Il femminismo in una grande manifestazione a Roma

26.XI.2016

Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come spinta a uscire dalla carsicità.
Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è piazza San Giovanni a Roma, è sicuramente il modo più felice per rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è. Una manifestazione come quella di oggi, come quelle che si sono succedute da quarant’anni a questa parte, devono darci il coraggio di dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc –o forse proprio per questa varietà- è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.

Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto analizzato, sia sulle sue forme manifeste -stupri, omicidi, maltrattamenti- sia su quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano nella “normalità”, nel senso comune, nei gesti e nelle parole della quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso finora. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.

Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno. E’ il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza maschile in tutte le sue forme,a partire da quei segni profondi che ha lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate con la natura, il corpo, la conservazione della specie. Abbiamo scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e disuguaglianze che la storia ha conosciuto.

Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più disposte a tollerare:
-che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che qualcuno ancora si permetta dire che il femminismo è morto o silenzioso;
-che quando interviene una “parola pubblica” a istituzionalizzare pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati. Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il Terzo settore, i servizi sociali.
-che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la certezza di finanziamenti al riguardo.

Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono “vittime” della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella, inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice “Io decido” della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere figli.

Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan –“Io decido”, “Non una in meno”- per dire che continueremo a batterci contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e forse riusciremo a trovare quei “nessi” che legano la specificità dei nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.

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Divagazioni

Divagazioni
Paese nativo e paese di elezione.
Quale il luogo della nostalgia e del ritorno?
Gli alberi, le fioriture primaverili, le macchie gialle del grano, le sponde di un canale e persino i campi arati, non hanno mai smesso di commuovermi, di raccontare, attraverso parole inarticolate e subito respinte, di altre ben più precise sensazioni e sentimenti ormai sepolti, come la vecchia cascina abbandonata tra moderne costruzioni industriali, dentro una pietosa coltre di rampicanti.
Ma quando ho voluto ritrovare la natura, ho cercato paesaggi molto diversi da quello a me noto: le Dolomiti splendenti di neve in inverno, e, nel pieno calore dell’estate, le rocce striate di rosa e di bianco, i fondali verde-azzurri dell’isola di San Pietro (Carloforte). Paese di elezione, unico sogno di armonia riuscito, amore che si rinnova con immutata intensità a ogni inizio estate.
Chi può dire dove e quale sia per ogni singola vita il luogo della nostalgia e del ritorno? Una grotta corrugata da onde instancabili, abissi marini particolarmente luminosi, muovono tempeste inaspettate di pensieri, evocano drammaturgie senza tempo, che ci sono inconsapevolmente famigliari. All’opposto, le pietre di una casa mangiate dal tempo, dall’incuria e dalla voracità delle piante selvatiche, mandano un’eco sbiadita, impercettibile, dei corpi, delle voci e delle passioni che l’hanno abitata per un tratto non breve di anni.
L’armonia che altri ha cercato nel sogno d’amore alita per me intorno alla figura bianca e silenziosa del traghetto che mi porta da trent’anni a Carloforte: felicità di ritorni e riprese legati in sintonia come l’ora serale che vede aprirsi il fiore del cappero e chiudersi quello dell’ibisco.
(Da Le passioni di Lea, a cura di Piera Nobili, Maria Paola Patuelli, Serena Simoni, Longo Editore, Ravenna, 2007)

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