L’ “oggetto medico” per eccellenza resta quel corpo che, svuotato di una propria verità psicologica e ricoperto di idealità, non ha mai smesso, agli occhi del mondo, di partorire figli e mostri, vita e morte, beatitudine e dannazione.
Rilette con la consapevolezza che abbiamo oggi della maternità, le parole con cui Jules Michelet, nel 1959, descriveva il destino femminile, prendono un significato sinistramente capovolto:
“Deve amare e partorire, è questo il suo sacro dovere. Fin dalla culla la donna è madre, pazza di maternità”. Nell’idealizzazione di un uomo-figlio, certo di essere il destinatario naturale della felicità, niente lascia intendere che l’ “eccesso di passione” di cui si è creduta depositaria la donna avrebbe potuto compartire odio anziché amore, follia al posto di salute.
Eppure non doveva essere difficile immaginare che il sacrificio di sé, la dedizione totale agli altri, avrebbe potuto chiedere presto o tardi una contropartita altrettanto distruttiva. Anche Freud, così lucido nel riconoscere la commistione di sentimenti opposti, di tenerezza e ostilità, nei confronti di persone amate, non esita a ritagliare intorno alla coppia madre e figlio una zona franca, “esente da ambivalenze”. Se non fosse così “sorprendente” ancora oggi ammettere che una madre possa uccidere il proprio figlio, non si capirebbe perché, fra tanti delitti famigliari di cui è stata data notizia negli ultimi tempi, sia sempre “Medea” ad accentrare fantasie, perizie scientifiche, supporti statistici, “piani” governativi di attacco e difesa.
La fretta con cui l’infanticidio commesso da una madre viene archiviato sotto l’etichetta, per un certo verso rassicurante, della “follia” e della “malattia mentale” segnala che, in modo paradigmatico, il sovvertimento del rapporto più “intimo” e “umano” scuote le coscienze, sollevando il dubbio intollerabile che l’antico comandamento “non uccidere” stia rientrando dal lungo esilio, per chiedere riconoscimento e cittadinanza.
Restituire alla morte -quella che si dà ad altri o che si subisce- il posto che ha nella vita del singolo e della collettività, dove non ha mai smesso di mescolarsi all’amore, non ha altro significato che fare il passo necessario per comprendere l’ “umano” nella sua complessità, e sottrarre al determinismo biologico comportamenti che nascono nel contesto di storie e relazioni particolari, suscettibili pertanto di cambiamento.
Se è vero che la storia dell’umanità è “piena di assassinii”, e che l’uomo primitivo che è in noi non si è mai del tutto eclissato, non dovrebbe essere difficile capire quali sentimenti elementari, incontrollabili, fanno debordare la voglia di uccidere da semplice pensiero o desiderio silenzioso, rivolto a “chiunque ci sbarra la strada”, alla sua messa in atto.
“Le azioni violente non vengono necessariamente commesse da individui pervertiti, ma da persone comuni che si trovano intrappolate in circostanze tragiche: la maggior parte degli esseri umani è in grado di commettere azioni violente” (R.Papadopoulos).
Questo “sollievo” che precipita subito dopo nell’inferno, questa “rivincita di persone tormentate” che permette, sia pure in un solo attimo, di eliminare, insieme al pensiero, un conflitto e una sofferenza intollerabili, più che i tratti della depressione richiama l’impulso disperato ad aprirsi comunque una via d’uscita, a costo di passare sul proprio corpo e su quello di chi, come un figlio, si considera parte di se stessi.
Le madri e i padri, la figlie e i figli che uccidono soffrono, prima ancora che di abbandoni, di legami invasivi, che promettono vita e che strangolano, che fanno dell’intimità familiare e amorosa una difesa, e nel medesimo tempo, un’ingiustificata limitazione.
All’inviata de “La Repubblica” (30 maggio 2002), un’infermiera dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove vengono internate madri infanticide riconosciute incapaci di intendere e volere, al momento del delitto, spiegava con meraviglia che molte di loro preferirebbero a quel luogo nel verde, “con una parvenza di casa”, il carcere.
Forse, forzando il significato del loro desiderio, si può intendere che espiare una colpa anziché subire l’esilio protetto della malattia mentale, è un modo per sentirsi ancora parte della collettività, per dire implicitamente quanto la patologia, nelle sue varie forme, sia imparentata con la comune, ordinaria sofferenza umana.
Nella foto: Dalla mostra “La Grande Madre” – Palazzo Reale, Milano 2015.
Anna Maria Maiolino, “Por um Fio”, 1976
Archivi mensili per settembre 2016
Sulla scuola
Quanti anni sono passati dalla Riforma che istituiva la NUOVA SCUOLA MEDIA “obbligatoria, gratuita, non selettiva”.
Era il 31 dicembre 1962, cioè oltre mezzo secolo fa!
E oggi si torna a parlare, tra dubbi e critiche, di una legge delega al vaglio dell’Esecutivo che prevede l’eliminazione delle bocciature nella scuola elementare, mentre nella scuola media continuerebbe a essere praticata in “casi eccezionali” (sic.!)
Un paese immobile, una discussione che torna invariata nel tempo: difesa della meritocrazia, declinata oggi più che sulle differenze di classe sociale, sulle diverse appartenenze culturali, linguisitiche, ecc.Cioè sulla crescente popolazione scolastica di origine straniera.
CASA JANNACCI
A CASA JANNACCI
Centro di prima accoglienza di viale Ortles a Milano, succedono sempre cose belle.
Come la serie di opere realizzate dagli ospiti della Casa durante i laboratori creativi messi a disposizione dal Centro e dagli operatori, che ogni giorno si dedicano con passione al benessere delle persone che, per qualche tempo, si trovano a trascorrere lì la loro vita. Perchè l’arte – affermano – ha indiscutibilmente la capacità di portare la meraviglia anche nei luoghi piu’ insospettabili. Il risultato sono un serie di opere dalla forte carica espressiva, collegate tra loro da un unico tema: l’identità. “Una identità che, nel caso specifico, non puo’ che confrontarsi irrimediabilmente con l’orizzonte travagliato della dignità e del riscatto”.
Vedere per credere: le opere saranno raccolte in una mostra a cura di Jacopo Tartari e Donatella De Clemente, presso la Casa dei Diritti in via De Amicis a Milano dal 27 settembre, giorno dell’inaugurazione, fino al 4 ottobre.
Info sulla mostra: clicca qui
Riflessioni riflesse
“La famiglia bianca e tradizionale viene contrapposta come modello positivo a un gruppo di giovani neri ”
Lea cita questo articolo di Michele Migone, pubblicato il 21 settembre 2016 su Radipopolare.it
Emancipazione e/o liberazione: il dilemma che attraversa il femminismo è sempre quello da oltre un secolo.
Sibilla Aleramo, coscienza femminile anticipatrice, ha visto lontano: la fretta, l’incapacità di sostare a lungo e interrogarci sulla storia che è passata su di noi e dentro di noi, ci avrebbe portato a essere un “inutile duplicato dell’uomo”.
Guardando all’oggi, non si può dire che avesse tutti torti.
“Non è nella gara materiale con l’uomo che deve consistere il progresso delle donna: o almeno non è soltanto in ciò. Essa può provare, e lo prova, di saper resistere come l’uomo alle fatiche manuali e intellettuali, ed è operaia, maestra, professionista, artista, quasi sempre oltre che moglie e madre. Ch’ella chieda un uguale compenso e un uguale rispetto è logico e giusto, com’è naturale che pretenda gli stessi diritti civili e politici. Ma tutto questo avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna: è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica, nata dalla rivoluzione: non è un fenomeno morale, un moto di spiriti..” (Sibilla Aleramo, La donna e il femminismo, Editori Riuniti 1978)
“Finora l’uomo ha creato, la donna no… La donna s’è accontentata di questa rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile. E di tutto ciò che parallelamente intuiva, nulla, o quasi, ha mai detto agli altri, perché, purtroppo, nulla o quasi ha mai detto a se stessa… La donna da un secolo in qua ha vagamente sentito che poteva muoversi con più agio, ma non ha sentito che poteva anche sostare prima alquanto, e interrogarsi. Così, invece che accordare alla vita e all’arte la sua autentica anima, è entrata nell’azione come un misero inutile duplicato dell’uomo.”
(S.Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942)
Sul patriarcato
Patriarcato:
un dominio lungo quanto la storia della specie umana, conosciuta finora, e forse per questo così radicato nell’inconscio collettivo da sembrare “naturale”.
Non permettiamo che le gravi ‘emergenze’ in cui ci troviamo finiscano per mettere in ombra ancora una volta la questione uomo-donna, che è alla radice di tante guerre di ieri e di oggi.
Cerchiamo i legami che ci sono sempre stati tra realtà sociali, economiche e politiche di ogni tempo e il dominio millenario di un sesso sull’altro.
Non lasciamoci spaventare dalla precocità degli stereotipi di genere, non rassegnamoci
alla loro presunta ‘normalità ‘.
Impariamo dai bambini a scoprire quello che resta così tenacemente sepolto nei nostri pregiudizi di adulti.
4 settembre 2015
Cosa dicono le foto dei bambini?
Dicono di guerre tra uomini e tra popoli che portano morte, povertà e distruzione.
Ma dicono anche della guerra mai dichiarata che ha sottomesso le donne agli uomini e che compare già inscritta precocemente (innocentemente) nei loro corpi.
Come si vede in una bella foto di Liliana Barchiesi.
Annie Leclerc, “Della Paedophilia e altri sentimenti”, Malcor D’ Edizioni, Catania 2015.
Violenza sessuale
La ritorsione violenta, la gogna, contro gli aggressori non portano da nessuna parte, meno che mai su una questione come la violenza sessuale che ha ramificazioni diffuse nella famiglia nella scuola nella società e nei pregiudizi sessisti che tutti/e ci portiamo dentro. Quasi sempre senza rendercene conto.
Non è un caso che le analisi più coraggiose capaci di mostrarla in tutte le sue ambiguità e contraddizioni, di additarne le insospettabili parentele con la ‘normalità ‘, vengano dalle persone che l’hanno subita su di sé.
Tale è il caso della scrittrice Annie Leclerc e del libro postumo provocatoriamente coraggioso che ci ha lasciato sulla pedofilia, tanto diffusa, come sappiamo, quanto passata sotto silenzio.
La sorte toccata anche a questo libro, che ripropongo all’attenzione.
——-
Paedophilia e pedofilia: la stessa radice. Solo etimologica?
Il libro di una vita, uscito postumo, di Annie Leclerc, figura centrale del femminismo francese, passato non a caso sotto silenzio: un tema inquietante, una scrittura che nulla concede ai luoghi comuni, la lucida e insieme lirica analisi del fenomeno in cui più confusi appaiono amore e violenza, tenerezza e perversione.
Forse per questo: “il più diffuso, il meno contestato, il più straziante dei sentimenti. Ma al contempo “ il sentimento su cui meno ci si interroga e si riflette”.
Stralci:
“Paedophilia: dal greco pais, paidos, infante e philia, amore, attrazione, passione, ecc. Non c’è affatto l’idea di sesso nella formazione della parola. Ma quando si parla di ‘pedofili’ è solo questione di sesso e per niente d’amore. Risultato, manca una parola per dire questo: la gioia di vedere l’infante, questa emozione, questa adorazione abbagliante, questo rallegrarsi, perché è lui, l’infante, che delizia la coscienza, lo sguardo, l’anima. Nessuna parola per questo fervore così diffuso, possente ed evidente? Quale è il lupo che ha mangiato la parola?”
“Paedophilia sarebbe il più antico e il più attuale dei demoni che presiedono alla sorte degli umani. Si tenderebbe perciò ad ignorarlo, sia per la sua estrema evidenza, sia pe l’ambiguità delle sue manifestazioni (…) Ora, non solamente la identifico perfettamente quando si accosta a me e mi pervade, ma la riconosco senza la minima difficoltà dovunque si manifesti. La giovane puerpera, che accoglie per la prima volta tra le braccia il suo neonato e piange per l’enorme gioia; il padre che tiene teneramente sulle ginocchia il bimbo, leggendogli una storia, il vecchio su una panchina della piazza che osserva con un’aureola improvvisa di beatitudine i giochi dei bambini. Ma la riconosco anche all’opera nell’uomo grigio e solo che si attarda all’uscita delle scuole e inala fino allo stordimento, occhi semichiusi, l’odore della carne fresca in ondate che si frangono, in espansione, in profusione, in delirio di primavera.”
“Ciò che veramente credo, è che noi tutti apparteniamo a Paedophilia. Come regola generale Paedophilia dona la vita, il latte, la fiducia e le parole.
Ma capita che Paedophilia faccia tutto il contrario, che si ritorca contro la vita, seminando il terrore, il silenzio e la morte.
Se Paedophilia a grandi e piccini procura il bene più prezioso, talvolta fa il male più grande. E’ un incredibile mistero. E sfida talmente la coscienza che non si sa che dirne. Non è una colpa quella di provare Paedophilia. Tutto il mondo ci passa. E’ il più diffuso, il meno contestato, il più straziante dei sentimenti. Ma è al contempo il sentimento su cui meno ci si interroga e si riflette.”
p.s. Grazie a Luciana Piddiu e Giovanna Stancanelli per averlo scoperto e tradotto in italiano.
Le donne ‘colludono’ col maschilismo?
Interrroghiamo la nostra cultura greco-romana-cristiana
Stando alla definizione del dizionario Zingarelli, “puttana”significa, in senso etimologico, “puzzolente”, “sporco”, e in secondo luogo la denominazione volgare di “meretrice, prostituta”. Qualsiasi donna sa che non c’è bisogno di vendere il proprio corpo, offrire un servizio sessuale in cambio di denaro, per attirarsi l’epiteto insultante di “puttana”. Basta uscire dai canoni del riserbo e del contegno morale che gli uomini si aspettano da lei, allo scopo di occultarne la sessualità, considerata un male in se stessa o il bene riservato a un legittimo padrone. Nessuna meraviglia perciò se un giudizio analogo, di spregio e disapprovazione, sia caduto sul femminismo, sulle sue pratiche volte alla riappropriazione del corpo e della sessualità femminile.
Se ci si indigna e si considera degradante il fatto che la donna venga rappresentata come corpo erotico, corpo seduttivo offerto allo sguardo dell’uomo, non è forse perché l’enfasi con cui è accolto oggi il “femminile” nella sfera pubblica richiama in modo inequivocabile quella che è stata, nella cultura classica greco-cristiana, la “natura” della donna, cioè la sessualità, e di conseguenza la sua collocazione nella “vita inferiore” dell’umano?
La “maledizione” -come ha scritto giustamente Pierre Bourdieu – non è nella “natura” della donna, ma nell’aver essa forzatamente incorporato il pregiudizio che a tale “natura” ha dato forma e nomi. “Nella misura in cui le loro disposizioni sono il prodotto del pregiudizio sfavorevole contro il femminile che è istituito nell’ordine delle cose, le donne possono solo confermare costantemente tale pregiudizio. Questa logica è la logica della maledizione. Le stesse disposizioni che inducono gli uomini a lasciare alle donne i compiti inferiori e le attività ingrate e meschine, insomma a sbarazzarsi di tutti i comportamenti poco compatibili con l’idea che gli uomini si fanno della loro dignità, li portano anche ad accusarle di “ristrettezza mentale”(Il dominio maschile, Feltrinelli 1998).
Una forma di dominio “inscritta in tutto l’ordine sociale” e che “opera nell’oscurità dei corpi”, poteva facilmente essere scambiata per legge di natura, indurre l’uomo a dar corpo ai suoi fantasmi, ad allontanarli da sé, facendone depositario l’altro sesso.
Madre, prostituta o vergine, la donna “non è che mezzo per uno scopo”, nell’erotismo più elevato così come in quello più intimo. Interessante, per capire quanto questo immaginario permanga nella cultura e nel senso comune, è l’aspetto onnicomprensivo che assume la sessualità nella definizione del “carattere” della donna, e più in generale del suo rapporto con l’umano.
“La donna – scrive Otto Weininger (“Sesso e carattere”, Vienna 1903)- si consuma tutta nella vita sessuale, nella sfera dell’accoppiamento e della procreazione, nella relazione cioè di moglie e madre; essa viene totalmente assorbita, mentre l’uomo non è solamente sessuale (…) Personalità e individualità (Io, intelligibile) e anima, volontà e carattere, significano sempre la stessa cosa che, nella sfera umana, appartiene solo all’uomo, e manca alla donna (…) Il loro aspetto esteriore, ecco l’Io delle donne.”
E’ così che la distanza tra la moglie e la prostituta si riduce fin quasi a scomparire.
Presa dentro l’”enigma del dualismo” -la spinta dall’illimitato verso il limite, dello spirito verso la materia, della libertà verso la servitù-, la donna viene così a trovarsi al centro di una definizione quanto mai contraddittoria e paradossale del “femminile”. Se per un verso essa dipende per la sua esistenza dall’uomo, dall’altra, incarnando la “maledizione” di un maschile diviso tra l’animalità e il divino, viene a rivestire una missione decisiva per il sesso vincente.
La stessa “ragione” che la respinge e la separa da sé come minaccia per la sua integrità, è costretta subito dopo a riporre in lei alte doti di moralità e attese salvifiche. La sua appartenenza al genere umano le dà diritto all’equiparazione giuridica ma non all’ “eguaglianza morale e intellettuale”, che spetta solo al sesso che ha in sé corpo e anima, che è soggetto e oggetto al medesimo tempo.
Per rendersi conto di quanto queste contraddizioni siano ancora presenti nella condizione femminile, basterebbe analizzare più a fondo i nessi che ci sono sempre stati tra la riduzione della donna a corpo e la sua assenza dai luoghi dove si esprimono individualità, pensiero, volontà, potere decisionale.
Né sedotte né seduttrici…ma a volte mascolinamente competitive
La complicità femminile nel condividere, a proprio danno, logiche di potere e di violenza del sesso maschile continua a stupire, a sollevare interrogativi, come se fosse un evento inaspettato e dalla cause misteriose. Non sembra destare invece alcuna meraviglia che delle donne si possa dire una cosa e il suo contrario, considerarle una minaccia o una salvezza: la sessualità, “la colpa dell’uomo divenuta carne” o la sua redenzione.
Le donne non sono né sedotte né seduttrici, né vittime innocenti di un potere che si è appropriato dei loro corpi e delle loro menti, né maliarde disposte a usare contro l’uomo le loro ‘potenti attrattive’. Ma questa è l’immagine, contraddittoria, che con poche eccezioni è stata data di loro nel corso dei secoli e che ancora oggi affiora incontrastata nel discorso pubblico.
Sono uscite alcuni anni fa due inchieste che dicono, sostanzialmente, quanto grande sia la percentuale di donne che condividono le opinioni e i comportamenti più detestabili dei maschi: stando all’indagine condotta dall’Airs, l’associazione italiana per la ricerca in sessuologia (2009), il 33% pensa che è colpa delle donne stesse se vengono violentate o picchiate; in uno studio americano, raccontato dal New York Times, il mobbing subito dalle donne nei posti di lavoro sarebbe per il 70% praticato dalle proprie simili (La Repubblica 27.5.09).
Le attese nei loro confronti delle donne sono pari, per quantità e pesantezza, alle ingiurie materiali e ideologiche di cui sono state fatte oggetto. Gli uomini hanno sempre dialogato solo con se stessi, e, quando le donne hanno preso parola pubblica per dire del paradosso di un potere che passa attraverso i corpi e le esperienze più intime degli esseri umani, hanno chiuso le orecchie per non sentire.
Da oltre un secolo, il femminismo si interroga su cosa abbia comportato per le donne essere state espropriate del loro essere, a partire dal corpo e dalla sessualità, costrette a pensare se stesse e il mondo attraverso l’unica intelligenza che ha avuto cittadinanza nella storia. Da questa lunga ricerca di autonomia dal pensiero unico che ha finora guidato la civiltà nel suo sviluppo, non sono emersi né il femminile innocente mitizzato dagli adoratori ottocenteschi delle madri, come Bachofen e Michelet -la risorsa di umanità integra capace di rigenerare la stanca tempra dell’uomo-, né la figura di una replicante ben ammaestrata.
Nell’accostamento a una individualità femminile sottratta ai ruoli imposti e a stereotipi alienanti, si è potuto capire, a dispetto di tutte le semplificazioni, che molte restano le zone indecifrabili dove si incrociano, nel rapporto tra i sessi, l’amore e la violenza, la debolezza e la forza, il condizionamento biologico e la storia, l’adattamento e la scelta, la tenerezza e la rabbia, la dipendenza del figlio e il privilegio del padre.
Nessun uomo pensa seriamente che le donne siano esseri deboli e indifesi, corpi passivamente arresi alla potenza virile, avendole conosciute, nel momento del maggior bisogno e della maggiore inermità, come madri, generatrici prodighe di cure, e iniziatrici ai primi piaceri sessuali. Come si può pensare che di una capacità biologica diventata, attraverso il ruolo imposto di madre, moglie, amante dell’uomo, l’arma spuntata di un loro inequivocabile potere, le donne non si sarebbero servite? Perché avrebbero dovuto rinunciare a usare a loro vantaggio quelle che agli occhi del dominatore apparivano “potenti attrattive”- la sessualità e la maternità-, tenute perciò ferocemente sotto controllo?
Come potevano sopportare una sorellanza che si prospettava solo come condizione di miseria e di schiavitù, quando l’unico modo per sottrarvisi era la rivalità? Finché la ragione su cui si fonda la subalternità delle donne è anche, inspiegabilmente e contraddittoriamente, la loro unica moneta di scambio -un corpo generoso di vita, di cure, di piaceri sessuali-, ogni giudizio volto a esaltarle per dignità e abnegazione, o a screditarle per spudoratezza, non può che nascondere un fondo di ipocrisia, soprattutto da parte di chi, come l’uomo e la cultura che porta il suo segno, in qualunque forma economica, politica, sociale si sia espressa, non sembrano aver tenuto in alcun conto il terremoto che ha scosso le vite delle donne e, attraverso di esse, saperi, poteri e istituzioni, costruiti senza di loro.
In assenza di un processo analogo di liberazione da parte dell’uomo, costretto comunque a recitare il copione di una virilità anacronistica, anche la più estesa presenza delle donne oggi sulla scena pubblica è destinata a ‘femminilizzare’ il mondo sulla base di modelli tradizionali, di donne-oggetto sessuale, madri e mogli irreprensibili, androgini o donne mascolinamente competitive.
(Riduzione di un articolo uscito su “L’Altro” nel giugno 2009)
Grecia. Chi se ne ricorda più?
“Le cifre pubblicate da The Lancet sono appunto spaventose. La mortalità infantile appunto è quasi raddoppiata (aumento del 43 per cento come sopra), il numero dei bambini che nascono sottopeso è cresciuto del 19 per cento, il numero dei bimbi nati morti del 20 per cento. Costa troppo, anche per le mamme incinte, far seguire le gravidanze dai medici, la sanità pubblica copre molte meno prestazioni.”
Articolo pubblicato su Repubblica, per leggerlo clicca qui