Rossana Rossanda, “Una soglia sul mistero”, Lapis n.8, giugno 1990
“Anche se ha sgobbato e faticato nei millenni, nell’immaginario o simbolico non è definita dal fare, che è storico e contingente, ma dall’«apparire» in funzioni eterne, come la maternità e la seduzione. La prima sacrale e sacrificale, la seconda almeno nelle società patriarcali suo potere specifico e in qualche misura pericoloso per l’uomo, il quale è secondariamente se non per nulla seduttivo.
A lei la seduzione è così inerente che il «come appare» è decisivo: è anzitutto «vista». Uno specchio la accompagna sempre: è lo sguardo dell’uomo sul suo corpo, per cui è prima di tutto bella o brutta, bionda o bruna, gambe e seni e fianchi. Lei non può non vedersi vista. Le donne che fanno come se questo non fosse sono considerate virago, negatrici di sè. E sono rarissime.
Siamo così avvezze a curare la nostra apparenza, che appare eccentrico il non farlo. E sappiamo che il messaggio che con l’apparenza mandiamo non funge anzitutto da rivelatore dello status sociale ma del nostro corpo, enfatizzato dall’abito e dal maquillage. E per noi più che per l’uomo una deformazione, o la vecchiezza che sempre la comporta, fa un qualche ribrezzo, è una caricatura, un laido degenerare. Crudelissimo è lo standing cui la donna è sottoposta anche di fronte a se stessa: mi vesto «per me», mi trucco per me. Donna è bello. È beninteso una rivendicazione di autonomia. Ma l’aggettivo non è scelto a caso. Bellezza appartiene alla donna nel senso che se non è bella non è. O dev’essere una donna straordinariamente superiore, e anche allora si dice «malgrado…».
Il canone resta per lei obbligatorio, per l’uomo no. Ne viene che la nostra percezione del corpo deve attraversare, oltre a tutte le interdizioni primarie, uno spesso diaframma culturale. Se per uomo e donna il corpo «non si sa», o si sa meno di quanto si sappia di qualunque altro oggetto prossimo e presente, il corpo femminile si sa probabilmente meno di quello maschile per lo schermo dell’immagine/modello imposta alla donna in tutte le civiltà e attinente al suo ruolo sessuale.
In quanto tale, questa immagine di sè, differentemente da quella maschile che si realizza in molte altre rappresentazioni, ha del sesso l’oscurità e il pericolo, la natura estrema di momento di accettazione o rifiuto, di esperienza limite. (Che un po’ ingenuamente le bene intenzionate «liberazioni sessuali» tentano di addomesticare in tecnica soddisfacente, ridotta nell’impatto emotivo. Ancora una suggestione maschile, chissà quanto veritiera: far l’amore vuol dire sentirsi meglio, come l’assetato bene una spremuta d’arancio, con un poco di affettività in più e via).
Il dover fare i conti con questa immagine coattiva, con il vedersi vista, complica il rapporto femminile col corpo aggiungendosi al carico simbolico della maternità; sono due corazze che le vengono pesantemente collocate sul «guscio». Che in lei è importantissimo anche in senso stretto, di pelle.”
