Se poesia e politica parlano la stessa lingua.

Il 12 aprile 1987 usciva su “L’Espresso” questo articolo di Elvio Fachinelli. A distanza di circa trent’anni, e pensando alle manifestazioni imprevedibili e sorprendenti (soprattutto dopo gli attentati terroristici di questi mesi) che stanno avvenendo in Francia, ho deciso di riproporlo per la sua profetica lucidità.

Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli*
1987
Il mutamento dei costumi sessuali in Occidente (per favore, non la
«rivoluzione») comincia molto tempo fa, forse all’epoca di Abelardo
ed Eloisa. Ma per limitarci agli ultimi vent’anni in Italia, sentiamo e
sappiamo che ci sono notevoli differenze fra i settanta e gli ottanta.
Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto
a tentativi di uscire dalla famiglia, di far fuori la famiglia, l’esecrata
famiglia. C’è una specie di diffusa fobia per questa istituzione,
vista come luogo chiuso, coatto, defecatorio.
Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche
soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi
si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in
là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi, una bella
contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi, eppure aguzzi, e taglienti
per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la
pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti,
svaniti, introvabili.
Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella
che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non
c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì
andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto
enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà (chi ha
mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che
è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove
* «L’Espresso», n. 14, 12 aprile 1987.
chissà quando. Anche con l’Aids, nuova cintura di castità, ombrello
sanitario, castigo degli infedeli. «Va’, va’, povero untorello, non sarai
tu che schianterai Metropoli».1 E anche nella reintegrata famiglia reaganiana,
che si vuole a guscio pieno, non vuoto, muro solido, non friabile,
e che a guardarla da vicino è invece piuttosto spesso una riunione
di single che stanno lì soprattutto per i figli.
Ed ecco i single, appunto, parola abbastanza nuova, però quasi un
emblema, che contrassegna tanti tipi strani, diversi, spesso infelici (ma
chi ha mai detto che la felicità del sesso stia in quell’idiota sorriso di
redenzione che aleggia sui volti dei «liberati sessuali»?). Tanti tipi
diversi uniti forse dall’essere eredi non testamentari, o continuatori
casuali, ricercatori extrafamiliari degli anni settanta che scoprivano
amori fantastici, irregolari, anche un po’ impossibili. Amori abbastanza
vicini a quelli che albeggiano oggi dalle videocassette nelle camere
dei single, prima di dormire o di vegliare; amori di sogno, o d’occasione,
o di crociera immaginaria, insomma amori di solitudini comuni,
come quelli delle comunità solitarie sparite nel vuoto verso la fine
degli anni settanta.
Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli 1219
1 [Allusione alla battuta del monatto che scambia Renzo per untore e gli dice appunto: «Va’,
va’, povero untorello […] non sarai tu quello che spianti Milano» (A. Manzoni, I promessi sposi,
a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1964, cap. 34, p. 831)].

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Le donne ‘schiave’ della loro forza?

“Il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
(Sibilla Aleramo)
A sottrarre la cura alla naturalizzazione che ne aveva fatto per secoli un destino femminile, confuso con l’attitudine materna e con l’amore, era già stata negli anni ’70 Lotta Femminista: un lavoro gratuito che di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale, svolto –come scrive Antonella Picchio– fuori dalle negoziazioni dirette con le imprese e per lo più tacitato e invisibile nelle negoziazioni con lo Stato”. Ma a distanza di tempo forse è possibile fare un passo ulteriore, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare o la monetizzazione dello Stato, e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellare.
E’ su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata, diventare un “paradigma di interesse generale”, così da far apparire definitivamente superata l’idea di conciliazione come problema delle donne e l’idea delle donne come categoria del lavoro. Se non è più subalternità, dedizione, costrizione, ma neppure ruolo materno e salvifico delle donne, se è restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi, ma anche benessere, buona vita, “passione dell’uomo” nel senso marxiano, allora effettivamente la posta è più alta e si può ambire a proporre una soluzione all’altezza dei tempi e dei problemi di oggi.
Punto di avvio non può essere che la crisi di quel “monumento del lavoro”, dottrinario, istituzionale, e tutto di stampo maschile, che si è stabilito nel secolo scorso e che ha fatto del lavoro un oggetto da regolamentare in funzione degli interessi dell’impresa e del capitale. La rivoluzione possibile viene dunque immaginata come un capovolgimento di quello che è stata finora la gerarchia tra fini e mezzi: il lavoro guardato a partire dalla vita, un’economia dove l’obiettivo non sia lo sviluppo della ricchezza ma lo sviluppo umano.
Le donne possono oggi dire un “doppio sì” alla carriera e alla famiglia, a patto che non gravino su di loro le ore e ore di lavoro materiale che si rendono necessarie quando ci si deve occupare dei corpi di bambini e anziani, dei luoghi dove questi corpi stanno o devono stare. In altre parole, quando, come osserva qualcuna, curare l’altro è dimenticarsi di sé, sopportare un lavoro massacrante e spesso disgustoso. Il coinvolgimento emotivo può essere più o meno forte, ma non è mai del tutto assente, neppure quando la cura è affidata a persone pagate per questo, come le donne straniere che la globalizzazione ha spinto nel mercato della cura.
Ma anche nel caso che questa secolare funzione femminile non sia delegata ad altri, basta ascoltare le esperienze di ogni singola donna -come ha fatto per anni il gruppo scrittura della Libera Università- per rendersi conto che altrettanto difficile è separare costrizione e scelta, piacere e potere. Non c’è dubbio che venire incontro al bisogno dell’altro è anche un modo per esercitare un controllo, rendersi indispensabili, creare dipendenza al di là del necessario.
“Il mio potere -scriveva già Sibilla Aleramo- era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
. Quante donne sono ancora schiave della loro forza? Quanto è ancora legata la funzione materna alla loro identità, al bisogno di contare e dare un senso alla propria vita? Quante sono disposte a riconoscere che il sacrificio di sé per il bene di un figlio può pesare su di lui come un macigno, un debito inestinguibile?
Sono domande a cui è ancora la pratica ereditata dalla stagione più radicale del femminismo, che può far fronte: dare parola alla soggettività, ascoltare dal racconto delle stesse lavoratrici la storia delle loro aziende -cosa si produce, come si produce-, e dall’esperienza di una giudice del lavoro che cosa è oggi la precarietà per i giovani, fatta di contratti a termine, di attese angosciose di proroghe e contenziosi giudiziari. Una volta saltati i confini tra produzione e riproduzione, caduti gli steccati della differenziazione astratta che ha contrapposto il corpo e la polis, il vissuto del singolo e i saperi “oggettivi”, la strada che si apre è quella della ricerca di nessi che ci sono sempre stati, ma che oggi forse è possibile portare alla coscienza e orientare verso nuove soluzioni.

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”Madri snaturate?”

E’ fin troppo facile accanirsi contro la madre che uccide un figlio, finché si considera la donna spinta da un “naturale” istinto materno all’amorosa cura dell’essere che ha messo al mondo. Più difficile interrogarsi di quali cambiamenti, conflitti, sofferenze e sentimenti ambivalenti è fatta la maternità, vissuta spesso in solitudine anche nell’ambito famigliare.

Articolo pubblicato su Zeroviolenza il 10 dicembre 2014, per leggerlo clicca qui

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Naturale

NATURALE
La famiglia “naturale” è attraversata da vistosi cambiamenti. Quello che ancora manca è una profonda messa in discussione dell’aggettivo naturale, l’asse portante ideologico della violenta differenziazione tra i sessi e di ogni altra forma di dominio.

Articolo pubblicato il 19 ottobre 2016 su Comune-info.net, per leggerlo clicca qui 

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Il femminismo, la sua storia

“Una geografia non una genealogia, paesaggi inquinati ma dove può nascere movimento e libertà” (“Lapis”, 1987-1997)
Pensare alla trasmissione del sapere femminista in termini generazionali, significa -come dice giustamente Judith Butler- riportarli dentro una struttura famigliare di madri e figlie:
“Dobbiamo chiederci se pensare alle differenze generazionali in questi termini sia il modo migliore per farlo, dal momento che alcune donne non sono madri, non vogliono esserlo, ma fanno parte del femminismo e questa loro scelta è protetta dal femminismo stesso. Altre femministe, invece, hanno avuto figli ma il loro femminismo non si basa sul fatto che siano madri -è successo loro di diventare madri, ma non per questo portano avanti un femminismo materno.
E alcune delle più giovani possono benissimo presentarsi non come “figlie” delle generazioni più anziane ma come “studentesse”, ad esempio, o come parte di una relazione complessa in cui imparano da loro, resistono loro, o addirittura si distanziano da loro.
La metafora famigliare mi preoccupa perché il femminismo deve pensarsi anche al di là dei termini della famiglia, per cogliere le nuove forme di intimità, le nuove reti di alleanze e i cambiamenti che sono avvenuti nell’idea della parentela e nei ruoli genitoriali.
A dire la verità, aspetto con ansia un pensiero sulle nuove forme di parentela che non siano solo quelle tra madri e figlie.
Le donne devono esistere in spazi e in relazioni che non siano completamente circoscritte dalla famiglia. Questa è la libertà delle donne. Se ricorriamo alla struttura famigliare per comprendere i legami tra donne ricostruiamo la famiglia come luogo proprio delle donne.”
(da “Il genere tra neoliberismo e neo fondamentalismo”, a cura di Federico Zappino, Ombre corte 2016)
Nella video intervista di Federica Mazzotta Di Pietro: con Alessandra Ghimenti

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Annie Leclerc, “Della Paedophilia e altri sentimenti”, Malcor D’ Edizioni, Catania 2015.

Violenza sessuale
La ritorsione violenta, la gogna, contro gli aggressori non portano da nessuna parte, meno che mai su una questione come la violenza sessuale che ha ramificazioni diffuse nella famiglia nella scuola nella società e nei pregiudizi sessisti che tutti/e ci portiamo dentro. Quasi sempre senza rendercene conto.
Non è un caso che le analisi più coraggiose capaci di mostrarla in tutte le sue ambiguità e contraddizioni, di additarne le insospettabili parentele con la ‘normalità ‘, vengano dalle persone che l’hanno subita su di sé.
Tale è il caso della scrittrice Annie Leclerc e del libro postumo provocatoriamente coraggioso che ci ha lasciato sulla pedofilia, tanto diffusa, come sappiamo, quanto passata sotto silenzio.
La sorte toccata anche a questo libro, che ripropongo all’attenzione.

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Paedophilia e pedofilia: la stessa radice. Solo etimologica?

Il libro di una vita, uscito postumo, di Annie Leclerc, figura centrale del femminismo francese, passato non a caso sotto silenzio: un tema inquietante, una scrittura che nulla concede ai luoghi comuni, la lucida e insieme lirica analisi del fenomeno in cui più confusi appaiono amore e violenza, tenerezza e perversione.
Forse per questo: “il più diffuso, il meno contestato, il più straziante dei sentimenti. Ma al contempo “ il sentimento su cui meno ci si interroga e si riflette”.

Stralci:

“Paedophilia: dal greco pais, paidos, infante e philia, amore, attrazione, passione, ecc. Non c’è affatto l’idea di sesso nella formazione della parola. Ma quando si parla di ‘pedofili’ è solo questione di sesso e per niente d’amore. Risultato, manca una parola per dire questo: la gioia di vedere l’infante, questa emozione, questa adorazione abbagliante, questo rallegrarsi, perché è lui, l’infante, che delizia la coscienza, lo sguardo, l’anima. Nessuna parola per questo fervore così diffuso, possente ed evidente? Quale è il lupo che ha mangiato la parola?”

“Paedophilia sarebbe il più antico e il più attuale dei demoni che presiedono alla sorte degli umani. Si tenderebbe perciò ad ignorarlo, sia per la sua estrema evidenza, sia pe l’ambiguità delle sue manifestazioni (…) Ora, non solamente la identifico perfettamente quando si accosta a me e mi pervade, ma la riconosco senza la minima difficoltà dovunque si manifesti. La giovane puerpera, che accoglie per la prima volta tra le braccia il suo neonato e piange per l’enorme gioia; il padre che tiene teneramente sulle ginocchia il bimbo, leggendogli una storia, il vecchio su una panchina della piazza che osserva con un’aureola improvvisa di beatitudine i giochi dei bambini. Ma la riconosco anche all’opera nell’uomo grigio e solo che si attarda all’uscita delle scuole e inala fino allo stordimento, occhi semichiusi, l’odore della carne fresca in ondate che si frangono, in espansione, in profusione, in delirio di primavera.”

“Ciò che veramente credo, è che noi tutti apparteniamo a Paedophilia. Come regola generale Paedophilia dona la vita, il latte, la fiducia e le parole.
Ma capita che Paedophilia faccia tutto il contrario, che si ritorca contro la vita, seminando il terrore, il silenzio e la morte.
Se Paedophilia a grandi e piccini procura il bene più prezioso, talvolta fa il male più grande. E’ un incredibile mistero. E sfida talmente la coscienza che non si sa che dirne. Non è una colpa quella di provare Paedophilia. Tutto il mondo ci passa. E’ il più diffuso, il meno contestato, il più straziante dei sentimenti. Ma è al contempo il sentimento su cui meno ci si interroga e si riflette.”

p.s. Grazie a Luciana Piddiu e Giovanna Stancanelli per averlo scoperto e tradotto in italiano.

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La rivoluzione che viene dagli archivi

Un documento scritto dal gruppo femminista “Il cerchio spezzato” dell’Università di Trento, nel 1971, portava come titolo “Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna”, e si apriva con una lucida messa in discussione del movimento studentesco e dei successivi gruppi politici, cominciando dalla modalità con cui si tenevano le assemblee.
“I gruppi di lavoro politici hanno riverificato la nostra sistematica subordinazione…L’analisi delle assemblee ci ha portato a vedere una élite di leaders, una serie di quadri intermedi maschili e una massa amorfa composta dal resto maschile e da tutte le donne”.
“L’attribuzione alla donna e all’uomo di un determinato ruolo è del tutto essenziale, sia al funzionamento materiale del meccanismo capitalistico (proprietà privata) sia al suo sistema di valori. Questo sistema di valori è cresciuto come esaltazione dello spirito di impresa, come gusto e culto della violenza e della forza, come supremazia del ‘maschile’ che ha bisogno, come si è visto di trovare in una concezione del ‘femminile’ la sua legittimità e la sua fondazione stessa. Un’azione nella sfera privata, a nostro avviso, è dunque strategicamente fondamentale per dare concretezza alla rivoluzione culturale, per cambiare cioè profondamente l’uomo. La famiglia è uno dei primi obiettivi di lotta. La personalità dell’individuo è infatti innanzitutto la storia dei suo adattamento ai modelli e ai valori culturali della società in cui vive. Fin dalla nascita l’esempio, le credenze, le abitudini degli altri membri della comunità plasmano la sua esperienza ed il suo comportamento. E la famiglia in particolare è organizzata in modo da rendere possibile la socializzazione attraverso l’esempio e la coercizione dei membri in ruoli ben definiti…La nostra cultura basa tutti i suoi ruoli sociali sul rapporto di potere perpetuato dalla famiglia e fa dell’appartenenza a un sesso piuttosto che all’altro il simbolo primario, esemplificativo, di tale rapporto.” (Manifesto del Gruppo Demau, Milano 1966/67).
. E’ vero che recentemente si è tornato a parlare di famiglia, ma lo si è fatto a proposito delle ‘unioni di fatto’, come richiesta di leggi, riconoscimento di diritti civili, e solo marginalmente come messa in discussione di quel concetto di ‘naturalità’del matrimonio che cristallizza, nella nostra Costituzione, sia il compito primario di riproduttrice della donna -e quindi la divisione sessuale del lavoro-, sia la normatività della coppia eterosessuale.
Politiche sociali e politiche famigliari ancora si muovono sull’equivoco che la ‘conciliazione’ di casa e lavoro extradomestico sia un problema ‘femminile’, come se la maternità fosse una malattia particolare che ha bisogno di tutela, e il lavoro domestico, il lavoro di cura prestato a bambini, anziani, ma anche mariti, padri, fratelli in perfetta salute, la ‘naturale’ disposizione femminile, a cui si richiama insistentemente la Chiesa.
“E’ dalla famiglia, in particolare dal lavoro gratuito delle donne, che i detentori di potere economico ricavano enormi profitti risparmiando servizi sociali e sfruttando due lavoratori con un solo salario: l’operaio e sua moglie…le ore lavorative per le donne, oltre alle prestazioni domestiche, hanno anche il ‘privilegio’ del lavoro extradomestico. Nessun operaio lavora altrettanto. Inoltre, l’operaio è pagato, la casalinga no. L’operaio può scioperare, la casalinga no…Ma soprattutto, questa famiglia nucleare è la cinghia di trasmissione dell’oppressione sociale da una generazione all’altra. La condizione subalterna della donna si perpetua infatti attraverso la famiglia che prima inculca nelle bambine la pseudo-vocazione di casalinghe e di madri, e poi sospinge le ragazze alla ricerca di un marito e infine inchioda le donne adulte al ruolo di fornitrici non retribuite di servizi…La famiglia è in realtà il centro dove le frustrazioni dei coniugi si scontrano e si proiettano sui figli, produce individui prepotenti con i deboli e remissivi con i forti, incapaci di ribellioni razionali…Questo tipo di famiglia va demolito.” (Fronte Italiano di Liberazione Femminile, 1970).
(Stralci da un articolo pubblicato su “Liberazione”, 5/12/2007)

Voce: ‘tenerezza’.

Voce: Tenerezza
“La corrente di tenerezza – scrive Freud- è la più antica. Essa deriva dai primissimi anni di infanzia, si è formata sul terreno degli interessi della pulsione di autoconservazione e si rivolge alle persone di famiglia, essa corrisponde alla scelta oggettuale infantile primaria(…) Il lattante attaccato al petto della madre è diventato il modello di ogni rapporto amoroso.”
Se è vero che la memoria del corpo trattiene, come un buon archivio, anche le esperienze più remote di un essere umano, che cosa resta di quel singolare passaggio che è l’unità a due o la parziale indistinzione tra la madre e il figlio nella fase che precede la nascita e nei primi mesi di vita? Se l’amore conserva, nonostante la varietà delle relazioni e degli interessi umani, una indiscussa ‘centralità’, non è forse per quella tenerezza antica che precede ogni separazione, ogni differenziazione di poteri, ruoli, attitudini, tutto ciò che ha opposto storicamente l’uomo e la donna, l’adulto e il bambino? Non è questa ‘preistoria’ che mantiene aperta la strada del ritorno nostalgico all’origine, al ‘paradiso perduto’ dell’infanzia?
L’amore, nella sua definizione più nota e più duratura, è simpatia profonda di nature diverse, fusione assoluta e miracolosa di che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso. Se la “coercizione al lavoro” spinge l’uomo verso aggregazioni sempre più ampie, la “potenza dell’amore” sembra invece premere in senso opposto e trattenere la coppia degli amanti nel chiuso di sentimenti “teneri e intimi”. “Al culmine dell’innamoramento –scrive sempre Freud nel saggio”Il disagio della civiltà”- il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se le cose stessero così.”
Amore di sé e amore dell’altro nascono insieme, ignari della distanza che permette di vedersi e darsi confini. Ma è proprio questa ideale permeabilità reciproca, questa ‘oasi’ che sembra fare dell’amore la sola eccezione alla legge del dominio maschile, a far passare in ombra i destini così vistosamente divergenti di un sesso e dell’altro. Difficile dire quanto abbia contato la nostalgia di figlio nel volere che la donna restasse essenzialmente madre, luogo di partenza e di ritorno, utero e tomba, rifugio primo e ultimo per il viaggiatore del mondo; quanto invece sia stata la donna stessa a ripiegarsi su una ‘proprietà’ biologica, carne della sua stessa carne, vita affidata alle sue cure, conferma di senso e indispensabilità capace di compensare l’insignificanza a cui l’ha condannata la vita pubblica.
Relegati rispettivamente sul versante dell’origine e della storia, la donna e l’uomo non sembrano conoscere altra tregua a un conflitto millenario che l’illusoria cattura dell’innamoramento, sogno febbricitante di unioni impossibili. Neppure l’indifferenza delle logiche produttive e di mercato sembrano aver scalfito l’idea di tenerezza come “appartenenza intima” legata alla ‘casa’ comune, primordiale, del maschio e della femmina, quel mondo-corpo della madre, che la comunità storica degli uomini continua ad amare e temere, ad esaltare immaginativamente e ad aggredire con violenza.
Confinando la donna nel ruolo di custode della casa, degli affetti, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.
Come luogo che istituzionalizza l’infanzia, la famiglia, pur nella crisi attuale che l’attraversa, continua ad essere vissuta come rifugio e prigione, garanzia di sopravvivenza e minaccia permanente di perdite e abbandoni. Tenerezza e violenza, amore e odio, fuori dalle infinite coperture ideologiche che le hanno tenuti lontani dalla coscienza storica, mostrano oggi inequivocabili parentele. Le cronache, i rapporti internazionali sulla violenza contro le donne, dicono che il pericolo si annida proprio là dove si va a cercare protezione, che è dall’interno dei rapporti più intimi che si scatena la furia omicida, o perché l’abbraccio è troppo stretto o, al contrario, perché sembra essersi definitivamente allentato.

 

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Enrico ragazzoni, ‘Una parete sottile’

Ci sono romanzi che sfuggono a ogni catalogazione, capaci di attraversare e fondere ‘generi’ diversi di scrittura, disperderli fino a renderli irriconoscibili.
Rileggo per la seconda volta il libro di Enrico Regazzoni, che presenterò il 21 luglio nella Biblioteca di Carloforte, e la meraviglia è ancora più forte: attorno alla “parete sottile” che separa la stanza di un bambino e poi adolescente dalla vita della famiglia che vive accanto, ruotano i rumori, i suoni, le note musicali che si trasformano in sogni, fantasie, pensieri e sentimenti, che fanno della solitudine un luogo unico e prezioso di presenze assenze, archivio di esperienze che non sempre diventano ricordi, ma che segnano durevolmente le vite.
Per usare le parole dell’autore, il libro che sa amalgamare con tanta naturalezza la riflessione, il racconto, gli accostamenti che sono della poesia e una sorridente pacatezza nel nominare gli aspetti meno dicibili della formazione sentimentale di un adolescente, rappresenta “un traguardo di compiutezza non più perfettibile”.
Frammenti
“…la vicinanza è di certo una buona misura dell’amore ma in certi casi anche la lontananza lo è. Il più delle volte un legame sentimentale esprime un bisogno di rassicurazione ed è normale che si finisca per vivere accanto a una persona in cui ci sembra di ritrovare noi stessi, come uno specchio che ci fa apparire migliori. Però esistono animi, forse più intrepidi o forse soltanto più infantili, che affidano alla loro ricerca la mancanza di ciò che non sapranno e non saranno mai, persone che dall’amore si aspettano il fascino delle cose ignote più che il tepore di quelle note e che preferiscono vivere accanto a una stella che a uno specchio (…) negli anni l’inconoscibilità dell’altro tiene in vita una sottile mancanza e si trasforma in qualcosa di simile a un sogno mai compiuto.”
“La perdita era un’idea, prima che un fatto, e nel caso di Rosa quell’idea mi aveva già spaventato e fatto soffrire. Il fatto di averla perduta, invece,innescava solo una grande nostalgia dei nostri abbracci, ma una nostalgia che non faceva male. Nulla di me se ne andava con lei, ero tutto intero. E quando, un paio di settimane più tardi, la incrociai sul pianerottolo mentre usciva dalla casa dei miei vicini, il battito del mio cuore non registrò alcuna accelerazione e mi venne persino da dirle che era più bella che mai: così, solo perchè era vero. Tanto che non goii neppure, dopo che ci fummo salutati, del sottile stupore con cui il suo viso aveva accolto quel mio segnale di forza.”
“Non aveva pensato, la mamma, che di un padre avrei avuto comunque bisogno, anche di un padre morto, e che di lui avrebbe dovuto parlare, dirmi se le mancava, raccontarmi dei loro sono scherzi e degli screzi, immaginare con me cosa avrebbe pensato lui della persona che stavo diventando, di mio carattere chiuso e della mia fidanzata (…) Così avevo cercato rifugio nell’immaginazione e nelle mie abitudini visionarie, che erano l’approdo forzato di un incessante monologo. E quando la donna si era seduta al pianoforte per cantare il dolore ed elaborare il lutto della sua perdita, io avevo messo in ascolto la nostalgia mai detta di mio padre e senza averne coscienza avevo dischiuso il vaso della mia perdita (…)Cadeva la sottile parete dietro la quale si erano nascoste le domande necessarie, mentre nella mia stanza filtravano le luci riflesse dell’alba di giugno, quando il sole è indiscreto e disturba il sonno anzitempo. ”

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Violenza contro le donne, quanto ha contato il silenzio della politica e della cultura maschile

Articolo pubblicato il 04.VII. 2016 su La27ora-corriere

La recente sequenza di femminicidi deve aver fatto cadere, da parte maschile, alcune delle resistenze più forti a interrogarsi come «genere», a chiedersi se la «follia omicida» di pochi non sia imparentata, nel profondo di «antiche e oscure emozioni» – come le chiama Virginia Woolf -, con l’idea di «virilità» di cui sono improntati sia la cultura alta che il senso comune.

«Viviamo ancora, noi maschi in Italia – scriveva Nicola Lagioia sulla prima pagina di Repubblica (il 10 giugno scorso – in un contesto che ci mette in una posizione di predominanza. Quanto ne siamo consapevoli? Quanto, consapevolmente o meno, cediamo alla tentazione di contribuire a cementare un modello che ci vede in differenti blocchi di partenza rispetto alle donne? E quanto siamo tentati di trasferire questo modello nel privato delle nostre relazioni sentimentali?».

Altalenando tra riflessioni più teoriche e testimonianze di vita personale, la parola degli uomini parla oggi con una coscienza di sé e della propria storia che il femminismo sollecitava da anni e che finora non era andata oltre la pratica politica di gruppi ristretti, come Maschile Plurale.

Sul Sole 24ore, un «intellettuale trentenne», Raffaele Alberto Ventura, descrive la nascita della figlia come una «piccola apocalisse»: la caduta di un intero edificio di valori e priorità, la scoperta che le «mutilazioni» che la paternità – e a maggiore ragione la maternità – avrebbe imposto a carriere, sogni di gloria, distrazioni, ecc., potevano non essere temute ma desiderate come tempo liberato dalle «promesse di un avvenire che non giungerà mai».

Si tratta di «legittimi dubbi su se stessi», sulle proprie fragilità, su logiche di potere interiorizzate inconsapevolmente e diventate «normalità», privilegio «naturale» maschile, che andrebbero però trasferite – come sottolineava giustamente Nicola Lagioia nel suo articolo – in un dibattito pubblico.

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