa, degli affetti, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.
Come luogo che istituzionalizza l’infanzia, la famiglia, pur nella crisi attuale che l’attraversa, continua ad essere vissuta come rifugio e prigione, garanzia di sopravvivenza e minaccia permanente di perdite e abbandoni. Tenerezza e violenza, amore e odio, fuori dalle infinite coperture ideologiche che le hanno tenuti lontani dalla coscienza storica, mostrano oggi inequivocabili parentele. Le cronache, i rapporti internazionali sulla violenza contro le donne, dicono che il pericolo si annida proprio là dove si va a cercare protezione, che è dall’interno dei rapporti più intimi che si scatena la furia omicida, o perché l’abbraccio è troppo stretto o, al contrario, perché sembra essersi definitivamente allentato.

 

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