La politica del desiderio

Scrive Roberto Ciccarelli:

‘La forza di allargarsi “senza far uso di bibbie”. Ciò che conta non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio. Quella da cercare è un’ostinata obiezione di incoscienza. Lea Melandri scrive del “desiderio dissidente” di Elvio Fachinelli, probabilmente l’eredità più appassionante di una stagione così lontana, così presente. #Sessantotto cinquant’anni dopo’

Entrati nel cinquantenario -1968/2018, ripropongo con piacere l’originale lettura che di quella rivoluzione culturale e politica fece lo psicanalista Elvio Fachinelli.

Per leggere l’articolo di Lea pubblicato su Comune-info.net il 21 dicembre 2015, clicca qui

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Un augurio speciale

Il 21 dicembre 1989 moriva a Milano Elvio Fachinelli, psicanalista, originale interprete del ’68, fondatore della rivista “l’Erba voglio” (1971-1977).

Quanto fosse rimasto legato alla”rivoluzione” culturale e politica di quegli anni, lo dimostra il suo articolo uscito su “L’Espresso”, n.14, 12 aprile 1987.

Lo dedico come augurio per il nuovo anno a tutte le vecchie e giovani “talpe” che non hanno mai smesso di scavare carsicamente, consapevoli – come scriveva Fachinelli- che “la rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevenibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni.”

Elvio Fachinelli

Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli*
1987

l mutamento dei costumi sessuali in Occidente (per favore, non la
«rivoluzione») comincia molto tempo fa, forse all’epoca di Abelardo
ed Eloisa. Ma per limitarci agli ultimi vent’anni in Italia, sentiamo e
sappiamo che ci sono notevoli differenze fra i settanta e gli ottanta.
Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto
a tentativi di uscire dalla famiglia, di far fuori la famiglia, l’esecrata
famiglia. C’è una specie di diffusa fobia per questa istituzione,
vista come luogo chiuso, coatto, defecatorio.
Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche
soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi
si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in
là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi, una bella
contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi, eppure aguzzi, e taglienti
per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la
pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti,
svaniti, introvabili.
Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella
che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non
c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì
andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto
enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà (chi ha
mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che
è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando. Anche con l’Aids, nuova cintura di castità, ombrello sanitario, castigo degli infedeli. «Va’, va’, povero untorello, non sarai tu che schianterai Metropoli».1 E anche nella reintegrata famiglia reaganiana, che si vuole a guscio pieno, non vuoto, muro solido, non friabile, e che a guardarla da vicino è invece piuttosto spesso una riunione di single che stanno lì soprattutto per i figli.
Ed ecco i single, appunto, parola abbastanza nuova, però quasi un emblema, che contrassegna tanti tipi strani, diversi, spesso infelici (ma chi ha mai detto che la felicità del sesso stia in quell’idiota sorriso di redenzione che aleggia sui volti dei «liberati sessuali»?). Tanti tipi diversi uniti forse dall’essere eredi non testamentari, continuatori casuali, ricercatori extrafamiliari degli anni settanta che scoprivano amori fantastici, irregolari, anche un po’ impossibili. Amori abbastanza vicini a quelli che albeggiano oggi dalle videocassette nelle camere dei single, prima di dormire o di vegliare; amori di sogno, o d’occasione, o di crociera immaginaria, insomma amori di solitudini comuni, come quelli delle comunità solitarie sparite nel vuoto verso la fine
degli anni settanta.

(da “L’Espresso”, n.14, 12 aprile 1987)

Foto di Lisetta Carmi

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A Elvio Fachinelli, nella ricorrenza della sua morte avvenuta a Milano il 21 dicembre 1989.

Psicanalista, geniale interprete della dissidenza giovanile degli anni ’70, e del rapporto tra psicanalisi e politica, individuo e società, biologia e storia, il suo pensiero e la sua pratica politica,
dal movimento non autoritario nella scuola alla rivista “L’erba voglio”, sono oggi di straordinaria attualità, come tentativo di portare la politica “alle radici dell’umano”, fuori dalla “rovinosa dialettica” che ha segnato finora lo sviluppo della civiltà.

Frammenti (di riflessione e buon augurio)

“La rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevedibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni”.

“Solo un agire che riesca a trasferire su di sé la capacità di mutamento che è ora del sogno, potrà eliminare la necessità di quei sogni; un agire che spezzi la separazione tra sogno (impossibile) e realtà (più che possibile). Di qui, l’indicazione politica: per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni.”

“Le nostre idee, che ci augureremmo di sentire fischiettare la mattina dal garzone del fornaio, propongono comportamenti, modo di agire, anche insoliti, e questi movimenti reali, di tutto il nostro corpo, a loro volta criticano seriamente le nostre idee”.

“…per incontrare Edipo bisogna trovarsi sulla strada di Tebe; bisogna che l’analista costituisca in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica…L’ascolto analitico deve manifestarsi come capacità di percepire il negativo, l’irregolare, l’aritmico, le situazioni che, appena accennate, e quali che siano, rischiano di essere subito soffocate o, meglio ancora, inquadrate e funzionalizzate (…) in più, deve però anche manifestarsi come capacità e possibilità di interrogare i tentativi che, spesso in modo rozzo, elementare, disordinato, vengono continuamente sorgendo nella nuova generazione come risposta a nuovi problemi”.

“Il mondo che lo foggia (il mondo della madre-la madre come mondo) è un mondo corpo in continuazione con il suo, prima, poi comunicante con esso; un corpo che lo tocca, lo accarezza, lo nutre, lo fa sobbalzare, lo tratta con delicatezza oppure no, con esitazione oppure no; un corpo che gli comunica caldo, freddo, equilibrio, squilibrio, pressione, contatto, odori, ritmo, suoni(…) Quest’esperienza traccia alcune linee fondamentali nel bambino come corpo desiderante e comunicante, sulle quali si innesta poi l’universo del linguaggio. E’ questa una esperienza che, mentre a sua volta modella il bambino, presuppone quell’esperienza precedente; vale a dire: il simbolico presuppone quei privati simboli corporei”.

“Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario (…). Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte. Nausicaa, Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese (…) Anche per la scoperta freudiana fu così? Un’accettazione di qualcosa che veniva, in un certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare? Bisognerebbe rileggere le origini della psicanalisi da questo punto (…) Il sogna osa generalmente più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia di ciò che vuoi essere –ciò che puoi essere, allora”

Nella foto: con Elvio Fachinelli

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‘Individuo e collettivo: chi se ne ricorda più?’

A seguito della tavola rotonda che si è tenuta a Roma -sabato ore 19 al Festival IMPUNITA dedicati a Don Milani e alla sua ” buona scuola”, riporto un mio articolo su Elvio Fachinelli, sulla lettura che fece di Lettera a una professoressa e sulle successive riflessioni sul rapporto individuo e collettivo.

‘Individuo e collettivo: chi se ne ricorda più?’, “Tysm”. Pubblicato il 6 ottobre 2015. (Ultimo accesso: 27 ottobre 2017. http://tysm.org/individuo-collettivo-ne-ricorda-piu/

 

Se poesia e politica parlano la stessa lingua.

Il 12 aprile 1987 usciva su “L’Espresso” questo articolo di Elvio Fachinelli. A distanza di circa trent’anni, e pensando alle manifestazioni imprevedibili e sorprendenti (soprattutto dopo gli attentati terroristici di questi mesi) che stanno avvenendo in Francia, ho deciso di riproporlo per la sua profetica lucidità.

Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli*
1987
Il mutamento dei costumi sessuali in Occidente (per favore, non la
«rivoluzione») comincia molto tempo fa, forse all’epoca di Abelardo
ed Eloisa. Ma per limitarci agli ultimi vent’anni in Italia, sentiamo e
sappiamo che ci sono notevoli differenze fra i settanta e gli ottanta.
Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto
a tentativi di uscire dalla famiglia, di far fuori la famiglia, l’esecrata
famiglia. C’è una specie di diffusa fobia per questa istituzione,
vista come luogo chiuso, coatto, defecatorio.
Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche
soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi
si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in
là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi, una bella
contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi, eppure aguzzi, e taglienti
per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la
pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti,
svaniti, introvabili.
Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella
che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non
c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì
andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto
enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà (chi ha
mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che
è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove
* «L’Espresso», n. 14, 12 aprile 1987.
chissà quando. Anche con l’Aids, nuova cintura di castità, ombrello
sanitario, castigo degli infedeli. «Va’, va’, povero untorello, non sarai
tu che schianterai Metropoli».1 E anche nella reintegrata famiglia reaganiana,
che si vuole a guscio pieno, non vuoto, muro solido, non friabile,
e che a guardarla da vicino è invece piuttosto spesso una riunione
di single che stanno lì soprattutto per i figli.
Ed ecco i single, appunto, parola abbastanza nuova, però quasi un
emblema, che contrassegna tanti tipi strani, diversi, spesso infelici (ma
chi ha mai detto che la felicità del sesso stia in quell’idiota sorriso di
redenzione che aleggia sui volti dei «liberati sessuali»?). Tanti tipi
diversi uniti forse dall’essere eredi non testamentari, o continuatori
casuali, ricercatori extrafamiliari degli anni settanta che scoprivano
amori fantastici, irregolari, anche un po’ impossibili. Amori abbastanza
vicini a quelli che albeggiano oggi dalle videocassette nelle camere
dei single, prima di dormire o di vegliare; amori di sogno, o d’occasione,
o di crociera immaginaria, insomma amori di solitudini comuni,
come quelli delle comunità solitarie sparite nel vuoto verso la fine
degli anni settanta.
Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli 1219
1 [Allusione alla battuta del monatto che scambia Renzo per untore e gli dice appunto: «Va’,
va’, povero untorello […] non sarai tu quello che spianti Milano» (A. Manzoni, I promessi sposi,
a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1964, cap. 34, p. 831)].

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Milano: un paesaggio mentale?

 

“Milano -si legge in una breve intervista a Elvio Fachinelli del 1989, l’anno sua morte- “è una città in qualche modo astratta, asettica, ‘non’ provinciale e proprio per questo molto attraente per un intellettuale”. A me è capitato spesso, negli ultimi anni, di definirla “un paesaggio mentale: un luogo dove i sensi si eclissano, perché non hanno niente a cui appoggiarsi e su cui sostare, e dove, al contrario, i pensieri possono viaggiare indisturbati, affondare nella memoria o aprirsi a soluzioni nuove, impensate.

Ma è sempre stata così, per me, per Elvio, per tutti quelli che, arrivati qui dalla provincia negli anni cinquanta o sessanta, hanno poi respirato la ventata libertaria del ’68, del movimento non autoritario e del femminismo? E’ vero che i “gruppi affinità, di simpatia, di bizzarria” che si formarono allora, intolleranti dei vincoli imposti dalla tradizione e desiderosi di creare “nuove istituzioni d’amore”, si sono rapidamente dissolti come “cristalli liquidi”. Ma cosa ha poi impedito che si ricristallizzassero altrove? Da quando, per molte donne e uomini che l’abitano come me da oltre quarant’anni, e che si sono abituati a pensarla come “casa”, Milano è diventata così evanescente, così famigliare e sconosciuta al medesimo tempo?

Dietro l’etichetta di “anni di piombo”, si può dire che è sparito un decennio di tentativi generosi e straordinariamente creativi, di portare al centro della città quelle che sono state da sempre le sue periferie, i suoi margini, i suoi “rifiuti” storici: una perdita salutare di confini che lasciava intravedere nuove forme di socialità, intrecci inusuali di privato e pubblico, di affetti, amicizie e progettualità politica, di territori fino ad allora separati, come la scuola e la fabbrica, gli studi degli analisti e le piazze. Non c’è radicamento più solido e duraturo, più esente da ambivalenze -nostalgia e tentativi di fuga- di quello che si costruisce dietro la spinta di una passione politica che non separa la sorte dell’individuo dalla vita sociale, le pareti domestiche dalle strade della città, gli affetti intimi dalle collettività in lotta, i casermoni anonimi delle periferie dai palazzi monumentali del centro città.

Per la sua natura composita, che la vede ogni volta ripopolarsi di masse inurbate, ora dalla provincia italiana ora dalla provincia del mondo, Milano si può considerare il luogo più adatto a produrre fertili spaesamenti e nuove imprevedibili convivenze. La mancanza di grandi parchi, la sua fisicità dura e disadorna, in alcuni casi respingente, la fa somigliare a una grande fabbrica destinata a svuotarsi nei fine settimana, lasciando allo scoperto solo gli ultimi venuti. Ma è questa, paradossalmente, la condizione che spinge chi la abita a disegnare la mappa cittadina secondo le linee del paesaggio che più si avvicina alle proprie necessità vitali e ai propri desideri. Non so spiegarmi altrimenti il fatto che, a distanza di alcuni decenni, e coi mutamenti che sono intervenuti nel frattempo, molte delle aggregazioni e dei percorsi che sono nati negli anni settanta, siano ancora presenti e attivi, come un paese dentro la città che, pur avendoli di nuovo messi ai margini, tuttavia non li ignora.

Se non ho mai pensato seriamente di trasferirmi nelle città di cui ammiro ogni volta la bellezza e la vivibilità, è anche vero che ho potuto restringere il perimetro della mia collocazione e dei miei spostamenti milanesi, perché spesso i pensieri o un treno mi portano altrove. Forse il migrante che è arrivato qui anonimo e straniero è destinato in parte a rimanere tale, soprattutto se si arresta, insieme all’accoglimento, la disponibilità a costruire insieme il luogo in cui ci si è trovati a vivere.
I richiami al territorio, al radicamento, alle appartenenze identitarie, alle mitologie fondative, che oggi vengono da più parti a tentare di chiudere ferite e lacerazioni profonde, non aiutano a uscire dalla posizione di stallo che si intuisce diffusa tra i cittadini milanesi, fatta di presenza e assenza, impegno e disinteresse, operosità e inerzia. Il senso di impotenza che nasce dagli sforzi reiterati e quasi sempre delusi di fare incontrare le collettività sparse, diverse e spesso sconosciute le une alle
altre –che ancora si adoperano per principi elementari di libertà, giustizia sociale, di rispetto reciproco-, finisce inevitabilmente per produrre rassegnazione, adattamento e resa all’esistente.
I corsi e ricorsi elettorali lo riportano allo scoperto, lo acuiscono e si prestano quasi sempre a offrire ragioni ulteriori di disimpegno.

Eppure, Milano è la città che non ha mai smesso di manifestare per le strade –lavoratori, studenti, maestre e bambini della scuola elementare-, che ha visto riemergere, quando tutti lo davano per morto, un movimento di donne capace di ritrovarsi in grandi assemblee, e un corteo di oltre duecentomila presenze, come è stato quello promosso da “Usciamo dal silenzio”del 14 gennaio 2006. Sono questi segni, così durevolmente impressi sui muri, sulle strade, sui volti che si sono conosciuti e che di tanto in tanto si ritrovano, camminando insieme fianco a fianco come in passato, a tenermi comunque ancorata a un luogo che sembra dissolversi ogni volta che si chiude la porta di casa? Per chi è venuto da fuori –i provinciali di ieri e i migranti di oggi-, Milano conserva il fascino ambiguo, contraddittorio, che ha l’anonimato rispetto alle oppressive comunità d’origine, promessa di libertà e sogno di cambiamento, rientro in se stessi e allargamento del cerchio della vita.
Piazza Duomo, che quasi scompare divorata dalla massa che l’attraversa durante la settimana, la domenica prende sorprendentemente la fisionomia bonaria, pigra e ritualistica, della piazza di paese, monumento e simbolo dell’anima duplice e della seduzione segreta che esercita questa città per tutti coloro che un giorno si sono messi in viaggio alla ricerca di un “altrove”.

(da “Gli Altri, 2 ottobre 2010)

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Buon anno, buon 2017!

Dedico questo post di CAPODANNO 2016 ai movimenti che sempre lasciano sperare: “Non è che un inizio!”

Quale augurio più bello delle convinzioni profonde e durature su cui si è costruito un appassionato quotidiano impegno politico?

“…la rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevenibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni.”
(Elvio Fachinelli)

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A Elvio Fachinelli

Nella ricorrenza della sua morte avvenuta a Milano il 21 dicembre 1989.
Psicanalista, geniale interprete della dissidenza giovanile degli anni ’70, e del rapporto tra psicanalisi e politica, individuo e società, biologia e storia, il suo pensiero e la sua pratica politica,
dal movimento non autoritario nella scuola alla rivista “L’erba voglio”, sono oggi di straordinaria attualità, come tentativo di portare la politica “alle radici dell’umano”, fuori dalla “rovinosa dialettica” che ha segnato finora lo sviluppo della civiltà.
Frammenti dalle sue opere:
Il post è dedicato a Elvio Fachinelli, nella ricorrenza della sua morte avvenuta a Milano il 21 dicembre 1989.
Psicanalista, geniale interprete della dissidenza giovanile degli anni ’70, e del rapporto tra psicanalisi e politica, individuo e società, biologia e storia, il suo pensiero e la sua pratica politica,
dal movimento non autoritario nella scuola alla rivista “L’erba voglio”, sono oggi di straordinaria attualità, come tentativo di portare la politica “alle radici dell’umano”, fuori dalla “rovinosa dialettica” che ha segnato finora lo sviluppo della civiltà.
Frammenti (di riflessione e buon augurio)
“La rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevedibile, e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni”.
“Solo un agire che riesca a trasferire su di sé la capacità di mutamento che è ora del sogno, potrà eliminare la necessità di quei sogni; un agire che spezzi la separazione tra sogno (impossibile) e realtà (più che possibile). Di qui, l’indicazione politica: per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni.”
“Le nostre idee, che ci augureremmo di sentire fischiettare la mattina dal garzone del fornaio, propongono comportamenti, modo di agire, anche insoliti, e questi movimenti reali, di tutto il nostro corpo, a loro volta criticano seriamente le nostre idee”.
“…per incontrare Edipo bisogna trovarsi sulla strada di Tebe; bisogna che l’analista costituisca in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica…L’ascolto analitico deve manifestarsi come capacità di percepire il negativo, l’irregolare, l’aritmico, le situazioni che, appena accennate, e quali che siano, rischiano di essere subito soffocate o, meglio ancora, inquadrate e funzionalizzate (…) in più, deve però anche manifestarsi come capacità e possibilità di interrogare i tentativi che, spesso in modo rozzo, elementare, disordinato, vengono continuamente sorgendo nella nuova generazione come risposta a nuovi problemi”.
“Il mondo che lo foggia (il mondo della madre-la madre come mondo) è un mondo corpo in continuazione con il suo, prima, poi comunicante con esso; un corpo che lo tocca, lo accarezza, lo nutre, lo fa sobbalzare, lo tratta con delicatezza oppure no, con esitazione oppure no; un corpo che gli comunica caldo, freddo, equilibrio, squilibrio, pressione, contatto, odori, ritmo, suoni(…) Quest’esperienza traccia alcune linee fondamentali nel bambino come corpo desiderante e comunicante, sulle quali si innesta poi l’universo del linguaggio. E’ questa una esperienza che, mentre a sua volta modella il bambino, presuppone quell’esperienza precedente; vale a dire: il simbolico presuppone quei privati simboli corporei”.
“Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario (…). Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte. Nausicaa, Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese (…) Anche per la scoperta freudiana fu così? Un’accettazione di qualcosa che veniva, in un certo senso, dall’esterno, dopo un estenuante brancolare? Bisognerebbe rileggere le origini della psicanalisi da questo punto (…) Il sogna osa generalmente più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui l’idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia di ciò che vuoi essere –ciò che puoi essere, allora”

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Elvio Fachinelli all’asilo autogestito di Porta Ticinese (1971). Foto di Lisetta Carmi15675773_1868027886766464_1570577159437984172_o

Con Elvio Fachinelli ai tempi della rivista “L’erba voglio” (1971-1977)

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