Lo strabismo della memoria

“Memoria storica e memoria poetica, rami divisi del protagonista unico che ha preteso di regolare il tempo facendosi sordo ai ritmi del suo corpo, si contendono da sempre la scena sociale, e a un osservatore attento non può sfuggire che il sonno e la veglia, il rigore scientifico e la favola, la ricostruzione documentata e la seduzione del mito, si sono tenuti, a nostra insaputa, millenaria compagnia.
Quanto sia stata, e sia tuttora, pacifica o dibattuta, tenera o violenta, lo dicono ampiamente le scritture degli uomini. Alle donne spetta il triste privilegio dello smemorato, il quale non saprà mai se sta ricostruendo la sua vita o incontrando per la prima volta la sua nascita.”

“….quello che oggi mi appare, retrospettivamente, l’invenzione di un linguaggio capace dei suoi miti e delle sue pose eroiche, altro non è che l’alfabeto di una lingua comune a tutti gli esseri umani, modellata su sogni, desideri e paure che si accompagnano a ogni nascita e a ogni ingresso nella vita sociale. Ridisegnarne le forme e accoglierle dentro le maglie di complesse grammatiche colte, vuol dire scuotere il lungo sonno che ha tenuto l’umanità ancorata al ricordo della sua origine, ma significa anche restituire ai sogni l’incanto e la dolcezza che hanno solo quando si lasciano guardare alla luce del sole.”

“Non potendo rinunciare all’amore di una madre e non vedendo su di sé i segni di un autonomia, che si misura ancora soltanto a parole, la donna porta nei territori che le hanno fatto guerra la sua pretesa di infanzia.
Ma mentre si affanna a rafforzare le traballanti città dell’uomo, per trovarvi il calore di una casa, continua ad indicare, in lontananza, la terra natale che le è mancata.(…)
Intollerabile per chi aspetta ancora il calore di un gesto materno, l’adorazione che gli uomini riservano ai cieli invisibili delle loro madri muove invidie profonde e durature come l’odio di un popolo per un vincitore che ha invaso le sue terre, prima che egli stesso potesse riconoscerne i benefici.”

“Costretto a confrontarsi con una terra solida, il vuoto d’amore che fa dell’origine di ogni donna un luogo senza ritorno, rinuncia alla copertura malinconica del sogno, perché tutti riconoscano nella “preistoria” di una “piccola selvaggia” la stessa forza del desiderio e la stessa sensualità per le quali l’uomo si è attribuito il possesso esclusivo del corpo femminile. La “tenerezza”, che è nostalgia di unioni perfette, paradiso che compone in armonia gli opposti destini dei figli e delle madri, si spoglia del velo di una felicità ingannevole e mostra come insegne di morte e di follia siano state poste sul cammino che doveva avvicinare una donna a un’altra donna.
Là dove Freud può volgersi con sguardo dolce verso la dimora ideale che gli assicura continuità di affetti e di ritorni, Dora può solo contemplare nel volto stravolto della malattia le tracce si una passione antica, a cui non è stato permesso di vedere la luce del sole.”

(da L.M., “Lo strabismo della memoria”, La Tartaruga edizioni , Milano 1991. In via di ristampa con la Casa Editrice Smasher, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), di cui è fondatrice l’infaticabile Carmen Giulia Fasolo)

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Sull’opera lirica

“Più vicina alle ragioni profonde del cuore, e sostenuta dal linguaggio dotto della musica, l’opera lirica si muoveva indifferentemente tra i grandi teatri cittadini, le impalcature innalzate all’aperto dentro la cornice scenografica del Pavaglione di Lugo, e il più modesto Teatro Corelli di Fusignano.

Dietro paludamenti solenni, che davano a un dramma quotidiano la misteriosita’ di un evento fatale, la romanza conosceva la strada dei campi come la canzonetta, e se i bar del paese straboccavano per il Festival di San Remo, nelle case isolate dei dintorni un religioso gruppo infreddolito si stringeva intorno alla radio che trasmetteva l’opera, il sabato sera.

Personaggi famigliari a chi non aveva trovato posto nella famiglia della storia, la Traviata, il Trovatore, Aida e Madama Butterfly, venivano a coprire un vuoto di memoria, e a un ascoltatore rassegnato al silenzio parlavano la lingua tragica dell’origine.

Preziosa eredità per l’esule di una patria troppo ricca e troppo avara, la voce della lirica conforta una memoria lenta e ricalcitrante, e dissuade la corsa di un pensiero ostile agli umori caldi del corpo”

*da L.M. “Alfabeto d’origine” Neri Pozza (di prossima pubblicazione)

‘Alfabeto d’origine’, in uscita il 28 settembre 2017

“ALFABETO D’ORIGINE”
Neri Pozza, 2017

In uscita il 28 settembre…

Quella che l’autrice ha in più occasioni definito «scrittura di esperienza» interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili”, la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi. Quei pochi libri in cui di volta in volta l’autrice ha creduto di riscontrare la ‘spudoratezza’ necessaria per nominare «il mondo delle cose che non siamo stati capaci fino a questo punto di dire», sono diventati, nel lento e ripetuto vaglio a cui li ha sottoposti, accompagnatori e guide di un viaggio verso un passato pervicacemente muto, avaro di ricordi, sepolto nella memoria del corpo. È come se ognuno di quei ‘reperti’, strappati al loro contesto, e persino alla mano da cui erano usciti, potesse parlare per lei, e l’intimità che è mancata nelle relazioni reali avvalersi del sostegno di parole, sentimenti, sogni in cui riconoscere parentele sorprendenti. In altre parole: un’autobiografia per interposta persona.

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FEMMINILIZZAZIONE, MATERNALIZZAZIONE DELLA SFERA PUBBLICA O TRIONFO DELLA FIGURA IBRIDA DELL’ANDROGINO?

Che la cura, sotto l’aspetto di accudimento materno e di lavoro domestico, fosse una specie di Giano Bifronte, posta al centro di un ambiguo, invisibile annodamento di servitù e onnipotenza, debolezza e forza, amore e dominio, corpo e legge, era già chiaro dalla definizione contenuta nell’ Emilio di Rousseau. Ma bisogna aspettare qualche secolo prima che ne venga data, da una coscienza femminile anticipatrice come Virginia Woolf, una versione più veritiera: non un destino legato alla contraddittoria “natura” della donna, oscillante tra l’animalità e il divino, ma il fondamento, il supporto indispensabile della civiltà dell’uomo, espressione del suo dominio ma anche della dipendenza dall’altro sesso, luogo dove si danno insieme, intrecciate e confuse, l’inermità e la nostalgia del figlio, la violenza e la legge del padre.
“Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra sarebbe ancora palude e giungla.”
Benché evidente, nel suo prolungarsi molto oltre i bisogni dell’infanzia, il legame della cura con la volontà dell’uomo di garantire alla sua avventura pubblica un retroterra sicuro per la sopravvivenza lasciava però aperto l’interrogativo sul perché le donne stesse ne avessero fatto, loro malgrado, una ragione di vita. Sarà il femminismo degli anni ’70 a portare l’analisi e l’istanza di cambiamento fino alle regioni più remote e inesplorate della vita psichica, e a scoprire quanto la visione maschile del mondo si fosse incorporata, oltre che nelle istituzioni della vita pubblica, nel sentire profondo di entrambi i sessi.
(…)
L’emancipazione, ai suoi inizi, sembra che non possa percorrere che la strada già segnata dal modello dominante: da un lato diritti “neutri”, e dall’altro ruoli “naturali”, compiti specifici di un sesso e dell’altro, che avevano solo bisogno di essere riscoperti nella loro armoniosa complementarità.
Dietro il dilemma “uguaglianza/differenza”, che porterà comunque le associazioni femminili tra ‘800 e ‘900 a gettare le basi dello stato sociale, si può dire che fa il suo ingresso nella polis il sogno d’amore, come ricongiungimento dei due rami divisi dell’umanità riportati alla coppia originaria madre-figlio. “Educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana” le donne, che come scrive Sibilla Aleramo “uniranno le loro voci alle più intemerate del paese”, riscoprono la “divina funzione domestica” come integrante forza creativa capace di risollevare uomini “un po’ tristi e un po’ smarriti” in un periodo di “transizione ansiosa”.
Solo l’impeto giovanilistico e rivoluzionario di una generazione che aveva creduto di poter abbattere in un sol colpo le barriere dello psichismo inconscio e di consolidati poteri economici e politici poteva far credere alle femministe degli anni ’70 di avere avviato una volta per sempre il processo di liberazione dall’identità femminile prodotta dall’uomo e la crescita, sia pure lenta, di un “io non conforme” ai modelli dati, una singolarità capace di ripensarsi in una dimensione collettiva , relazionale, fuori dall’idea di appartenenza a un “genere” coeso, valido per tutte le donne.
(…) Il dubbio che l’emancipazione rinasca sempre dai sedimenti più arcaici della dualità ereditata da secoli di cultura maschile trova oggi la sua conferma sia nella femminilizzazione dello spazio pubblico -come richiesta di “talenti femminili” da parte della nuova economia, dell’industria dello spettacolo, della pubblicità, del consumo, ma anche come precarietà diffusa, crisi della politica, ecc.- sia nel modo con cui vengono affrontate e discusse dalle donne stesse le questioni sempre più pressanti della “conciliazione” vita e lavoro.
(…)
Ma c’è un’altra possibile interpretazione, se si tiene conto di quello che è stato finora il fondamento di ogni “dialettica”, modellata sul dualismo sessuale: la tendenza alla riunificazione dei poli complementari, l’illusione di un armonioso ricongiungimento. Il ‘neutro’ non nasconde solo il volto di un padre o di un figlio, ma anche la figura ibrida dell’androgino.
“L’uomo greco -ha scritto Geneviève Fraisse- esclude le donne reali mentre si appropria del femminile”.
Il declino del patriarcato sembra aver portato allo scoperto un ideale di “uomo femmina”, fonte di ispirazione di filosofi, poeti, artisti, pensatori religiosi, figura di una maschilità temperata da sentimenti, emozioni, affetti in cui non è difficile per le donne riconoscersi. Se gli intellettuali nostrani non avessero tenuto in tanto discredito autori vicini al senso comune e all’immaginario collettivo, come Bachofen, Michelet, Mantegazza, non avrebbero bisogno oggi di interpellare tanti saperi per rendersi conto che la femminilizzazione della polis era già inscritta nel suo atto fondativo.
“…questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose.” (Paolo Mantegazza, “Fisiologia dell’amore”, 1879).

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Tramite lettera

Esperienze precedenti mi hanno insegnato che la lettera che si manda a una rubrica di posta ha il singolare privilegio di tenere insieme la ‘confidenza’, la consegna fiduciosa dei propri pensieri a un interlocutore attento, e l’estensione massima che può avere il sentire del singolo, fatto oggetto di riflessione collettiva. Scrivere a uno per parlare a molti. L’angolo della posta può ambire a disegnare strade che non portino a contrapporre il Cuore e la Politica, o a farne, come capita sempre più spesso, una poltiglia velenosa.
Cara Lea,
dopo aver letto la tua rubrica di posta sugli Altri del 12 marzo, ti scrivo per parlare di un altro tema su cui regna il silenzio, il tema dell’infanticidio. Dal 2004 al 2008 sono stati 133 i casi segnalati,di cui i più recenti ancora freschi di cronaca. Quello che colpisce è la scarsità di informazione con cui vengono trattate queste notizie. Che cosa c’è dietro? Quanta violenza privata? Così un paio di anni fa ho scritto sul tema un testo letto in pubblico. Alcune donne, non preparate, non hanno celato l’imbarazzo dopo l’ascolto. Poi è uscito il saggio di Elisabeth Badinter , Le conflit. La femme et la mére, che riapre la riflessione. Non ti sembra che dopo le conquiste del femminismo storico, la donna sia stata ricacciata nel ruolo nostalgico di madre, accompagnato e appesantito tuttavia dal desiderio di non dover rinunciare al lavoro fuori casa? In questo processo che ha investito il femminile, il maschile non è stato modificato nella sostanza per cui ora alla donna tocca un carico di lavoro sovrumano. Da dove altrimenti il numero crescente di donne che uccidono i figli? Sento una profonda comprensione per la solitudine in cui vivono queste donne, al di là di un troppo facile giudizio moralistico o pietistico.
Bianca Maria Neri
Cara Bianca Maria,
sulla donna che uccide il proprio figlio cade quasi sempre un giudizio impietoso. Se non si può addebitarle l’uso di droghe, come in uno dei casi più recenti, si lascia intendere che, a distoglierla da una doverosa dedizione materna, sono intervenute ‘velleità’ nascoste o malcelate -carriere, amori, successi- una distrazione imperdonabile rispetto a quella che resta, al di là dei cambiamenti, il ‘naturale destino’ femminile. Sulla ‘violenza privata’ che c’è dietro, nulla si dice perché della maternità, dell’oscuro travaglio di vita e di morte che esso comporta molto poco hanno detto le donne stesse. Nella Prefazione al romanzo Teresa, di Artur Schnitzler, Sibilla Aleramo commenta così il tentato infanticidio della protagonista: “quella feroce brama di annientamento, quell’attimo di coscienza, non sai se disumana o sovrumana, in cui la donna si ribella alla natura, si ribella a essere strumento di vita, poi quel trapasso dall’odio all’amore, quell’accettazione sommessa, quel rapimento e, infine, unica ma formidabile rivalsa, quel sentimento assoluto per tutta l’eternità, che il figlio è suo, soltanto suo”. Con una lucidità che neppure il femminismo sembra aver conservato, Sibilla sottolinea il legame perverso tra due violenze: quella che ha fatto della donna lo strumento della conservazione della specie per secoli, senza il suo consenso, e quella che, a sua volta, per ‘rivalsa’ o per un disperato rifiuto, la donna è spinta a esercitare sul figlio come suo ‘possesso’. ‘Si può uccidere un bambino perché piange?’-ci si è chiesti a proposito del delitto di Cogne. La risposta tragica e banale che si esita a dare è ‘sì, si può’, almeno finché si pensa che la sorte della madre e del figlio siano legate per sempre e in modo esclusivo, che per crescere l’individualità dell’uno sia necessario il sacrificio dell’individualità dell’altra.
(da “La posta di lea”, giornale “Gli Altri”, anno 2010)

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Chi ha paura della cultura femminista?

Perché, mi chiedeva Rossana Rossanda, in uno degli ultimi incontri che abbiamo avuto in Italia, le donne oggi presenti in gran numero nella vita pubblica non riescono a cambiarla, perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura? E’ la stessa domanda che ci fece alla fine degli anni ’70 e che torna ancora oggi di sconfortante attualità.

Sono tentata di elencare, come faccio ormai da tempo, le difficoltà e gli ostacoli, esterni ed interni, che ha incontrato il movimento delle donne: la resistenza degli uomini ad abbandonare poteri e ruoli che considerano “connaturati” al loro sesso, e a cui fa da copertura più o meno consapevole la “neutralità”; l’intuizione, sia pure oscura e tenuta timorosamente a bada dalla sinistra, che mettere a tema la questione uomo-donna, come ricordava Pietro Ingrao già trent’anni fa, “comporta affrontare punti di fondo dell’origine della società in generale, investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro; incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, forme e natura dell’assistenza” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989).

E’ questa “rivoluzione” dell’ordine esistente – e quindi non solo la lotta contro governi conservatori, politici corrotti e antidemocratici- che spaventa? Sono le angosce profonde, le insicurezze insopportabili di chi vede comparire nell’autonomia di pensiero delle donne lo spettro di una rimossa inermità e dipendenza infantile dal corpo che l’ha generato?
Qualunque siano le ragioni e le forme che ha preso nel tempo la misoginia maschile, diffusa a destra come a sinistra, tra politici e intellettuali, capitalisti e lavoratori, nativi e migranti, l’interrogativo che più inquieta resta quello che riguarda le donne stesse, la loro rabbiosa acquiescenza, l’adattamento a ruoli tradizionali di ancelle o cortigiane, il profluvio di discorsi lamentosi sui famigliari da accudire, sulle carriere interrotte, sui meriti calpestati, sul doppio e triplo fardello di chi si trova oggi a far da ponte tra privato e pubblico.

Se la bontà come virtù ha perso smalto, non si può dire lo stesso per l’imperativo che vuole le donne “brave e belle”. Non è forse questa l’immagine femminile che ci viene offerta indistintamente dagli schermi televisivi e dalla scena politica? Se non sono corpi-sfondo- cornice, esposti come specchi per le allodole anche in trasmissioni di carattere culturale, sono le diligenti segretarie che filtrano le mail e a cui il conduttore rivolge di tanto in tanto paterni sguardi, chiamandole confidenzialmente per nome. Oppure sono loro stesse conduttrici, preferibilmente di bella presenza, preparate, impeccabili, attente e pazienti nell’ascolto come nella mediazione, in quell’arena di oratori scalmanati che sono ormai i dibattiti televisivi.

A quarant’anni dalla nascita del neofemminismo, che ha messo in discussione in modo radicale il modello maschile di società -a partire dalla divisione tra privato e pubblico, identificata col diverso destino di un sesso e dell’altro-, non si può dire che manchino una cultura e pratiche politiche portatrici di questa consapevolezza e responsabilità nuove. Quello che qualcuno ha chiamato sprezzantemente “piccoli cenacoli autoreferenziali”, residui di una “vecchia guardia” femminista preoccupata di mantenere la propria “egemonia, sono le centinaia di associazioni, gruppi, centri di documentazioni, biblioteche, librerie, case editrici, collettivi, case delle donne, centri antiviolenza, riviste, ecc., che hanno resistito finora all’arrogante messa sotto silenzio e marginalizzazione da parte della cultura dominante, custodi di un patrimonio di sapere che potrebbe dare risposte adeguate agli interrogativi del presente: personalizzazione della politica, populismo, razzismo, omofobia, trionfo della merce, esaurimento delle risorse naturali, crisi di un modello di sviluppo.

L’indignazione per le donne-oggetto, per lo scambio sesso-carriere, per la prostituzione trattata come opportunità di emancipazione femminile, ha portato anni fa un milione di donne e uomini nelle piazze. Come mai allora tanto silenzio sulla cancellazione dell’intelligenza che ha saputo negli anni costruire un’immagine del maschile e del femminile fuori dagli stereotipi di genere, un’idea di individuo “intero”, né solo corpo né solo mente, la prospettiva di una collettività responsabile della conservazione della vita, di quello che è rimasto finora destino di un sesso solo?
Non c’è bisogno di richiamare l’attenzione, come abbiamo fatto tante volte, sui grandi eventi culturali -la Fiera del libro di Torino, il convegno annuale dei filosofi di Modena, ecc.- dove i libri e le riviste del femminismo sono pressoché assenti.

Nel suo delirante ma lucidissimo sessismo, Otto Weininger ebbe almeno il coraggio di scrivere che “si può ben pretendere l’equiparazione giuridica dell’uomo e della
donna senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale”.
Non mi sembra che, a oltre un secolo di distanza, si sia andati molto oltre.

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Le donne ‘schiave’ della loro forza?

“Il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
(Sibilla Aleramo)
A sottrarre la cura alla naturalizzazione che ne aveva fatto per secoli un destino femminile, confuso con l’attitudine materna e con l’amore, era già stata negli anni ’70 Lotta Femminista: un lavoro gratuito che di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale, svolto –come scrive Antonella Picchio– fuori dalle negoziazioni dirette con le imprese e per lo più tacitato e invisibile nelle negoziazioni con lo Stato”. Ma a distanza di tempo forse è possibile fare un passo ulteriore, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare o la monetizzazione dello Stato, e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellare.
E’ su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata, diventare un “paradigma di interesse generale”, così da far apparire definitivamente superata l’idea di conciliazione come problema delle donne e l’idea delle donne come categoria del lavoro. Se non è più subalternità, dedizione, costrizione, ma neppure ruolo materno e salvifico delle donne, se è restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi, ma anche benessere, buona vita, “passione dell’uomo” nel senso marxiano, allora effettivamente la posta è più alta e si può ambire a proporre una soluzione all’altezza dei tempi e dei problemi di oggi.
Punto di avvio non può essere che la crisi di quel “monumento del lavoro”, dottrinario, istituzionale, e tutto di stampo maschile, che si è stabilito nel secolo scorso e che ha fatto del lavoro un oggetto da regolamentare in funzione degli interessi dell’impresa e del capitale. La rivoluzione possibile viene dunque immaginata come un capovolgimento di quello che è stata finora la gerarchia tra fini e mezzi: il lavoro guardato a partire dalla vita, un’economia dove l’obiettivo non sia lo sviluppo della ricchezza ma lo sviluppo umano.
Le donne possono oggi dire un “doppio sì” alla carriera e alla famiglia, a patto che non gravino su di loro le ore e ore di lavoro materiale che si rendono necessarie quando ci si deve occupare dei corpi di bambini e anziani, dei luoghi dove questi corpi stanno o devono stare. In altre parole, quando, come osserva qualcuna, curare l’altro è dimenticarsi di sé, sopportare un lavoro massacrante e spesso disgustoso. Il coinvolgimento emotivo può essere più o meno forte, ma non è mai del tutto assente, neppure quando la cura è affidata a persone pagate per questo, come le donne straniere che la globalizzazione ha spinto nel mercato della cura.
Ma anche nel caso che questa secolare funzione femminile non sia delegata ad altri, basta ascoltare le esperienze di ogni singola donna -come ha fatto per anni il gruppo scrittura della Libera Università- per rendersi conto che altrettanto difficile è separare costrizione e scelta, piacere e potere. Non c’è dubbio che venire incontro al bisogno dell’altro è anche un modo per esercitare un controllo, rendersi indispensabili, creare dipendenza al di là del necessario.
“Il mio potere -scriveva già Sibilla Aleramo- era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
. Quante donne sono ancora schiave della loro forza? Quanto è ancora legata la funzione materna alla loro identità, al bisogno di contare e dare un senso alla propria vita? Quante sono disposte a riconoscere che il sacrificio di sé per il bene di un figlio può pesare su di lui come un macigno, un debito inestinguibile?
Sono domande a cui è ancora la pratica ereditata dalla stagione più radicale del femminismo, che può far fronte: dare parola alla soggettività, ascoltare dal racconto delle stesse lavoratrici la storia delle loro aziende -cosa si produce, come si produce-, e dall’esperienza di una giudice del lavoro che cosa è oggi la precarietà per i giovani, fatta di contratti a termine, di attese angosciose di proroghe e contenziosi giudiziari. Una volta saltati i confini tra produzione e riproduzione, caduti gli steccati della differenziazione astratta che ha contrapposto il corpo e la polis, il vissuto del singolo e i saperi “oggettivi”, la strada che si apre è quella della ricerca di nessi che ci sono sempre stati, ma che oggi forse è possibile portare alla coscienza e orientare verso nuove soluzioni.

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Lasciatele vivere

“Se l’amore si confonde col potere”
Università degli studi di Bologna.Corso di laurea in Filosofia
30 marzo 2016. Una lezione.

“Quando si parla della relazione uomo donna dobbiamo riconoscere che ci troviamo di fronte a un dominio particolare, che passa attraverso le esperienze più intime –la nascita, la maternità, la sessualità, i legami famigliari- e forse è proprio questa sua particolarità che rende così lento, difficile, contrastato il suo emergere alla coscienza di tanti e di tante, uomini e donne.”

“Se l’uomo fosse solo il dominatore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di uccidere. Forse è la tenerezza del figlio che le donne continuano a spiare dietro la violenza di un uomo, marito, padre, amante. Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché negli interni delle case tornano a confondersi la nostalgia dell’uomo figlio, il potere di indispensabilità della donna madre e i residui di un potere patriarcale in declino.”

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Psicanalisi e femminismo: alla ricerca di nessi

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi.
La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.
“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato.
L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”
“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui.
La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche. In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto.
Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, che si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali.
E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”
(da L.M., “Una visceralità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne”, Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2000)

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Via Tibaldi e il comunismo

Il diritto alla casa, le occupazioni a Milano nel 1971, le mie prime battaglie politiche con il movimento non autoritario e la rivista “L’erba voglio” ai suoi inizi.
Ringrazio le amiche e gli amici di Shake edizioni per la pubblicazione di uno dei miei primi scritti pubblici -“Via Tibaldi e il comunismo”, uscito sul n.2 della rivista settembre 1971, e poi nel libro “L’infamia originaria. Facciamola finita col Cuore e la Politica” ( 1977, 1997).
Sia la rivista che il libro sono oggi online.