Un importante intervento di Eugenio Borgna sul rischio di patologizzare ogni sofferenza.
“Il successo del manuale è dato dalla sua capacità di uniformarsi alla tendenza oggi dominante: quella di escludere l’interiorità dalle scelte che facciamo, di proporre modelli che consentano la realizzazione automatica delle cose, di trovare soluzioni prefabbricate, senza che la ricerca dei significati ci faccia perdere tempo. È ovvio che è più faticoso fare una diagnosi che prescinda dai criteri semplici e lapalissiani proposti dal “Dsm”. Ma il tempo che si perde per capire un paziente ha un significato. È testimone di quella solidarietà umana che dovrebbe essere alla base del rapporto con l’altro».
Archivi mensili per marzo 2017
Tramite lettera
Esperienze precedenti mi hanno insegnato che la lettera che si manda a una rubrica di posta ha il singolare privilegio di tenere insieme la ‘confidenza’, la consegna fiduciosa dei propri pensieri a un interlocutore attento, e l’estensione massima che può avere il sentire del singolo, fatto oggetto di riflessione collettiva. Scrivere a uno per parlare a molti. L’angolo della posta può ambire a disegnare strade che non portino a contrapporre il Cuore e la Politica, o a farne, come capita sempre più spesso, una poltiglia velenosa.
Cara Lea,
dopo aver letto la tua rubrica di posta sugli Altri del 12 marzo, ti scrivo per parlare di un altro tema su cui regna il silenzio, il tema dell’infanticidio. Dal 2004 al 2008 sono stati 133 i casi segnalati,di cui i più recenti ancora freschi di cronaca. Quello che colpisce è la scarsità di informazione con cui vengono trattate queste notizie. Che cosa c’è dietro? Quanta violenza privata? Così un paio di anni fa ho scritto sul tema un testo letto in pubblico. Alcune donne, non preparate, non hanno celato l’imbarazzo dopo l’ascolto. Poi è uscito il saggio di Elisabeth Badinter , Le conflit. La femme et la mére, che riapre la riflessione. Non ti sembra che dopo le conquiste del femminismo storico, la donna sia stata ricacciata nel ruolo nostalgico di madre, accompagnato e appesantito tuttavia dal desiderio di non dover rinunciare al lavoro fuori casa? In questo processo che ha investito il femminile, il maschile non è stato modificato nella sostanza per cui ora alla donna tocca un carico di lavoro sovrumano. Da dove altrimenti il numero crescente di donne che uccidono i figli? Sento una profonda comprensione per la solitudine in cui vivono queste donne, al di là di un troppo facile giudizio moralistico o pietistico.
Bianca Maria Neri
Cara Bianca Maria,
sulla donna che uccide il proprio figlio cade quasi sempre un giudizio impietoso. Se non si può addebitarle l’uso di droghe, come in uno dei casi più recenti, si lascia intendere che, a distoglierla da una doverosa dedizione materna, sono intervenute ‘velleità’ nascoste o malcelate -carriere, amori, successi- una distrazione imperdonabile rispetto a quella che resta, al di là dei cambiamenti, il ‘naturale destino’ femminile. Sulla ‘violenza privata’ che c’è dietro, nulla si dice perché della maternità, dell’oscuro travaglio di vita e di morte che esso comporta molto poco hanno detto le donne stesse. Nella Prefazione al romanzo Teresa, di Artur Schnitzler, Sibilla Aleramo commenta così il tentato infanticidio della protagonista: “quella feroce brama di annientamento, quell’attimo di coscienza, non sai se disumana o sovrumana, in cui la donna si ribella alla natura, si ribella a essere strumento di vita, poi quel trapasso dall’odio all’amore, quell’accettazione sommessa, quel rapimento e, infine, unica ma formidabile rivalsa, quel sentimento assoluto per tutta l’eternità, che il figlio è suo, soltanto suo”. Con una lucidità che neppure il femminismo sembra aver conservato, Sibilla sottolinea il legame perverso tra due violenze: quella che ha fatto della donna lo strumento della conservazione della specie per secoli, senza il suo consenso, e quella che, a sua volta, per ‘rivalsa’ o per un disperato rifiuto, la donna è spinta a esercitare sul figlio come suo ‘possesso’. ‘Si può uccidere un bambino perché piange?’-ci si è chiesti a proposito del delitto di Cogne. La risposta tragica e banale che si esita a dare è ‘sì, si può’, almeno finché si pensa che la sorte della madre e del figlio siano legate per sempre e in modo esclusivo, che per crescere l’individualità dell’uno sia necessario il sacrificio dell’individualità dell’altra.
(da “La posta di lea”, giornale “Gli Altri”, anno 2010)
Chi ha paura della cultura femminista?
Perché, mi chiedeva Rossana Rossanda, in uno degli ultimi incontri che abbiamo avuto in Italia, le donne oggi presenti in gran numero nella vita pubblica non riescono a cambiarla, perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura? E’ la stessa domanda che ci fece alla fine degli anni ’70 e che torna ancora oggi di sconfortante attualità.
Sono tentata di elencare, come faccio ormai da tempo, le difficoltà e gli ostacoli, esterni ed interni, che ha incontrato il movimento delle donne: la resistenza degli uomini ad abbandonare poteri e ruoli che considerano “connaturati” al loro sesso, e a cui fa da copertura più o meno consapevole la “neutralità”; l’intuizione, sia pure oscura e tenuta timorosamente a bada dalla sinistra, che mettere a tema la questione uomo-donna, come ricordava Pietro Ingrao già trent’anni fa, “comporta affrontare punti di fondo dell’origine della società in generale, investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro; incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, forme e natura dell’assistenza” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989).
E’ questa “rivoluzione” dell’ordine esistente – e quindi non solo la lotta contro governi conservatori, politici corrotti e antidemocratici- che spaventa? Sono le angosce profonde, le insicurezze insopportabili di chi vede comparire nell’autonomia di pensiero delle donne lo spettro di una rimossa inermità e dipendenza infantile dal corpo che l’ha generato?
Qualunque siano le ragioni e le forme che ha preso nel tempo la misoginia maschile, diffusa a destra come a sinistra, tra politici e intellettuali, capitalisti e lavoratori, nativi e migranti, l’interrogativo che più inquieta resta quello che riguarda le donne stesse, la loro rabbiosa acquiescenza, l’adattamento a ruoli tradizionali di ancelle o cortigiane, il profluvio di discorsi lamentosi sui famigliari da accudire, sulle carriere interrotte, sui meriti calpestati, sul doppio e triplo fardello di chi si trova oggi a far da ponte tra privato e pubblico.
Se la bontà come virtù ha perso smalto, non si può dire lo stesso per l’imperativo che vuole le donne “brave e belle”. Non è forse questa l’immagine femminile che ci viene offerta indistintamente dagli schermi televisivi e dalla scena politica? Se non sono corpi-sfondo- cornice, esposti come specchi per le allodole anche in trasmissioni di carattere culturale, sono le diligenti segretarie che filtrano le mail e a cui il conduttore rivolge di tanto in tanto paterni sguardi, chiamandole confidenzialmente per nome. Oppure sono loro stesse conduttrici, preferibilmente di bella presenza, preparate, impeccabili, attente e pazienti nell’ascolto come nella mediazione, in quell’arena di oratori scalmanati che sono ormai i dibattiti televisivi.
A quarant’anni dalla nascita del neofemminismo, che ha messo in discussione in modo radicale il modello maschile di società -a partire dalla divisione tra privato e pubblico, identificata col diverso destino di un sesso e dell’altro-, non si può dire che manchino una cultura e pratiche politiche portatrici di questa consapevolezza e responsabilità nuove. Quello che qualcuno ha chiamato sprezzantemente “piccoli cenacoli autoreferenziali”, residui di una “vecchia guardia” femminista preoccupata di mantenere la propria “egemonia, sono le centinaia di associazioni, gruppi, centri di documentazioni, biblioteche, librerie, case editrici, collettivi, case delle donne, centri antiviolenza, riviste, ecc., che hanno resistito finora all’arrogante messa sotto silenzio e marginalizzazione da parte della cultura dominante, custodi di un patrimonio di sapere che potrebbe dare risposte adeguate agli interrogativi del presente: personalizzazione della politica, populismo, razzismo, omofobia, trionfo della merce, esaurimento delle risorse naturali, crisi di un modello di sviluppo.
L’indignazione per le donne-oggetto, per lo scambio sesso-carriere, per la prostituzione trattata come opportunità di emancipazione femminile, ha portato anni fa un milione di donne e uomini nelle piazze. Come mai allora tanto silenzio sulla cancellazione dell’intelligenza che ha saputo negli anni costruire un’immagine del maschile e del femminile fuori dagli stereotipi di genere, un’idea di individuo “intero”, né solo corpo né solo mente, la prospettiva di una collettività responsabile della conservazione della vita, di quello che è rimasto finora destino di un sesso solo?
Non c’è bisogno di richiamare l’attenzione, come abbiamo fatto tante volte, sui grandi eventi culturali -la Fiera del libro di Torino, il convegno annuale dei filosofi di Modena, ecc.- dove i libri e le riviste del femminismo sono pressoché assenti.
Nel suo delirante ma lucidissimo sessismo, Otto Weininger ebbe almeno il coraggio di scrivere che “si può ben pretendere l’equiparazione giuridica dell’uomo e della
donna senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale”.
Non mi sembra che, a oltre un secolo di distanza, si sia andati molto oltre.
28 marzo 1941. Ricorrenze: Virginia Woolf
Viriginia Woolf:
“Lasciate dunque, come un bimbo che avanzi scalzo nelle acque fredde di un fiume, che io discenda di nuovo in quella corrente.”
In quel fiume, vicino a casa, il 28 marzo 1941, Virginia Woolf, dopo essersi riempita le tasche di sassi, discese per porre fine alla propria vita.
Frammenti da “Momenti di essere”, La Tartaruga Edizioni, Milano 1977
“Il passato ritorna soltanto quando il presente scorre così liscio da parere la superficie mobile di un fiume profondo. Allora si vede attraverso la superficie fino in fondo. In quei momenti ritrovo la soddisfazione più grande, che non è di pensare al passato; ma di vivere, in quei momenti, più appieno il presente (…) scrivo per ritrovare il senso del presente nell’ombra che il passato getta su questa superficie frantumata.
Lasciate dunque, come un bimbo che avanzi scalzo nelle acque fredde di un fiume, che io discenda di nuovo in quella corrente.”
“Non è dunque possibile, mi sono chiesta spesso, che le cose vissute con grande intensità posseggano una vita indipendente dalla nostra mente; continuino anzi tuttora a esistere? E se è così, non sarà possibile in futuro inventare una macchina per intercettarle? L’immagino, il passato, come un viale alle mie spalle; un lungo nastro di scene, di emozioni. E laggiù, alla fine del viale, stanno gli orti e la stanza dei bambini (…) Le emozioni intense non possono non lasciare traccia; si tratta solo di scoprire come ricollegarsi di nuovo con esse, e potremo rivivere per intero la nostra vita dall’inizio.”
“Fino ai quarant’anni e oltre -potrei stabilire la data controllando quando scrissi “Gita al faro”, ma non ho voglia ora di prendermi la briga- fui ossessionata dalla presenza di mia madre. Ne udivo la voce, la vedevo, mi immaginavo cosa avrebbe detto o fatto in ogni momento della mia giornata. Era una delle presenze invisibili che svolgono tanta parte in ogni vita umana (…) ebbene, se non sappiamo analizzare queste presenze invisibili, sapremo ben poco del soggetto delle memorie; e allora, che futile attività diventa scrivere biografie. Mi vedo come un pesce nella corrente; sospinto altrove; trattenuto; ma non so descrivere la corrente.”
“Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square pensai, come mi accade talvolta con i miei libri, pensai “Gita la faro” (..) scrissi il libro molto rapidamente; e quando l’ebbi finito, smisi di essere ossessionata da mia madre: non odo più la sua voce; non la vedo. Probabilmente feci a me stessa quello che gli psicoanalisti fanno ai loro pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda. Ed esprimendola ne trovai la spiegazione e la potei riportare placata.”
“Eccola, mia madre, al centro della vasta cattedrale che era l’infanzia; era là dall’inizio (…) E, s’intende, era il centro di tutto. Il centro:forse è questa la parola che esprime meglio la diffusa sensazione che avevo di vivere immersa così totalmente nell’atmosfera di lei, da non distaccarmi mai abbastanza da vederla come persona (…) Quante cose sconnesse ricordo di mia madre, se lascio scorrere il pensiero; ma tutte di lei in compagnia; di lei in mezzo ad altri; di lei generalizzata; dispersa, onnipresente, di lei come creatrice di quell’affollato, allegro mondo ruotante al centro della mia infanzia. “
Le donne ‘schiave’ della loro forza?
“Il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
(Sibilla Aleramo)
A sottrarre la cura alla naturalizzazione che ne aveva fatto per secoli un destino femminile, confuso con l’attitudine materna e con l’amore, era già stata negli anni ’70 Lotta Femminista: un lavoro gratuito che di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale, svolto –come scrive Antonella Picchio– fuori dalle negoziazioni dirette con le imprese e per lo più tacitato e invisibile nelle negoziazioni con lo Stato”. Ma a distanza di tempo forse è possibile fare un passo ulteriore, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare o la monetizzazione dello Stato, e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellare.
E’ su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata, diventare un “paradigma di interesse generale”, così da far apparire definitivamente superata l’idea di conciliazione come problema delle donne e l’idea delle donne come categoria del lavoro. Se non è più subalternità, dedizione, costrizione, ma neppure ruolo materno e salvifico delle donne, se è restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi, ma anche benessere, buona vita, “passione dell’uomo” nel senso marxiano, allora effettivamente la posta è più alta e si può ambire a proporre una soluzione all’altezza dei tempi e dei problemi di oggi.
Punto di avvio non può essere che la crisi di quel “monumento del lavoro”, dottrinario, istituzionale, e tutto di stampo maschile, che si è stabilito nel secolo scorso e che ha fatto del lavoro un oggetto da regolamentare in funzione degli interessi dell’impresa e del capitale. La rivoluzione possibile viene dunque immaginata come un capovolgimento di quello che è stata finora la gerarchia tra fini e mezzi: il lavoro guardato a partire dalla vita, un’economia dove l’obiettivo non sia lo sviluppo della ricchezza ma lo sviluppo umano.
Le donne possono oggi dire un “doppio sì” alla carriera e alla famiglia, a patto che non gravino su di loro le ore e ore di lavoro materiale che si rendono necessarie quando ci si deve occupare dei corpi di bambini e anziani, dei luoghi dove questi corpi stanno o devono stare. In altre parole, quando, come osserva qualcuna, curare l’altro è dimenticarsi di sé, sopportare un lavoro massacrante e spesso disgustoso. Il coinvolgimento emotivo può essere più o meno forte, ma non è mai del tutto assente, neppure quando la cura è affidata a persone pagate per questo, come le donne straniere che la globalizzazione ha spinto nel mercato della cura.
Ma anche nel caso che questa secolare funzione femminile non sia delegata ad altri, basta ascoltare le esperienze di ogni singola donna -come ha fatto per anni il gruppo scrittura della Libera Università- per rendersi conto che altrettanto difficile è separare costrizione e scelta, piacere e potere. Non c’è dubbio che venire incontro al bisogno dell’altro è anche un modo per esercitare un controllo, rendersi indispensabili, creare dipendenza al di là del necessario.
“Il mio potere -scriveva già Sibilla Aleramo- era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
. Quante donne sono ancora schiave della loro forza? Quanto è ancora legata la funzione materna alla loro identità, al bisogno di contare e dare un senso alla propria vita? Quante sono disposte a riconoscere che il sacrificio di sé per il bene di un figlio può pesare su di lui come un macigno, un debito inestinguibile?
Sono domande a cui è ancora la pratica ereditata dalla stagione più radicale del femminismo, che può far fronte: dare parola alla soggettività, ascoltare dal racconto delle stesse lavoratrici la storia delle loro aziende -cosa si produce, come si produce-, e dall’esperienza di una giudice del lavoro che cosa è oggi la precarietà per i giovani, fatta di contratti a termine, di attese angosciose di proroghe e contenziosi giudiziari. Una volta saltati i confini tra produzione e riproduzione, caduti gli steccati della differenziazione astratta che ha contrapposto il corpo e la polis, il vissuto del singolo e i saperi “oggettivi”, la strada che si apre è quella della ricerca di nessi che ci sono sempre stati, ma che oggi forse è possibile portare alla coscienza e orientare verso nuove soluzioni.
Domani a Bari
Laboratorio di scrittura d’esperienza e incontro – Festival delle donne e dei saperi di genere, Bari, marzo-aprile 2017, VI edizione
PIETRO INGRAO e la sfida del femminismo.
La lezione che la sinistra continua a ignorare.
Per capire quanto fosse radicale la sfida che il femminismo, da luoghi considerati tradizionalmente “non politici”, veniva facendo al modello di civiltà maschile, basta leggere la conversazione che Rossana Rossanda fece con Pietro Ingrao all’interno di un ciclo di trasmissioni per Radiotre nel 1978:
“INGRAO: E’ che affrontare le questioni dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio: se vuoi affrontare davvero il rapporto donna/uomo, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente -ecco dove la dimensione diventa diversa- vai a incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza, eccetera. Cioè una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione delle stato, tutto il rapporto tra stato e privato (…)
ROSSANDA: Le donne sono portatrici di una visione della società fortemente interiorizzata nel privato, perché il privato è stato il campo dove sono state collocate, dal privato hanno assunto valori e norme, hanno derivato un modo di essere e quindi un’idea della comunicazione e dei rapporti. Bene, questo è un loro limite o un loro valore? Se è un limite, la questione femminile è essenzialmente un ritardo; le donne devono imparare la politica e la politica deve facilitare la loro ammissione. Ma se non fosse così? Non viviamo in questi anni un dubbio sui principi dell’organizzazione politica della società, una critica alla sua astrattezza, una tendenza riportare l’accento sulla persona? In questo la specifica esperienza dei rapporti fra persone della donne non può rappresentare un pesare sull’organizzazione tradizionale della sfera politica, modificarla?”
(Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989, p.217)
Non dovrebbe stupire il fatto che venga da parte di un uomo la visione più radicale della posta in gioco: l’uscita dalla logica della complementarità, del semplice ribaltamento di un disvalore in valore, della “mancanza” in un “di più”, di un riequilibrio di poteri che non intacca alla radice la dualità su cui si è retto finora il dominio maschile.
Lasciatele vivere
“Se l’amore si confonde col potere”
Università degli studi di Bologna.Corso di laurea in Filosofia
30 marzo 2016. Una lezione.
“Quando si parla della relazione uomo donna dobbiamo riconoscere che ci troviamo di fronte a un dominio particolare, che passa attraverso le esperienze più intime –la nascita, la maternità, la sessualità, i legami famigliari- e forse è proprio questa sua particolarità che rende così lento, difficile, contrastato il suo emergere alla coscienza di tanti e di tante, uomini e donne.”
“Se l’uomo fosse solo il dominatore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di uccidere. Forse è la tenerezza del figlio che le donne continuano a spiare dietro la violenza di un uomo, marito, padre, amante. Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché negli interni delle case tornano a confondersi la nostalgia dell’uomo figlio, il potere di indispensabilità della donna madre e i residui di un potere patriarcale in declino.”
Effetto Non Una Di Meno
Dopo la trasmissione Rai cancellata, la seconda vittoria di cui prendersi il merito e nuova spinta a dare continuità al movimento.
‘Consultori: dietrofront della Regione’
‘Obiezione di coscienza in Lombardia è violazione dei diritti umani’
Si può insegnare l’autocoscienza?
“Il piccolo gruppo di autocoscienza è stato la straordinaria invenzione di un movimento che ha inteso per la prima volta la “politica” come inseparabile dalla storia personale, dal dominio maschile che passa inconsciamente attraverso la confusione con un modello unico di sessualità, dal cambiamento di quell’impianto dualistico che nella rappresentazione di sé e del mondo ha contrapposto e complementarizzato non solo le differenze sessuali, ma anche natura e cultura, infanzia e storia, individuo e società, corpo e mente, ecc., impedendo di vedere i legami che da sempre li tengono insieme. L’intuizione che la “presa di coscienza”, lo scostamento da modelli interiorizzati, non muovono dall’interno dei saperi costituiti, né per continuità da un solitario pensiero di sé, poteva emergere solo dalla relazione tra singole donne disposte a “raccontarsi” in presenza le une delle altre, a lasciare che il percorso di ognuna trovasse risonanze e smentite in quello dell’altra, che da sguardi prima complici, ostili o indifferenti, si passasse a un giudizio solidale e al tempo stesso critico.”
Sottolineo: ” un pensiero solidale e al tempo stesso critico”. Mi colpisce oggi la fragilità che noto negli incontri tra donne, quando il pensiero, il giudizio dell’altra diverge e confligge col nostro. Le differenze vanno accolte, ma si deve poterle interrogare e mettere a confronto, senza temere o minacciare rotture.
Link su Libera università delle donne