‘Il corpo a corpo a scuola: la capacità di cura’

Nei giorni del delirio contro i fantasmi del Gender e mentre Roma (19 e 20 settembre) ospita il più grande incontro annuale nazionale dedicato all’educazione alle differenze e all’affettività (di cui Comune è media partner), offriamo questo saggio di Lea Melandri: spiega come e perché possiamo portare l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita di ogni giorno, nella sua interezza e fragilità, consapevoli che le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale sono venute meno. Qualsiasi esperienza di cambiamento, cioè la costruzione di una società senza relazioni di dominio, deve allora fare prima luce su un terreno che resta per lo più confinato in una “naturalità”: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. Ma per muoversi in questo terreno occorre che insegnanti ed educatori abbiano acquisito capacità di cura e conoscenza di sé e sperimentato una dimensione collettiva. Siamo pronti per questo cambiamento antropologico epocale?

Per leggere il saggio di Lea clicca qua

Articolo pubblicato il 19 settembre 2015 su Comune.info-net

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Le lettere degli adoloscenti: ‘La mappa del cuore’ di Lea Melandri

Adolescenza

Un consiglio agli insegnanti che si interrogano su come affrontare nella scuola l’ “educazione di genere” o “l’educazione dei sentimenti”: leggere alcune delle lettere che gli adolescenti mandano ( o mandavano) alle rubriche di posta dei giornali.
Non sarebbe difficile capire che l’adolescenza è uno dei passaggi più esaltanti e insieme più dolorosi della vita di un maschio e di una femmina, costretti a incuneare i loro corpi e i loro sentimenti dentro ingabbiature identitarie astratte, quali sono state finora le “figure di genere”, a dare realtà ai sogni per consentire una qualche strada praticabile ai loro più inconfessabili desideri, a inventarsi una religione per dare voce all’incantesimo della musica e dei suoi miti.

Interrogativi, dubbi, richieste, che spesso fanno naufragio perché non trovano chi li raccolga, nella famiglia o nella scuola.

Scrive Francoise Lefèvre, nel libro “Il Piccolo Principe Cannibale” (Franco Muzzio Editore, 1993):

“Non è la stessa cosa scrivere che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte queste parole censurate nella mia infanzia. Perché, in fondo, le mie preoccupazioni da quel tempo non sono cambiate granché, sono le stesse cose che mi ossessionano. E è come per Sylvestre, la fine delle cose. Le vite che finiscono. Tutto ciò che si ferma di colpo e si distrugge. Tutto ciò che è così difficile da dire sulla tenerezza dei corpi. L’attaccamento. Il terribile. Lo spaventoso attaccamento, che sbocca inevitabilmente nello spossessamento. Era tutto quello che volevo esprimere da bambina. Invece di censurarmi, avrebbero dovuto lasciarmi scrivere liberamente.”

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