Perché siamo spettatori muti davanti alle stragi del Mediterraneo

Riprese

“Paradossalmente sono le guerre non dichiarate – quella contro i migranti, ma anche quella tra i sessi da poco venuta alla coscienza storica dopo una millenaria “naturalizzazione” – le più difficili da affrontare, perché mancano quei tratti che dovrebbero definire in modo inequivocabile la figura del nemico.”

Articolo pubblicato su Internazionale il 23 aprile 2015

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‘L’età non conta. Tranne se sei la moglie di Macron’

“Ci saranno probabili scoop in cui si venderà una sua foto del momento in cui si sveglia in casa ed è senza trucco, perché questo è quello che fa vendere di più i giornali e questo è quello che vuole il popolino che nulla sa di politica ma moltissimo sa quando si parla di hate speech. Non è che l’inizio di una lunga e verosimile gara a chi la insulta di più sul web perché quello che conta di una donna, nella nostra cultura, non è che l’età, l’immagine, l’apparenza, il corpo. Magari al governo andassero solo presidenti come Trump, circondato di donne giovani e belle! Donne decorative, esibite come trofei, buone per rendere virile l’immagine del presidente in questione, così come si è fatto durante il governo Berlusconi. Perché anche di questo è fatto il sessismo.”

Articolo di Eretica pubblicato il 24 aprile 2017 su IlFattoQuotidiano.it

‘Il patriarca lascia il posto all’uomo femmina…

…ma è una partita tra maschi’

Dalle testimonianze e dalle inchieste che si vanno moltiplicando sulle esperienze di leadership femminile, emerge con chiarezza che è proprio la convergenza tra una crisi di sistema alla ricerca di nuove “risorse” e la tentazione mai tramontata nell’aspettativa di cittadinanza completa delle donne di vedere riconosciuto il “valore imprescindibile” della loro differenza, a ricomporre fuori dall’ambito domestico il sogno di armonia che è stato finora della coppia degli innamorati. Viene il sospetto che la civiltà che abbiamo ereditato non abbia mai smesso di attingere, materialmente e simbolicamente, alle “risorse” che ha confinato fuori dalla polis, perché restassero immobili, eternamente uguali come le leggi di natura. 

Troppo spesso si dimentica che le figure della differenza di genere, nella loro gerarchia e complementarità, strutturano rapporti di potere ma conservano anche il desiderio primordiale di un ideale ricongiungimento, la promessa del ritorno all’unità a due della nascita: fare di due nature diverse un solo essere armonioso. È questa “essenza di Eros”, l’amore nella sua forma originaria, che attraverso l’oblatività femminile, la dedizione alla cura dell’altro, mantiene la famiglia e per estensione la società stessa dentro vincoli di un’infantilizzazione tenera e violenta, dipendenze e prestazioni “ancillari” coperte da illusioni salvifiche?

Articolo pubblicato il 24 aprile 2016 su Corriere.it

‘Gender creative: la libertà di genere non è una moda’

Ethan Eretico Bonali:

“Il diritto alla felicità e all’autodeterminazione nascono con il soggetto e non possono essere sospesi in nome e dietro l’idea della tutela. La tutela passa dall’ascolto dei desideri e delle necessità espresse da un essere umano che non ha ancora le forze per contrastare da solo i meccanismi di potere nei quali è già immerso quando nasce.”

Articolo pubblicato su Abbatto i Muri il 10 gennaio 2017

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Perché Macao

Con Macao oggi alle 18 all’ Arco della Pace.

Emanuele Braga:
“Quello che conta è il corpo, le relazioni, quanto decidiamo di fare un salto nello sconosciuto, e dimostrare che l’attivazione collettiva non segue sempre i soliti schemi prestabiliti. E parlare di schemi prestabiliti in questo caso per me significa: avere portato avanti un progetto importante in un luogo per 5 anni, ed ora che arriva il mercato immobiliare, farsi sgomberare con un po di insulti e conflitti e spostarsi un pò bastonato da una altra parte… questo è lo schema prestabilito, il simbolico da spezzare, e visto che la vita non è poi cosi lunga, tanto vale tentare di spezzare, di fare la differenza, piuttosto che reiterare considerazioni ciniche, e frasi di circostanza…”

Articolo di Emanuele Braga pubblicato su Effimera

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Pasqua in poesia

Ricevo e pubblico con piacere il poemetto “più pasoliniano” di Sotirios Pastakas a detta di alcuni -a ragione- il suo “canto del cigno”: “RAPSANI”. “Alla mamma”.

A Sotirios gli auguri dagli amichi e dalle amiche che in Italia lo leggono con interesse ed emozione, soprattutto dopo la pubblicazione della raccolta di poesie “Corpo a corpo” (Multimedia Edizioni, Salerno 2016).

Sotirios PASTAKAS
RAPSANI
Alla mamma
Una kawasaki nera
inchiodata sui suoi pedali
all’ombra di un olmo,
mille cento cc
seduti per terra,
una mosca sulla faccia
della mamma a sinistra
della mascherina di ossigeno,
a destra della mano sinistra
con l’ago a farfalla
della quadrupla infusione intravena
poco più in su
del catetere.
Adesso si sbarazza delle lenzuola
come si spogliava in nostra presenza
nel capanno di paglia
a Tsàghesi: poichè
aveva visto il sole
starsene immobile
sopra la città di
Làrissa esattamente
alle dodici del mezzodì,
e noi per la prima volta
vedemmo per la prima volta
il culo ignudo
di nostra madre
e odorava di umida sabbia
quella fessura
tra le sue cosce,
sentor di canne
e paglia secca,
una fetta di melone
in mezzo alle sue cosce,
sentor di neve giovinetta,
come odora la campagna
le felci, gli escrementi,
le mosche cavalline, la fresca
pagnotta, il pomodoro
addentato a piena bocca
quando ci imbeccava
con le sue stesse mani.
E come teniamo in mano
stretta la pesca
un attimo prima di morderla,
tutta la notte la mano
le stringevo che voleva
strappare i tubicini
dell’ossigeno dal naso,
il catetere dalla fica,
la fica di nostra madre:
sapor di melomakàrono
e kurabiès al burro,
una fetta di pane spolverata
di zucchero e olio, talvolta
di cacao, uova strapazzate
rosse di pomodoro,
col materasso sul pavimento
in mezzo agli odori delle piote
non lavate e dei calzini frusti,
odor di focaccia al formaggio,
quando la prima volta vedemmo
il culo di nostra madre,
burek e sàmali,
turdilli e ravanì,
gombi e carciofi,
le sue due chiappe
con l’odor del mare
marcio e della stella marina
prosciugata sotto il sole,
pane ammuffito
e formaggio feta inverdito.
Ed erano una volta verdi
le acque e azzurre
a Tsàghesi, poi,
quando divenne Stòmio
papà ci trasferì
ad una stanza in affitto.
Quel capanno accanto all’onda
rivendicarono quelli che
non avevano ancora una radio,
non andavano a prendere
pile all’edicola
insieme ai topolino e romanzo,
il commissario Maigret,
i primi Asterix
e Al Bano –
ormai diventava cosa corrente
costruire alloggi abusivi
da Ajòkambos
a Velìka, Xinò Nerò
fino a Messàgala,
Nei Pòri,
Platamonas
e, più oltre: Skotìna,
Leptokarià, Litòchoro
e il litorale di Katerini.
Dovunque io volga lo sguardo
oggi che la mamma sta morendo
tutte le case sono aperte,
tutte le spiagge occupate,
il popolino abbandonato
al divino mese di luglio,
dopo aver vissuto l’epopea
della casa di campagna,
dal capanno di paglia
alle camere in affitto,
e edificato senza corrente
elettrica, senza acqua, fuori piano
regolatore, sì, e fuori da Làrissa città,
all’ombra delle buganvillee
dei gelsomini e degli alberi da frutta,
le unghie rosse dei piedi,
e aggiustato un po’ la cellulite
alle cosce e al pancino,
madri che si portavano le pettinatrici
da una casa all’altra, si smagliavano
(facilmente si smagliavano i primi)
i collant, si aprivan le maglie
le accomodavano coi rammendi.
Preparavano la dote
con le Singer a pedale,
cucivano, scucivano, ricamavano,
aprivano una finestra
all’iniziale pianta della “villa”,
vi aggiungevano un terrazzino,
una piccola veranda, una scala a corda
(eran testoni i loro mariti,
ma obbedienti: compravano dal macellaio
e portavano sempre una scatola
di pasticcini la domenica e le feste).
Ci crescevano a furia di botte al sedere,
ci punivano, ci smerdavano
ed era instancabile la nostra mamma:
erano lucide le sue ginocchiere
lungo i tornanti
guidando la millecento
che la portava a Rapsani
a gustarsi poi un’ anisetta
con noi in dolce compagnia sulla piazza,
sotto i platani che stormivano
e l’Orologio Comunale, prima di
prender da sola la strada per Sant’Attanasio,
la salita, su sedie di vimini
aveva sistemato il culo ,
quello che mi aveva svelato
quando avevo otto anni
a Tsàghesi e quello che adesso
mi mostra all’Ospedale Generale
di Làrissa, e ancora mi ubbriaca,
col flusso dell’acqua
chiara che scorre nel solco,
quell’odore preciso
della sacca per urine,
l’esalazione della carne
febbricitante, lo strazio
degli intestini, le feci,
le salive, le secrezioni,
il fetore del fico
che spinge i suoi rami
attraverso le finestre
della casa sventrata,
un insistente ronzio di mosche,
innumerevoli mosche
che hanno invaso all’improvviso
la corsia a quattro letti
dei moribondi. Così,
come la nostra mamma
e le mamme degli altri
abbandonano la vita,
ognuna nel proprio letto
con una bracciata di aghi di pino,
un fascio di paglia nelle mani,
un ciuffo di foglie di tabacco,
con gli aghi delle querce
a bruciar loro ancora le dita,
la teglia uscita dal forno
per il pranzo della domenica,
le ferite aperte
per le parole che talora nella rabbia
pronunciammo, tutti noi,
un mazzetto di origano,
un grembiule pieno di arance,
nella mano un solo, orgoglioso
melograno per il Capodanno,
e un cero per la Pasqua
per sempre acceso nella nostra memoria.
Mamma, smettila di giocare a nascondino.
Sei la mosca
immobile sopra il nostro naso
ogni volta che ci svegliamo
a mezzogiorno inoltrato la domenica
a Rapsani.

Traduzione Crescenzio Sangiglio

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IL femminismo a Milano Anni ‘70 Quinta puntata

Anno 1975: il ’68 delle donne.

Il 1975, nonostante la gravità di quanto avveniva attorno –crisi economica, licenziamenti, scioperi, scontri tra militanti di opposte fazioni, sortita dei Nap e delle Brigate rosse- rappresenta per il femminismo un anno di particolare rilievo. Furono i giornali stessi a riconoscere che “non si era mai visto nulla di simile dalle grandi manifestazioni per il voto alle donne”. Qualcuno si azzardò a scrivere: “E’ il ’68 delle donne”.
L’anno era cominciato in febbraio con il convegno al Circolo de Amicis, che aveva messo al centro i temi della sessualità, maternità, aborto e omosessualità. La relazione tra donne si approfondisce. All’interno del collettivo di via Cherubini sorge l’esigenza di concretizzare materialmente, e non solo enunciare teoricamente, una pratica di vita comune. Dopo tanti gruppi di parola, si fa avanti il desiderio di un “fare insieme”, una progettualità che implicasse anche il denaro e il lavoro. Se ne discute nel documento “I luoghi e i tempi”. Questa aspirazione è portata avanti in particolare dal gruppo di donne che, fin dall’autunno 1974, avevano deciso di costituirsi in cooperativa per aprire a Milano una libreria sul modello della Librerie des Femmes di Parigi. Il gruppo comincia a cercare fondi, alcune pittrici offrono i loro quadri, altre l’assistenza gratuita per le pratiche legali. Dal Comune otterranno l’affitto di un locale nel centro cittadino, in via Dogana. I primi libri arrivano dai magazzini delle case editrici. La conduzione viene affidata a turno alle donne che ne fanno parte, per non fare divisioni del lavoro. Alla base dell’iniziativa c’è l’idea di “dare un luogo alla parola delle donne”, farne una specie di vetrina del movimento.
La Libreria apre nell’ottobre 1975 e diventerà nel corso degli anni un riferimento culturale e politico per tutte.
L’altro progetto, di cui si discute in via Cherubini, è la “casa delle donne”, un luogo più spazioso dove far confluire pratiche politiche diverse, ma anche dover poter mangiare insieme, fare feste. Il desiderio è di sperimentare in uno spazio adeguato modalità di diverse del vivere tra donne. La nuova sede sarà in via Col di Lana 8, dove ci si trasferisce agli inizi del 1976.
Intanto sono avvenuti altri fatti importanti: il passaggio dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio. Il documento “Pratica dell’inconscio e movimento delle donne”, pubblicato sul n.18-19 della rivista “L’erba voglio”, porta il femminismo milanese al centro dell’attenzione nazionale e della stampa. Diventerà l’argomento principale di due convegni: uno in primavera a San Vincenzo, sulla costa toscana, l’altro a Pinarella di Cervia in novembre (uno precedente c’era stato negli stessi giorni, l’anno prima).
Nell’estate, nei mesi di luglio e agosto, donne provenienti da varie città italiane invadono l’isola di San Pietro (Carloforte) per quella che resterà una memorabile vacanza femminista. L’idea era nata in occasione di un mio viaggio in Sardegna, invitata a tenere un incontro all’Università di Cagliari, insieme ad altre studiose femministe. E’ lì che ho sentito parlare della bellezza dell’isola e della possibilità di andarvi in vacanza –mi dissero- “con alcune amiche”. Nel pieno del movimento, “alcune amiche”, una volta sparsa voce, diventarono duecento. Fu un’esperienza destinata a lasciare un segno, fatta di bagni, sole, ma anche assemblee, discussioni animate e balli, cene, una quotidianità insolita.
Un giovane assessore di sinistra lo definì “un trauma benefico”. Con mia grande meraviglia, non ci fu nessun segno di intolleranza e tanto meno di violenza da parte della popolazione locale. Per me, cresciuta in campagna, fu la scoperta del mare, di un luogo di elezione, dove torno da allora ogni estate e di cui sono diventata da poco, per grande amore e fedeltà, “cittadina onoraria”. Della vacanza di Carloforte si discuterà in un convegno a Firenze in settembre.
Nello stesso mese cala sul movimento l’ombra della violenza, coi fatti del Circeo. E’ il 30 settembre: da quel momento, la violenza contro le donne –stupri e omicidi- diventa tema di riflessione, di interventi sui giornali, apertura del dibattito sulla legge che avrebbe dovuto trasformare lo stupro da “reato contro la morale”a
“reato contro la persona.
Sull’interpretazione che si diede allora del massacro del Circeo in chiave antifascista, intervenne anche il collettivo di via Cherubini con una lettera al “Manifesto” in cui si precisava che il grave episodio di violenza carnale era diventato un “fatto politico” solo per la provenienza sociale degli assassini, figli della borghesia romana, mentre “la violenza della donna è di per sé un fatto politico”.
A fine novembre, dopo il secondo convegno nazionale a Pinarella di Cervia, parte del femminismo milanese contesterà il convegno organizzato dallo psicanalista Armando Verdiglione, per essersi appropriato delle tematiche del corpo, della sessualità, e averle spostate dai movimenti e dai protagonisti reali, alle cattedre e agli accademici.
Ne risentirà anche il mio rapporto con Elvio Fachinelli e con la rivista “L’erba voglio”.
Negli anni che seguirono anche in Col di Lana –dove si tenevano affollatissime assemblee di duecento e più persone- cominciano a farsi sentire spinte al cambiamento. A segnare un termine a quello che era stato fino ad allora un percorso comune, pur tra diversità e conflitti, fu il terzo convegno nazionale a Paestum nel dicembre 1976.
L’analisi portata sulla sessualità parve poter essere riconosciuta come prioritaria da tutte, anche quelle che fino allora avevano privilegiato gli aspetti economici e sociali della questione del sessi. A quel punto, si chiedeva di farla diventare politica a tutti gli effetti, con una leadership, una ideologia, un’organizzazione. Era la contraddizione massima. Le femministe milanesi arrivarono a Paestum con un numero speciale di “Sottosopra” noto, per il colore, come “Sottosopra rosa”. Gli scritti che vi comparivano facevano già riferimento alla differenziazione che era avvenuta all’interno tra gruppi e pratiche diverse. C’erano i gruppi di medicina delle donne, gruppi di fotografia, donne che volevano fare un Bar, e i due gruppi che segneranno negli anni ’80 la prima evidente divaricazione teorica e pratica all’interno del movimento: il Gruppo n.4, legato alla Libreria delle donne, che porterà alla elaborazione del “pensiero della differenza” e il gruppo “Sessualità e scrittura”, nato per iniziativa mia e di altre donne che si riconoscevano nel comune interesse per la scrittura. Fu uno dei più seguiti. La necessità di interrogare la scrittura – e quindi i linguaggi disciplinari, la produzione simbolica in generale- veniva dal fatto che la pratica più originale del femminismo –l’autocoscienza- sembrava che si potesse trasmettere solo “praticandola”, inadatta quindi a comunicare fuori dal piccolo gruppo. La scrittura era consistita fino a quel momento o in documenti -spacciati per collettivi ma frutto invece di della elaborazione scritta di donne che avevano acquisito quella capacità fuori dal femminismo-, o racconti di storie individuali, interpretazioni del proprio sentire. Si voleva rompere con l’anonimato, ma anche col silenzio sulle differenze tra donne che scrivevano e quelle che non scrivevano. Eravamo consapevoli di “usare parole d’altri”, di aver “saccheggiato i cento ordini del discorso della cultura dell’uomo”. La riflessione sugli scritti che ognuna portava al gruppo permetteva di aprire la strada a saperi e linguaggi, forme del pensiero più vicini alle consapevolezze nuove portate in noi dall’autocoscienza. Dell’attività del gruppo verrà dato conto in un “fascicolo speciale”: A zig zag (1978)
Alcune partecipanti al gruppo si ritroveranno nei “corsi 150 ore” delle donne, in particolare quello che si aprì in via Gabbro 6, in zona Affori Comasina, il primo richiesto espressamente da un gruppo di donne, casalinghe, in cui mi trovai a insegnare nel 1976, dopo il trasferimento da Melegnano.
Verso la fine degli anni ’70 cominciano a comparire i primi Centri di documentazione delle donne, per impedire che andasse perduto il patrimonio di idee e pratiche del decennio. A Milano si aprirà nel 1979 il Centro studi storici sul Movimento di liberazione della donna, presso la Fondazione Feltrinelli in via Romagnosi 3, con l’intento di raccogliere documenti e testimonianze, organizzare seminari e incontri a livello nazionale e internazionale. Sarà il Centro a curare la prima importante storia del femminismo a Milano e in Lombardia: il libro, Dal movimento femminista al femminismo diffuso, edito da Franco Angeli, esce nel 1985.

Le foto del convegno di Pinarella di Cervia del 1974 sono prese dal libro di Daniela Pellegrini, “Una donna di troppo”, Fodazione Badaracco. Francoa Angeli 2012.

La foto del mare: Isola di Carloforte

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Sempre Carloforte

Ritorni…al futuro.
All’estate che viene e a tutte quelle che l’hanno preceduta, dal 1975, l’anno di una famosa vacanza femminista, nella amatissima isola di Carloforte, di cui sono oggi, felice e riconoscente, “cittadina onoraria”.

Riprese e avvicinamenti

18/7/15 (Carloforte)
La bellezza dei luoghi
come l’amore
vive nel trasognato presente
dello sguardo.
Ma più felice è chi conosce l’oscuro confine che sta
tra la perdita e il ritrovamento,
tra la piccola morte di una partenza
e l’assalto della vita
a ogni ritorno.

26/7/15 (Carloforte)

E’ così che mi piacerebbe vedere il mare:
un lembo di azzurro a cui si arriva
lentamente
dalle braccia di un mandorlo
ai rami del pino
scorrendo lungo la cerniera di coppi
che taglia e raddoppia
l’orizzonte.

Così vorrei che fosse anche la felicità
che non conosce avvicinamento per gradi
né strade di terra e di mare
ma solo il vortice febbricitante del pensiero.

26/7/15 (Carloforte)
Lo sguardo che spia ansiosamente
orizzonti di tempo a venire
non si accorge che gli occhi
già sono fermi
sull’appagata sintonia
tra una nuda pietra
e una verde fioritura.

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