‘Individuo e collettivo: chi se ne ricorda più?’

A seguito della tavola rotonda che si è tenuta a Roma -sabato ore 19 al Festival IMPUNITA dedicati a Don Milani e alla sua ” buona scuola”, riporto un mio articolo su Elvio Fachinelli, sulla lettura che fece di Lettera a una professoressa e sulle successive riflessioni sul rapporto individuo e collettivo.

‘Individuo e collettivo: chi se ne ricorda più?’, “Tysm”. Pubblicato il 6 ottobre 2015. (Ultimo accesso: 27 ottobre 2017. http://tysm.org/individuo-collettivo-ne-ricorda-piu/

 

Se il sessismo cominciassimo a cercarlo nella cultura alta?

Suggerimenti per chi insegna…e per chi vuol capire qualcosa di più sulla violenza maschile, manifesta o invisibile, contro le donne.

Se il sessismo cominciassimo a cercarlo nella cultura alta? Per esempio nella pedagogia di J.J. Rousseau?

Invece di limitarsi a contrastare una delirante “teoria del genere”, agitata come spauracchio contro ogni cambiamento del rapporto uomo-donna che cominci dall’educazione primaria, sarebbe molto più utile portare l’attenzione sui testi che, proprio attraverso la scuola, hanno protratto fino ad oggi la definizione di comportamenti, ruoli, identità del maschio e della femmina.

Un esempio. Alle donne è stato imposto di non esprimere i loro desideri, amorosi, sessuali, nei confronti dell’uomo, ragione per cui non hanno avuto altra possibilità che farli passare per vie indirette: la seduzione –l’uso erotico del loro corpo-, le cure materne estese a uomini adulti e perfettamente autonomi. Rendersi ‘desiderabili’ o ‘indispensabili’ è stato finora l’unico modo, non solo per esercitare un potere sostitutivo di altri poteri negati, ma anche per dare corso in qualche modo ai loro più inconfessabili sentimenti, sogni, emozioni e bisogni.

C’è una ragione che spieghi perché alle donne non sono stati tolti solo i poteri economici, sociali, culturali e politici, ma anche quello di essere “soggetto di desiderio”, a pari dell’uomo, messe cioè in condizione di vivere rapporti di reciprocità anche sul piano sentimentale, affettivo, sessuale?

La risposta, semplice e chiara tanto da essere esposta senza alcuna remora in un opera pedagogica, l’ha data il padre della democrazia moderna: Jean-Jacques Rousseau.

Le donne hanno due potenti “attrattive” –la seduzione e la maternità-, entrambe già presenti in quel corpo che l’uomo incontra alla nascita, in posizione di estrema dipendenza e inermità. Come tenerle a bada, se non incanalandole da subito in funzione dei suoi bisogni, della sua felicità, del suo piacere?

Ed ecco l’indicazione pedagogica, che si legge nell’ Emilio di Rousseau, e che ancora impronta l’educazione di genere, nonché il senso comune:

“Dipendono quindi dai nostri sentimenti, dal valore che attribuiamo ai loro meriti, dall’importanza che diamo alle loro attrattive e alle loro virtù. Proprio per legge della natura le donne, sia per se stesse che per i loro figli, sono alla mercé del giudizio degli uomini: non basta che siano degne di stima, bisogna che siano effettivamente stimate; non basta che siano belle, bisogna che piacciano; non basta che siano sagge, bisogna che siano riconosciute per tali; il loro onore non risiede soltanto nella loro condotta, ma nella loro reputazione (…) ciò che si pensa di lei non è meno importante di ciò che realmente ella è.”

“La buona complessione fisica dei figli dipende innanzi tutto da quella delle madri; la prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce; ecco i doveri delle donne in ogni età della vita e questo si deve loro insegnare fin dall’infanzia.”

“Perché fare attenzione a quello che dice la loro bocca, se non è con essa che devono parlare? Osservate piuttosto i loro occhi, il colore del loro volto, il loro respiro, il loro aspetto spaurito, la loro debole resistenza: è questo il linguaggio che la natura ha dato loro per rispondervi. La bocca dice sempre di no, e deve dirlo; ma il tono con cui lo dice non è sempre lo stesso, e questo tono non può mentire. La donna non ha forse gli stessi bisogni dell’uomo, senza avere lo stesso diritto di manifestarli? (…)

Non ha bisogno di un’arte particolare, quella di far capire le sue intenzioni senza scoprirle apertamente? E quanta scaltrezza le occorre, perché le venga strappato ciò che tanto ardentemente brama concedere! Quanto è importante che impari a far presa sul cuore dell’uomo senza avere l’aria di pensare a lui!”

“…la sua violenza risiede nelle sue attrattive ed è con queste che deve costringerlo a trovare in sé la forza e ad usarla. Il modo più sicuro per eccitare tale forza è di renderla necessaria offrendo resistenza. Allora l’amor proprio si unisce al desiderio e l’uomo trionfa della vittoria che la donna lo ha stimolato a riportare. Di qui nascono l’attacco e la difesa, l’audacia di un sesso e la timidezza dell’altro, infine la modestia e il pudore di cui la natura ha armato il debole per asservire il forte.”

“L’uno deve essere attivo e forte, l’altro passivo e debole; è necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altro opponga poca resistenza. Stabilito questo principio, ne consegue che la donna è fatta soprattutto per piacere all’uomo. Se è vero che l’uomo deve a sua volta piacerle, questa è una necessità meno immediata: il suo merito è nella sua potenza; egli piace per il fatto stesso che è forte. Non è questa le legge dell’amore, lo ammetto, ma è quella della natura, anteriore all’amore stesso.”

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Il femminismo a Milano Anni ‘70 Settima puntata L’esperienza dei corsi delle donne. Il corso “150” di via Gabbro 6. La Cooperativa “Gervasia Broxon”. 1976-1986.

Quando ho chiesto il trasferimento dalla scuola media di Melegnano ai “corsi 150 ore” per adulti –grande conquista delle lotte operaie per chi non aveva la licenza media- ero nel pieno del mio coinvolgimento femminista, profondamente convinta che la relazione uomo-donna fosse una questione centrale per ripensare la politica e le sue istituzioni, ma anche la storia, la cultura, i saperi e i linguaggi disciplinari, e decisa a portare nel mio ruolo di insegnante le consapevolezze nuove che mi venivano dal movimento delle donne. Sapevo che avrei trovato meno burocrazia e meno vincoli riguardo ai programmi, per cui mi sarebbe stato più facile introdurre nelle mie lezioni le tematiche che mi stavano a cuore e che erano sempre rimaste fuori dalla scuola. Nonostante sapessi che si trattava di una scuola prevalentemente operaia, il desiderio era di trovarvi presenze femminili.
Nominata molto tardi, ai primi di dicembre 1976, mi presentai alla scuola media di via Gabbro 6, in zona Affori-Bovisasca, senza illusioni e la mia grande sorpresa fu quando, aperta la porta, mi trovai di fronte a una trentina di donne, più qualche uomo. L’emozione fu tale che mi sedetti sulla prima sedia vuota, tanto che la mia vicina, prendendomi per una corsista, mi rassicurò dicendo che c’era stata una supplente e che “non avevano fatto ancora niente”. E’ cominciato così un’altra di quelle svolte che avrebbero segnato durevolmente –potrei fino ad oggi- la mia vita, i miei interessi, la mie scelte.
Le trenta ‘allieve’, non più giovani, erano quasi tutte casalinghe e avevano dovuto faticare non poco a farsi aprire un “modulo” nella loro zona. I sindacalisti, fermi all’idea di una scuola operaia, non capivano perché donne che erano state fino ad allora mogli e madri, impegnate nella cura della famiglia, volessero tornare a scuola, prendere una licenza media che non avrebbero probabilmente usato. Non appena abbiamo cominciato ad affrontare i temi che le rendevano più consapevoli di quella che era stata fino a quel momento la loro vita, è stato come se si fosse spalancata una porta, varcata la quale – come disse una di loro- non sarebbe stato più possibile tornare indietro. La felicità delle scoperte che venivano facendo si è espressa da subito con manifesti, volantini, dispense che preparavamo col ciclostile, i cui titoli erano già rivelatori del cambiamento che era avvenuto in loro e che avrebbe contagiato in breve tempo altre donne, altri quartieri di Milano. Ne ricordo alcuni: Più polvere in casa meno polvere nel cervello (nel disegno del manifesto una donnina che si spolverava la testa), L’uovo terremotato (un grande uovo spalancato da cui uscivano file di donne), E’ sparita la donna pallida e tutta casalinga, Acrobate, La Traversata.
Il corso di via Gabbro è diventato, fin dal 1976, un esempio e le donne che lo hanno frequentato si può dire che sono state delle ‘pioniere’dimostrando le potenzialità che hanno la scuola e la cultura di modificare i ruoli tradizionali della donna. L’esperienza di Affori ha attirato subito l’attenzione dei giornali e della televisione, tanto che si è pensato, con un’amica regista, di darne noi stesse notizia in modo più creativo. Il film-documentario di Adriana Monti, Scuola senza fine, in cui sono ricostruite le storie di alcune corsiste e l’incontro con me, sarà proiettato alla New York University in occasione di un convegno su “Donne e cinema in Italia”(1985). Molto apprezzato dalle femministe americane fu poi riportato quasi per intero nel libro Off Schreen, stampato a NY e Londra.
Per le corsiste era la riscoperta di una vita trascorsa all’interno della famiglia alla luce di una consapevolezza nuova. I loro scritti, nati spontaneamente sotto la spinta del desiderio di raccontarsi con una libertà fino allora sconosciuta, non avevano niente di retorico, di scolastico, andavano dritti alla verità che affiorava man mano dal pensare e confrontarsi con altre. Per me era, ancora una volta, ritrovare figure del mio passato, donne che somigliavano a quelle della mia famiglia, del mio paese; ricucire in qualche modo lo strappo che si era prodotto fra me e loro dal momento che io avevo potuto studiare, avere finalmente una lingua comune con cui parlarci, riflettere sulle nostre diverse esperienze. Ricordo in particolare Amalia Molinelli, contadina emiliana che, migrata con la famiglia in città, aveva fatto i mestieri più duri coltivando in modo silenzioso e solitario pensieri profondi, che trovarono immediatamente espressione nella scrittura. Era una lingua molto creativa, una commistione di dialetto e italiano, che entrava senza soggezione nei saperi specialistici – la matematica, la filosofica, la fisica- scombinandoli, costringendoli a confrontarsi con la vita personale, con la quotidianità, con il diverso destino toccato al maschio e alla femmina. Ne uscirà, anni dopo, un libro: I pensieri vagabondi di Amalia.
Finito il corso che avrebbe dato loro la licenza media, nel giugno 1976, come era prevedibile, le donne che l’avevano frequentato con tanto entusiasmo non vollero più rientrare a casa. Così dovetti inventarmi “corsi monografici” –inizialmente senza alcun riconoscimento istituzionale-, “bienni sperimentali”, usando aule messe a disposizione dalla scuola e invitando a tenere corsi, gruppi, lezioni, le amiche femministe che avevano saperi e pratiche da trasmettere. Per la maggior parte venivano dal gruppo, nato nel 1977 nella sede di Col di Lana, “sessualità e scrittura”.
Nel 1980, con un finanziamento europeo, nascerà in un locale del quartiere Bovisasca, la Cooperativa Gervasia Broxon. Il nome era inventato ma nessuno ha mai chiesto chi fosse. Le partecipanti era le stesse che avevano aperto il corso nel 1976, più altre che si erano via via aggiunte. Il fine della cooperativa era di prepararle a diventare delle grafiche, ma dietro c’era l’idea di interrogare i saperi disciplinari e il lavoro alla luce di una cultura che aveva escluso le donne, considerandole custodi ‘naturali’ della famiglia. Altrettanto importante era l’analisi dei rapporti che si venivano creando tra di noi, insegnanti e allieve, l’occasione che avevamo di ripensare la nostra formazione scolastica alla luce delle esperienze di vita che ne erano rimaste fuori.
Negli anni della “Milano da bere”, della “voglia di vincere”, che contagiò anche una parte del femminismo –in particolare la Libreria delle donne- la “scuola senza fine di Affori” per la complessità dei problemi che aveva scelto di affrontare, non poteva avere la risonanza che meritava, ma fu comunque un laboratorio unico e originale nel tentativo di mettere a confronto intellettuali e donne comuni. Le teorie elaborate dai gruppi femministi erano costrette ad esporsi agli interrogativi che venivano ancora una volta dalla vite concrete, oltre che a confrontarsi con discipline e linguaggi specialistici tradizionalmente ‘neutri’.
Nel quartiere di Affori Bovisasca ho trascorso, dal 1976 al 1986, quando si chiuderà la Cooperativa, i dieci anni più intensi del mio insegnamento e del mio impegno femminista. Pur senza vivere nel quartiere, trascorrevo lì la maggior parte del mio tempo, come se stessi effettivamente dando corpo a un altro ‘paese’, simile per tanti aspetti a quello che avevo lasciato in Romagna. In particolare, penso all’occasione che ho avuto di condividere con le mie corsiste e corsisti la passione per il ballo liscio. Nel seminterrato dove si svolgevano i corsi ogni ricorrenza era buona per organizzare feste e balli, a cui partecipavano talvolta anche gli ex-pazienti delle comunità legate al Paolo Pini.

Tutte le puntate in video:

http://www.memomi.it/it/00007/13/il-femminismo-a-milano.html

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‘ “A scuola con Zazie” prevede l’educazione alla parità di genere, alla sessualità e alla non violenza. E un laboratorio con Lea Melandri’

A Cosenza: leggi

La parità tra i sessi si impara in classe, un progetto alla Gullo di Cosenza

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Presentazione progetto “A scuola con Zazie”

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Immagine tratta da CosenzaInforma

Cosenza 20 aprile 2017
Istituto Scolastico “Gullo”: Progetto formativo “A scuola con Zazie”.

Laboratorio discrittura di esperienza.

“Mortificata o cancellata dietro l’esercizio tecnico del ‘tema’ tradizionale, quale altro posto o significato potrebbe allora avere la scrittura nella scuola? Come il desiderio di parola, anche il desiderio di scrittura è prioritariamente legato alla relazione con se stessi e con gli altri .
(…)
E’ quella che ho chiamato la “scrittura di esperienza”, legata alla conoscenza di sè, all’esplorazione di zone rimosse, accantonate, del pensare e sentire del singolo, anche se, per certi versi, le più universalmente condivise.
La scrittura diventa allora il viaggio, carico di imprevisti, attraverso tutto ciò che dell’umano risulta ancora ‘indicibile’, ‘impresentabile’, un modo per accostarsi alle cose che non siamo stati capaci di nominare, tesori di cultura sepolti nella memoria del corpo, che si tratta solo di portare alla luce.”
(…)
La nostra soggettività è combinazione di voci e volti diversi, per cui, se la sappiamo ascoltare, ci accorgiamo che parla una ‘lingua ibrida’, in cui confluiscono come in una deriva morenica parole non dette, parole ascoltate da altri, materiali colti e ‘comuni’.”

Un’educazione alle radici dell’umano

Il “ragazzo vivo” e il “ragazzo scolastico”
“Ma la scoperta o la presa di coscienza più importante per chi cominciava allora il suo insegnamento, era l’aprirsi di una prospettiva nuova: partire dall’esperienza di ognuno, riportare dentro le aule la vita in tutti i suoi aspetti, creare le condizioni per poterla raccontare farne oggetto di riflessione insieme agli altri. Voleva dire legittimarsi a portare allo scoperto tutto ciò che era rimasto fino allora “il sottobanco”, dare voce al “ragazzo vivo”, contrapposto al “ragazzo scolastico”, per usare l’espressione di uno dei miei allievi della scuola media di Melegnano.”

Articolo pubblicato su Comune-info.net il 13.II.2015, per leggerlo clicca qui

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ADULTI E BAMBINI: IMPARARE INSIEME

La critica delle identità di genere, tradizionalmente intese, ha delle ricadute educative. Cambiando i rapporti di potere, la divisione sessuale del lavoro, l’idea di virilità e femminilità, si modificano anche le figure genitoriali: i figli avranno davanti sempre di più, anziché padri e madri, individui con le loro passioni, i loro interessi. In altre parole: adulti capaci – come scriveva Elvio Fachinelli – di «imparare, divertirsi, modificarsi insieme a loro»

Articolo pubblicato il 6.II.2015 su Comune-net.info, per leggerlo clicca qui

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Il femminismo in una grande manifestazione a Roma

26.XI.2016

Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come spinta a uscire dalla carsicità.
Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è piazza San Giovanni a Roma, è sicuramente il modo più felice per rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è. Una manifestazione come quella di oggi, come quelle che si sono succedute da quarant’anni a questa parte, devono darci il coraggio di dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc –o forse proprio per questa varietà- è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.

Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto analizzato, sia sulle sue forme manifeste -stupri, omicidi, maltrattamenti- sia su quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano nella “normalità”, nel senso comune, nei gesti e nelle parole della quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso finora. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.

Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno. E’ il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza maschile in tutte le sue forme,a partire da quei segni profondi che ha lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate con la natura, il corpo, la conservazione della specie. Abbiamo scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e disuguaglianze che la storia ha conosciuto.

Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più disposte a tollerare:
-che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che qualcuno ancora si permetta dire che il femminismo è morto o silenzioso;
-che quando interviene una “parola pubblica” a istituzionalizzare pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati. Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il Terzo settore, i servizi sociali.
-che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la certezza di finanziamenti al riguardo.

Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono “vittime” della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella, inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice “Io decido” della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere figli.

Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan –“Io decido”, “Non una in meno”- per dire che continueremo a batterci contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e forse riusciremo a trovare quei “nessi” che legano la specificità dei nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.

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Per capire la violenza bisogna interrogare l’amore

Intervista realizzata da Anna Spena del 05 febbraio 2016 (per leggerla clicca qui)
Sopportano in silenzio la violenza sia fisica che psicologica degli uomini con cui vivono. Poi, molto spesso finiscono per fare il maternage anche nei luoghi di lavoro. Ma perché lo fanno?
Che rapporto ha avuto lei con la sua famiglia d’origine?
Sono figlia unica. I miei genitori erano contadini molto poveri che lavoravano in un paesino di provincia della Romagna. Vivevamo però in una cascina con altri tre famiglie. Mio nonno era il patriarca. Quando c’è molta povertà c’è sempre tanta violenza. Ho visto donne forti, vitali che lavoravano in campagna, curavano i loro mariti, la casa, sottomettersi. Erano donne che sottostavano al comando degli uomini e ne subivano la violenza. Quando a 25 anni sono uscita da quella famiglia avevo un’idea delle donne e del femminile molto ambigua: da un lato una figura potente e importante; sostegno materiale e indispensabile, dall’altro persone sottomesse e maltrattate.
Poi è andata via?
Nonostante la povertà, ho avuto modo di studiare. Sono stata fortunata. A 25 anni ero già entrata di ruolo in un liceo. Per compiacere la mia famiglia ho sposato un ragazzo. Avevo questo strano senso di colpa e riconoscenza per i miei genitori che avevo timore a contraddirli. Ma il vedermi fissata già in quel ruolo di moglie e madre in quella casa non poteva andare bene per me. Dopo tre mesi l’ho lasciato “mio marito” e mi sono trasferita a Milano. Era il 1966.
I ruoli di moglie e madre…
Arrivata a Milano ho incontrato il movimento delle donne. È stato il femminismo dell’inizio che ha posto degli interrogativi radicali. Quelli che io chiamo del corpo, della sessualità, della maternità. Gli interrogativi sul rapporto tra i sessi. È così che ho iniziato a capire quanto la storia e la cultura avessero inciso a dare una forma precisa alla vita delle donna sia nella sfera pubblica, immobilizzata in una sorta di innaturalità, che in quella privata dove la donna viene cancellata come persona, come individuo: “sono le mogli di…”, le “madri di…”.
Qual è il punto di inizio di questa “rivoluzione” femminile?
Mettere a tema tutto quello che era fuori tema. La vita personale, la donna, non era più un residuo della storia consegnato alla cultura. La storia non scritta, quella della vita personale delle donne, doveva essere restituita e scardinare l’ordine esistente.
Perché ancora oggi è così marcato questo confine tra “quello che è maschile” e “quello che è femminile”?
Ci portiamo dietro un’eredità pesantissima. Sedimenti profondi che vengono da secoli di storia. Lo assorbiamo fin da bambine attraverso l’educazione, la famiglia, la scuola. Così hanno insegnato alla vittima a parlare la stesse lingua dell’aggressore.
Il problema principale è che sono prima le donne ad aver interiorizzato un modello sbagliato?
Assolutamente. In che altro modo si potrebbe spiegare tutta questa “sopportazione” rispetto alla violenza degli uomini. Fisica, psicologica. C’è una copertura forte, è inutile negarlo.
Che cos’è questa copertura?
È questo legame tra uomo e donna che tiene intrecciati e confonde ancora amore e violenza. Per capire che cos’è la violenza, banalmente, a volte, bisogna interrogare l’amore. Non sentite spesso dire “l’ho fatto per amore”?.
Questo nel privato. Ma nella vita pubblica?
Le donne nella vita pubblica per un verso cercano di far valere le loro doti, le loro capacità. Ma poi spesso si ritrovano in una posizione quasi ancillare con gli uomini. Finiscono a fare il maternage anche nei luoghi di lavoro. Li sostengono, se ne prendono cura. Quindi quello che io vedo è ancora questa difficoltà nell’andare fino in fondo, nel provare a capire dov’è nata questa “capacità di sopportazione” della violenza sia manifesta che più sottile. Con violenza manifesta intendo proprio il maltrattamento fisico in tutte le sue forme più vistose e selvagge.
Che intende, invece, quando parla di “forme più sottili”?
È la violenza invisibile, quella che c’è anche nell’amore. È questa idea di dedizione, questa forma di appartenenza intima ad un altro essere, questa idea di essere “due in uno” che ti vincola. E lo fa perché in qualche modo ricrea il legame che c’è nell’infanzia tra una madre ed un figlio che non può essere prolungato anche nelle relazioni della vita adulta. Perché questo sogno di “fusione” non può che scatenare violenza. Non vedete come l’uomo si accanisce contro il corpo che l’ha generato? Che poi è lo stesso corpo che gli ha dato le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali. Ed è lo stesso corpo che poi l’uomo adulto incontra nella vita amorosa e di nuovo torna a sognare “il sogno d’amore e l’illusione del due in uno”. Dell’essere quindi intimamente appartenenti ad un altro essere.
“Una donna deve stare nel mondo. Deve fare le cose che ama per legittimare la sua intelligenza. Fare tutto quello che “non è stato pensato per loro”
Perché le donne sopportano?
Siamo chiamate, fin da piccole, a dare amore. Ogni donna si porta dietro dall’infanzia questa forma di dedizione verso l’altro. Non siamo l’oggetto dell’amore, noi quello dobbiamo solo darlo. Quando ad una bambina metti in mano una bambola, le stai dicendo “prenditi cura di, dai amore all’altro”. Quindi c’è una cesura profonda sul desiderio e bisogno d’amore della donna fin dall’inizio. La donna è stata confinata per secoli in questo ruolo di madre ed oggetto sessuale. Questo ha fissato l’amore nella sua forma originaria.
Qual è il potere che le donne inconsciamente cercano?
Quello di essere indispensabili. Ad un figlio, ad un marito, ad un amante. Rendersi indispensabili è il potere sostitutivo di altri poteri che le donne non hanno avuto. Quando le hanno confinate all’interno delle case è lì che hanno cercato di “strappare” qualcosa per sé. Si cerca di creare un debito nell’altro. Debito che, tra l’altro, diventa inestinguibile. Banalmente quando si mette sulle spalle di un figlio il sacrificio della tua vita e gli si dice “ho dedicato la mia vita a te”, gli si mette anche una croce sulle spalle da cui non si libererà più.
La vita pubblica del marito, ha stabilito anche il ruolo privato della donna. Le donne hanno assunto questa “visione dell’altro” come se fosse la loro…
L’idea di essere indispensabili per il marito o per un figlio è uno dei nodi più difficili da sciogliere nelle donne. Ed è questa funzione di indispensabilità che lega per molto tempo le donne a questi uomini. Anche a quelli che si giocano tutto e mettono a rischio la famiglia. Si considera il compagno come un figlio scapestrato che si deve recuperare, aiutare.
Di solito giocano anche i soldi delle compagne o delle mogli…I soldi dell’uomo sono dell’uomo. Quelli della donna pure sono dell’uomo. Il patrimonio, nell’immaginario collettivo, è maschile…
C’è sempre questa strana presunzione, nelle donne, di poter essere “la salvezza o la dannazione” di quell’uomo…
È idea antica questa. Si trova nell’antologia del maschilismo. Ma ce l’hanno anche le donne dentro. “Io lo posso salvare”, “io lo posso aiutare”. Quindi se sopportano a lungo è perché dietro c’è sempre questa idea di “una possibilità di riscatto”, di un “cambiamento possibile da parte dell’uomo”.
L’interrogativo vero è, ma come vivono le dipendenze dei mariti, come il gioco d’azzardo ad esempio, la vivono come violenza oppure ancora come debolezza?
Il dato di fatto, anche se triste, è che la posizione delle donne non è ancora radicalmente cambiata nella società. Dove ha sbagliato il femminismo?
Quantitativamente sono tantissime le donne nella sfera pubblica. Si trovano anche in contesti di potere ad un livello discreto. Il problema è che non sono presenti in una funzione che ha cambiato molto l’identità e il ruolo femminile. Non si esce da millenni in cui le donne sono state educate in funzione dell’altro con tanta facilità. Quello che il femminismo deve continuare è questo processo non tanto di emancipazione ma di liberazione rispetto ai modelli profondi che ci portiamo dietro. La pratica dell’autocoscienza bisognava portarla avanti. Dove? In tutti i luoghi possibili dove siamo presenti: nei giornali, nelle università, nei partiti. Dobbiamo ragionare su come stiamo dentro quel luogo. E soprattutto dobbiamo chiederci: perché stiamo in un luogo che ha creato linguaggi che non ci contemplano.
I ruoli di potere sono ancora solo maschili?
Non c’è dubbio. I rapporti di potere vanno avanti da millenni, non si scalzano in una o due generazioni. E le donne nel tempo hanno fatto propria quella immagine di sé. E gli uomini difficilmente mollano il loro potere…

(verso il 26 novembre…)

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”Genere” sarai tu!

Oggi si parla molto di “educazione di genere”, ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di “genere”, appartenenza a un gruppo pensato come omogeneo, un tutto coeso- è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile. Siamo sicuri che nell’immaginario dei bambini ( e forse anche di tanti insegnanti) non sia ancora presente inconsciamente l’idea che l’ “individualità” è un requisito solo maschile?

Prendiamo, per esempio, il libro di David Gilmore, La genesi del maschile (La Nuova Italia, Firenze 1993) che, volendo riportare la problematica dei “generi” sul versante dell’esperienza dell’uomo, ribadisce di fatto, senza registrare alcuna contraddizione, le immagini più tradizionali di virilità e femminilità. Il processo di “separazione-individuazione”, rispetto all’originaria “fusione” con la madre, per Gilmore riguarda solo l’uomo. Se alla femmina basta rafforzare l’identificazione con la figura della madre, assecondando un destino già inscritto nella sua condizione biologica, il maschio deve invece sopportare un “allontanamento dalle consolazioni della vita privata”, dal suo “infantile bozzolo di piacere e sicurezza”, per un ruolo sociale culturalmente imposto, che comporta fatica e rischi. I “riti di passaggio”, che Gilmore rintraccia come processo comune a popoli, culture tradizionali di varie parti del mondo, per il costituirsi dell’identità virile, celebrano simbolicamente la morte e la rinascita di una individualità maschile ancora incerta tra la nostalgia della prima dimora e la sua necessaria collocazione nella comunità degli uomini. Ma se guardiamo bene, quello che si delinea è il capovolgimento della situazione d’origine: l’uomo da “destinatario” si trasforma in “donatore dei mezzi di sussistenza”, “protettore, creatore, sostentatore”. Fare guerre, accumulare beni, sfidare pericoli diventa il modo con cui egli assume su di sé la funzione che era prima della madre: garantire vita e protezione “a coloro che si amano”. La virilità viene a costituire “una forma di procreazione maschile”. Si rivendica quindi per l’uomo tutto ciò che è stato prerogativa femminile: la potenza generativa, l’altruismo, il sacrificio di sé, la disponibilità a nutrire.
In questo capovolgimento delle parti, che parla ancora il linguaggio dell’amore, e che tutt’al più si appoggia alla necessità biologica (la gravidanza, la minore forza fisica delle donne) e ambientale (difesa dalla natura e dalle aggressioni nemiche), quello che viene occultato è il dominio storico di un sesso sull’altro, la sottomissione violenta del corpo da cui si nasce, svuotato per un verso di capacità propria, reso insignificante dal punto di vista sociale, per l’altro mitizzato e sacralizzato, in quanto ritenuto depositario di una beatitudine iniziale a cui si vorrebbe fare ritorno.”

Non diversa è la posizione di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e “competenze” di “genere”, sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della “mobilità” e della “staticità”, che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come “reminiscenze”, “modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali”. Se il “fare sociale”, che è dell’uomo, comporta “l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista”, quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al “desiderio di essere bella e di piacere”, ma soprattutto alla “capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio”, capacità che fa della donne una “compagna comprensiva ed una madre sicura di sé”.

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