(Frammenti da un’intervista di Giovanni Zaccherini, pubblicata su “La voce di Romagna”, 14/12/2012)
Quando penso ai 25 anni che ho trascorso in Romagna, alla condizione di povertà, fatica e violenza in cui vivevano allora le famiglie contadine, mi sembra di aver vissuto un’altra vita, fatta di un tempo infinito e di orizzonti lontani solo presentiti, oltre la riva di un canale o un filare di viti. Non posso dire di averne riportato solo dolore e ferite profonde. Quando parlo di “memoria del corpo”, di sedimenti emotivi, immaginari, che non riescono neppure a diventare ricordi, ma che ci sono e muovono pensieri, stati d’animo, sbalzi inaspettati di umore, penso a quella radice di terra, temprata da donne e uomini di straordinaria vitalità, pur costretti a lavori servili, capaci di passare dalla zappa al ballo, dall’ira alla battuta di spirito. Delle donne conosciute allora ho portato con me un’idea contraddittoria, confusa, su cui ho avuto modo di riflettere solo in seguito alla luce della consapevolezza nuova che mi veniva dal femminismo. Le sentivo forti più dei loro mariti e padri, per certi versi emancipate, nel lavoro, nella sessualità, eppure sottomesse, sottoposte a maltrattamenti, lucide e impietose nel mettere allo scoperto le debolezze e la violenza maschile, ma sentimentalmente inclini a perdonarli e a sostenerli, come si fa coi bambini.
(…)
Non c’è dubbio: il passaggio dal dialetto, la lingua parlata in famiglia, all’italiano imparato a scuola, ha provocato fin dalle elementari una separazione destinata a durare tra la fisicità dominante, per la classe sociale e il sesso “senza storia” a cui appartenevo, e un pensiero che non poteva raccoglierla, tradurla nei linguaggi colti della letteratura, dell’arte, della filosofia. Il dualismo, corpo-mente, natura-cultura, è diventato non a caso il filo conduttore di tutta la mia formazione intellettuale. Il mondo emotivo, legato alla mia infanzia e adolescenza è rimasto in gran parte consegnato al dialetto, e ho invidiato il mio amico, compaesano, Giuseppe Bellosi, che di quella nostra prima lingua è riuscito a fare opera poetica. E’ come se avesse scritto anche per me.
Non posso dire tuttavia che il corpo, le passioni non siano entrate nella mia scrittura. Avvicinare la parola al vissuto corporeo è stato un desiderio costante del mio percorso intellettuale, un po’ come ritrovare radici di terra troppo violentemente strappate, e ha comportato una lunga riflessione su me stessa, una ricerca di anni. E’ stato solo nel corso della terapia analitica che ho fatto negli anni ’80, che ho sentito la mia scrittura cambiare, il pensiero teorico lasciarsi contaminare da spinte emotive, la chiarezza del ragionamento dalla densità sentimentale dei ricordi. E’ stato in quegli anni che ho scritto il mio libro più “lirico”, anche se si trattava di una scrittura saggistica: Come nasce il sogno d’amore. Del resto, l’idea di uscire dai dualismi che ci hanno tenuto divisi in noi stessi, è la lezione più originale del femminismo. Il desiderio di ritrovare l’interezza del proprio essere non poteva che partire dalle donne, che col corpo sono state identificate, ma di cui hanno subito al medesimo tempo una violenta espropriazione.
(…)
Ho detto spesso che i miei libri nascono “strada facendo”. Non so cosa vuole dire mettersi a tavolino, avere un’idea in mente articolata in capitoli, comporre le argomentazioni secondo un ordine prestabilito. Forse questo fanno gli studiosi. Io ho avuto la fortuna di non avere una formazione accademica, anche se ha fatto l’università, e di aver cominciato la mia scrittura pubblica con un movimento antiautoritario che mi permetteva di fare della vita, dell’esperienza personale, non più il “fuori tema”, come era stato al liceo, ma “il tema”. Mi considero una pensatrice libera, solitaria e socievole tanto da poter tenere insieme una pratica politica fatta di incontri, riflessione collettiva, e momenti in cui il pensiero torna sui propri passi, e ritrova il silenzio necessario per scavare nel profondo della vita personale, inseguendo quei tracciati remoti che accompagnano l’individuo come un destino. Se per un verso il mio impegno nel movimento delle donne mi ha portato ad allargare sempre di più il cerchio delle amicizie, degli interessi, delle conoscenze, gli scritti –relazioni, articoli, saggi-,
per quanto all’apparenza occasionali, a guardare bene rientrano sempre in qualche modo nel loro “solco” antico. Sono rimasta la figlia del contadino, che aiutava i famigliari nella semina, che sognava le strade del mondo ma poi si rintanava dentro le braccia protettive degli alberi.
Foto di Cesare Ballardini