La ”risorsa dell’intimità”

Francois Jullien, “Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’Amore”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013
Un libro insolito, che apre alla speranza di poter portare l’ amore “oltre le frontiere del narcisismo”, dentro cui sembra sia rimasto impigliato finora, col suo carico di tenerezza e violenza.
Alcuni frammenti:
“Ma affrontare una cosa così singolare come l’intimità non comporterà forse ‘filosofare in altro modo’? L’intimità non indica, infatti, proprio ciò che più resiste all’astrazione e, quindi, al concetto?”
“Ma insisterò soprattutto sulla necessità in cui ci troviamo, oggi, in un’Europa che si disgrega, ma le cui categorie mentali, più che unificare, standardizzano il mondo intero: la necessità di ripensare l’originalità della cultura europea e di misurarne anzitutto la storicità. A questo proposito l’emergere dell’intimità servirà da rivelatore (…) In particolare, tornare su ciò che, nel nostro pensiero, abbiamo a tal punto assimilato e di cui abbiamo a tal punto occultato i pregiudizi da prenderli come un’evidenza: non li pensiamo più –non ci pensiamo più a pensarli.
E’ proprio il caso dell’ “Amore”, uno dei grandi miti dell’Occidente. Ma da questo mito, come uscirne? Più che “liberararsene”, come svincolarsene?
“…l’intimità è legata al pensiero che si lascia andare, che è più portato a raccogliere che non a cogliere –in altri termini, la necessità di abbandonarsi la rende più difficile da catturare. In quanto pregnante e non distinguibile, è la cosa più fugace ma al tempo stesso più aperta; è evasiva e perciò in appropriabile, ma è anche la più personale; si associa a un luogo, a un’ora, s’impregna d’un paesaggio, si afferra in modo circostanziato e ambientale. Più che studiarla la si ricorda; o meglio, più che ricordarsela torna in mente in modo incidentale; e quando succede, vorremmo più ‘confidarla’ che non confessarla. Da qui il fatto che tende più a essere condivisa che non a farsi ‘conoscere’”.
“L’intimità usa attivamente il silenzio, fa parlare i gesti, gli sguardi, un sorriso, un tono di voce. I gesti, più delle parole, sono vettori e staffette dell’intimità e la rendono effettiva, al cui confronto la parola è ciarliera e limitata; frena nel momento stesso in cui enuncia, crea un blocco e una resistenza, invece di lasciar passare (…) è la sfida più alta portata all’impero del logos; non si lascia andare alla facilità di dire e anche di ‘dire tutto’, di determinare e credere di controllare, ma insinua, stringe tacitamente un accordo, lo propaga e lo fa progredire.”
“Guardandola che mi guarda è come se l’accompagnassi in me stesso: sono passato ‘dall’altra parte’, al tempo stesso che la mia si apre (…) attraverso il suo sguardo incomincio a percepirmi da fuori. L’ho chiamata ‘dolcezza’, la dolcezza dello sguardo dell’Altro su di me, ma non ha niente di affettivo o di psicologico, prende una piega metafisica, diventando una categoria innata: dice che la frontiera è caduta, libera dall’iniziativa del soggetto, sostituisce l’ambiente, il complice, all’eterna frontalità. Come ci si guarda, ci si racconta: come ci si può guardare per ore, ci si può raccontare senza annoiarsi. Raccontar-si non significa tanto, d’altronde, raccontare un ‘sé’ prendendosi oggetto del dire, perché non è la forma riflessiva del verbo, ma esprime la relazione reciproca. Ci si racconta, cioè dall’uno all’altro, come ci si parla: ‘raccontarsi’ l’un l’altro è anche un modo di attivare la riflessività e reciprocità dell’intimità e non ha altro fine.”

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