‘Batte forte il mattino’

Una bella poesia di Nicoletta Buonapace, amica carissima impegnata insieme a me nella Libera Università delle Donne.

Batte forte il mattino
ancora nel sonno
scosso di sogni
sta lì
trepidante
nel petto
cardellino inseguito

L’alto cielo
indifferente
precipita nel sole
da una finestra aperta
inonda d’azzurro
ignote destinazioni

n.b.

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Scritture di esperienza

Frammenti dalla Lettura al libro di Elia Malagò:
“L’ombra ripresa”, Tre Lune Edizioni, 1999.

Ma se le “radici” che conservano oscuramente tanta parte di sé sono lasciate così a lungo nella dimenticanza –”nascoste ai propri stessi occhi”, “sepolte e mai sfiorate”–, è soprattutto perché le accompagna una sofferenza che “non si è disposti a vivere neanche nel ricordo”.

Quando l’infanzia diventa “cosa da non dire”, il “buco nero” di un pianeta che è impossibile “ricostruire”, disegnato ora da punti vaghi ora dall’esattezza di “inutili particolari”, significa che il dolore che l’ha attraversata ha cambiato nome, costretto come la punta di un iceberg a lasciar crescere nell’ombra i suoi sedimenti, conficcati nel petto come tenaglie, e a convertire il bisogno di consolazione nella forza di un’orgogliosa solitudine.

Per questo i “racconti di casa”, avverte Elia Malagò, fin dalle prime pagine del suo libro, non possono essere detti con la leggerezza di un divertimento, né confondersi con le “filastrocche di controcanto” inventate per la dolcezza di un pomeriggio fuori città.
“Tornare a capo”, facendo finta che sia l’inizio, è il movimento raro di un pensiero che ha faticosamente misurato il tempo particolare dell’infanzia, “breve” e “lunghissimo”, casuale e definitivo, concluso e irrimediabile.

“Terribile l’infanzia. Ogni volta che si respira e si muore, si svolta l’angolo di casa o si va nel bosco è per sempre. Quando cessa la felicità e entra la vita con la sua angoscia, si chiude la porta. Non si riaprirà mai più, neanche per un momento, neanche in un sogno, senza che non si sappia anche il sapore del rimpianto, non si conosca con precisione che è tutto finito. Sempre e mai più. Accade nel giro di pochi anni, ed è irrimediabile. Vissuto, stabilito e risolto una volta per sempre, con le parole definitive che si spalancano la strada con la violenza di una tromba d’aria: in un attimo si insediano per tutto iI resto della vita.”

L’infanzia –la Braiola, il cortile che come “un’isola nel cuore di un paese del Po” ha racchiuso segrete comunanze di una “razza diversa”, le asprezze di gente povera e fiera– è l’osservatorio da cui si impara ad amare e odiare a lungo, la preistoria sepolta, ma mai del tutto cancellata di una vita costretta a ricalcarla a sua insaputa, o col sapere muto di “impronte” durature infossate nelle viscere, tra le scapole, nella falcata delle gambe. Si può accettare un “ritorno a casa” consapevole di una perdita definitiva e disposto a dire “i nomi della paura”, “snidare il tormento dei sogni” e della “ragione che precede”, soltanto quando la “follia” di impenetrabili acque originarie ha svelato il suo segreto e quando la felicità totale riposta nelle fusioni intime dei primi amori, ha riconosciuto il suo ambiguo sapore di

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Eredi di una libertà controversa

“La violenza più insidiosa e più lenta da sradicare si capi’ allora che era l’aver forzatamente fatta propria la rappresentazione del mondo dettata dal sesso vincente, la collusione involontaria tra la vittima e l’aggressore. Si prospettava un processo di liberazione e di autonomia che abbracciava territori di esperienza fino allora separati e contrapposti –la famiglia e la società, la sessualità e la politica, l’individuo e la collettività, la biologia e la storia- per il quale non sarebbe bastata certo una generazione.”

Da un articolo pubblicato su tysm il 21.I.2016, per leggerlo clicca qui

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“UN AMICO E’ UN LUOGO DI TRANQUILLO DEPOSITO DI SÉ'”

(Rossana Rossanda)
La gratuità dell’amicizia – come dice Rossanda- sta nel dare senza togliere, nel lasciare che uno si ponga di fronte all’altro per quello che è, senza infingimenti, senza ricatti silenziosi o aspettative nascoste. Dove non c’è aggrappamento, indispensabilità reciproca, non c’è tentazione di fuga né ansia di possesso. L’amico si incontra senza risentimento per la lunga assenza, e dal silenzio che è calato in mezzo il discorso riprende come se non fosse mai stato interrotto. Difficile darne una definizione più precisa e suggestiva: “un tranquillo deposito di sé”.
Aggiungo: c’è da sperare che un giorno si possa dire lo stesso dell’amore.

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‘Il mestiere più antico del mondo’

Ho conosciuto Gabriella Pacini in questi giorni al Laboratorio di scrittura di esperienza tenuto a Roma alla Casa internazionale delle donne, ma solo ora leggo con emozione questo suo testo nella trasposizione teatrale che ne è stata fatta e che spero di poter vedere presto a Milano.
Come ostetrica, Gabriella ha potuto osservare e riflettere sulla violenza, che resta ancora poco dicibile per la retorica di cui è ancora avvolta la maternità, sulle donne in una sala parto.
“Mi ricordo il primo turno, ho cominciato con una notte. Si stava dalle nove la sera fino al mattino alle sette, senza fermarsi un attimo. Eravamo sei allieve e quattro ostetriche per ogni turno, la più anziana era la capo ostetrica e comandava tutte quante. La sala travaglio era una grande stanza con sei letti e un soffitto alto con dei neon grigi e sporchi che ce li facevano sembrare ancora più alto e triste. Era d’estate, si sentivano le cicale e faceva un caldo terribile, da mancare l’aria. Le donne erano tre per ogni lato, ognuna con la sua storia: da una parte c’era quella che aveva appena iniziato con i dolori e ci guardava con aria spaventata sentendo le urla della poverina che era già nella sala parto lì accanto. Su un altro letto c’era una che piangeva perché le era morto il bambino dentro e adesso le toccava anche di partorirlo, morto, e non si capiva se piangeva di più per la creatura che era morta o per la paura di passare tutti quei dolori…”

Clicca qui per vedere il video 

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Milano: un paesaggio mentale?

 

“Milano -si legge in una breve intervista a Elvio Fachinelli del 1989, l’anno sua morte- “è una città in qualche modo astratta, asettica, ‘non’ provinciale e proprio per questo molto attraente per un intellettuale”. A me è capitato spesso, negli ultimi anni, di definirla “un paesaggio mentale: un luogo dove i sensi si eclissano, perché non hanno niente a cui appoggiarsi e su cui sostare, e dove, al contrario, i pensieri possono viaggiare indisturbati, affondare nella memoria o aprirsi a soluzioni nuove, impensate.

Ma è sempre stata così, per me, per Elvio, per tutti quelli che, arrivati qui dalla provincia negli anni cinquanta o sessanta, hanno poi respirato la ventata libertaria del ’68, del movimento non autoritario e del femminismo? E’ vero che i “gruppi affinità, di simpatia, di bizzarria” che si formarono allora, intolleranti dei vincoli imposti dalla tradizione e desiderosi di creare “nuove istituzioni d’amore”, si sono rapidamente dissolti come “cristalli liquidi”. Ma cosa ha poi impedito che si ricristallizzassero altrove? Da quando, per molte donne e uomini che l’abitano come me da oltre quarant’anni, e che si sono abituati a pensarla come “casa”, Milano è diventata così evanescente, così famigliare e sconosciuta al medesimo tempo?

Dietro l’etichetta di “anni di piombo”, si può dire che è sparito un decennio di tentativi generosi e straordinariamente creativi, di portare al centro della città quelle che sono state da sempre le sue periferie, i suoi margini, i suoi “rifiuti” storici: una perdita salutare di confini che lasciava intravedere nuove forme di socialità, intrecci inusuali di privato e pubblico, di affetti, amicizie e progettualità politica, di territori fino ad allora separati, come la scuola e la fabbrica, gli studi degli analisti e le piazze. Non c’è radicamento più solido e duraturo, più esente da ambivalenze -nostalgia e tentativi di fuga- di quello che si costruisce dietro la spinta di una passione politica che non separa la sorte dell’individuo dalla vita sociale, le pareti domestiche dalle strade della città, gli affetti intimi dalle collettività in lotta, i casermoni anonimi delle periferie dai palazzi monumentali del centro città.

Per la sua natura composita, che la vede ogni volta ripopolarsi di masse inurbate, ora dalla provincia italiana ora dalla provincia del mondo, Milano si può considerare il luogo più adatto a produrre fertili spaesamenti e nuove imprevedibili convivenze. La mancanza di grandi parchi, la sua fisicità dura e disadorna, in alcuni casi respingente, la fa somigliare a una grande fabbrica destinata a svuotarsi nei fine settimana, lasciando allo scoperto solo gli ultimi venuti. Ma è questa, paradossalmente, la condizione che spinge chi la abita a disegnare la mappa cittadina secondo le linee del paesaggio che più si avvicina alle proprie necessità vitali e ai propri desideri. Non so spiegarmi altrimenti il fatto che, a distanza di alcuni decenni, e coi mutamenti che sono intervenuti nel frattempo, molte delle aggregazioni e dei percorsi che sono nati negli anni settanta, siano ancora presenti e attivi, come un paese dentro la città che, pur avendoli di nuovo messi ai margini, tuttavia non li ignora.

Se non ho mai pensato seriamente di trasferirmi nelle città di cui ammiro ogni volta la bellezza e la vivibilità, è anche vero che ho potuto restringere il perimetro della mia collocazione e dei miei spostamenti milanesi, perché spesso i pensieri o un treno mi portano altrove. Forse il migrante che è arrivato qui anonimo e straniero è destinato in parte a rimanere tale, soprattutto se si arresta, insieme all’accoglimento, la disponibilità a costruire insieme il luogo in cui ci si è trovati a vivere.
I richiami al territorio, al radicamento, alle appartenenze identitarie, alle mitologie fondative, che oggi vengono da più parti a tentare di chiudere ferite e lacerazioni profonde, non aiutano a uscire dalla posizione di stallo che si intuisce diffusa tra i cittadini milanesi, fatta di presenza e assenza, impegno e disinteresse, operosità e inerzia. Il senso di impotenza che nasce dagli sforzi reiterati e quasi sempre delusi di fare incontrare le collettività sparse, diverse e spesso sconosciute le une alle
altre –che ancora si adoperano per principi elementari di libertà, giustizia sociale, di rispetto reciproco-, finisce inevitabilmente per produrre rassegnazione, adattamento e resa all’esistente.
I corsi e ricorsi elettorali lo riportano allo scoperto, lo acuiscono e si prestano quasi sempre a offrire ragioni ulteriori di disimpegno.

Eppure, Milano è la città che non ha mai smesso di manifestare per le strade –lavoratori, studenti, maestre e bambini della scuola elementare-, che ha visto riemergere, quando tutti lo davano per morto, un movimento di donne capace di ritrovarsi in grandi assemblee, e un corteo di oltre duecentomila presenze, come è stato quello promosso da “Usciamo dal silenzio”del 14 gennaio 2006. Sono questi segni, così durevolmente impressi sui muri, sulle strade, sui volti che si sono conosciuti e che di tanto in tanto si ritrovano, camminando insieme fianco a fianco come in passato, a tenermi comunque ancorata a un luogo che sembra dissolversi ogni volta che si chiude la porta di casa? Per chi è venuto da fuori –i provinciali di ieri e i migranti di oggi-, Milano conserva il fascino ambiguo, contraddittorio, che ha l’anonimato rispetto alle oppressive comunità d’origine, promessa di libertà e sogno di cambiamento, rientro in se stessi e allargamento del cerchio della vita.
Piazza Duomo, che quasi scompare divorata dalla massa che l’attraversa durante la settimana, la domenica prende sorprendentemente la fisionomia bonaria, pigra e ritualistica, della piazza di paese, monumento e simbolo dell’anima duplice e della seduzione segreta che esercita questa città per tutti coloro che un giorno si sono messi in viaggio alla ricerca di un “altrove”.

(da “Gli Altri, 2 ottobre 2010)

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Il manifesto della manifestazione tradotto da Riccardo Russo

Il Manifesto della manifestazione tradotto.
Grazie a Riccardo Russo e alla Rete della conoscenza.
“La nostra liberazione è legata l’una a quella degli altri. La Marcia delle Donne su Washington include leader delle organizzazioni e delle comunità che hanno costruito per generazioni le fondamenta del progresso sociale. Accogliamo la attiva collaborazione e onoriamo l’eredità che i movimenti a noi precedenti ci hanno lasciato – le suffragette e gli/le abolizionist_, il Movimento dei Diritti Civili, il movimento femminista, il Movimento dei Nativi Americani, Occupy Wall Street, il movimento per il matrimonio egualitario, il movimento Black Lives Matter e tanti altri ancora – e lo facciamo utilizzando una struttura orizzontale focalizzandoci su un programma che sia ambizioso, basilare e integrale.”

Qui il testo integrale su Rete della conoscenza

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