Psicanalisi e femminismo

Nel documento “Pratica dell’inconscio e movimento delle donne” di Alcune femministe milanesi del 1975 si legge:

“…nella lotta per la nostra liberazione troviamo un nodo problematico, la sessualità, il corpo. Se si decide di non passare oltre con trovate ideologiche, è inevitabile fare i conti con la psicanalisi.”

Di questa importante intuizione iniziale del femminismo poco è rimasto. Oggi, di fronte alla sequenza di stupri e femminicidi, e più in generale al dibattito che finalmente si è aperto sulle questioni di genere, sessismo e razzismo, dovremmo sentirla ancora più necessaria.
Punire gli aggressori, tutelare le vittime, sostenere i centri antiviolenza, manifestare non basta, se contemporaneamente non si continuano a indagare le ragioni profonde di un dominio che passa attraverso i corpi e la vita intima.

Riletture per frammenti:

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi. La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.

“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato. L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”

“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui.

La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche.

In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto. Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, che si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali. E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”

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FEMMINILIZZAZIONE, MATERNALIZZAZIONE DELLA SFERA PUBBLICA O TRIONFO DELLA FIGURA IBRIDA DELL’ANDROGINO?

Che la cura, sotto l’aspetto di accudimento materno e di lavoro domestico, fosse una specie di Giano Bifronte, posta al centro di un ambiguo, invisibile annodamento di servitù e onnipotenza, debolezza e forza, amore e dominio, corpo e legge, era già chiaro dalla definizione contenuta nell’ Emilio di Rousseau. Ma bisogna aspettare qualche secolo prima che ne venga data, da una coscienza femminile anticipatrice come Virginia Woolf, una versione più veritiera: non un destino legato alla contraddittoria “natura” della donna, oscillante tra l’animalità e il divino, ma il fondamento, il supporto indispensabile della civiltà dell’uomo, espressione del suo dominio ma anche della dipendenza dall’altro sesso, luogo dove si danno insieme, intrecciate e confuse, l’inermità e la nostalgia del figlio, la violenza e la legge del padre.
“Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra sarebbe ancora palude e giungla.”
Benché evidente, nel suo prolungarsi molto oltre i bisogni dell’infanzia, il legame della cura con la volontà dell’uomo di garantire alla sua avventura pubblica un retroterra sicuro per la sopravvivenza lasciava però aperto l’interrogativo sul perché le donne stesse ne avessero fatto, loro malgrado, una ragione di vita. Sarà il femminismo degli anni ’70 a portare l’analisi e l’istanza di cambiamento fino alle regioni più remote e inesplorate della vita psichica, e a scoprire quanto la visione maschile del mondo si fosse incorporata, oltre che nelle istituzioni della vita pubblica, nel sentire profondo di entrambi i sessi.
(…)
L’emancipazione, ai suoi inizi, sembra che non possa percorrere che la strada già segnata dal modello dominante: da un lato diritti “neutri”, e dall’altro ruoli “naturali”, compiti specifici di un sesso e dell’altro, che avevano solo bisogno di essere riscoperti nella loro armoniosa complementarità.
Dietro il dilemma “uguaglianza/differenza”, che porterà comunque le associazioni femminili tra ‘800 e ‘900 a gettare le basi dello stato sociale, si può dire che fa il suo ingresso nella polis il sogno d’amore, come ricongiungimento dei due rami divisi dell’umanità riportati alla coppia originaria madre-figlio. “Educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana” le donne, che come scrive Sibilla Aleramo “uniranno le loro voci alle più intemerate del paese”, riscoprono la “divina funzione domestica” come integrante forza creativa capace di risollevare uomini “un po’ tristi e un po’ smarriti” in un periodo di “transizione ansiosa”.
Solo l’impeto giovanilistico e rivoluzionario di una generazione che aveva creduto di poter abbattere in un sol colpo le barriere dello psichismo inconscio e di consolidati poteri economici e politici poteva far credere alle femministe degli anni ’70 di avere avviato una volta per sempre il processo di liberazione dall’identità femminile prodotta dall’uomo e la crescita, sia pure lenta, di un “io non conforme” ai modelli dati, una singolarità capace di ripensarsi in una dimensione collettiva , relazionale, fuori dall’idea di appartenenza a un “genere” coeso, valido per tutte le donne.
(…) Il dubbio che l’emancipazione rinasca sempre dai sedimenti più arcaici della dualità ereditata da secoli di cultura maschile trova oggi la sua conferma sia nella femminilizzazione dello spazio pubblico -come richiesta di “talenti femminili” da parte della nuova economia, dell’industria dello spettacolo, della pubblicità, del consumo, ma anche come precarietà diffusa, crisi della politica, ecc.- sia nel modo con cui vengono affrontate e discusse dalle donne stesse le questioni sempre più pressanti della “conciliazione” vita e lavoro.
(…)
Ma c’è un’altra possibile interpretazione, se si tiene conto di quello che è stato finora il fondamento di ogni “dialettica”, modellata sul dualismo sessuale: la tendenza alla riunificazione dei poli complementari, l’illusione di un armonioso ricongiungimento. Il ‘neutro’ non nasconde solo il volto di un padre o di un figlio, ma anche la figura ibrida dell’androgino.
“L’uomo greco -ha scritto Geneviève Fraisse- esclude le donne reali mentre si appropria del femminile”.
Il declino del patriarcato sembra aver portato allo scoperto un ideale di “uomo femmina”, fonte di ispirazione di filosofi, poeti, artisti, pensatori religiosi, figura di una maschilità temperata da sentimenti, emozioni, affetti in cui non è difficile per le donne riconoscersi. Se gli intellettuali nostrani non avessero tenuto in tanto discredito autori vicini al senso comune e all’immaginario collettivo, come Bachofen, Michelet, Mantegazza, non avrebbero bisogno oggi di interpellare tanti saperi per rendersi conto che la femminilizzazione della polis era già inscritta nel suo atto fondativo.
“…questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose.” (Paolo Mantegazza, “Fisiologia dell’amore”, 1879).

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‘Perchè la libertà delle donne fa tanta paura?’

‘Lea Melandri: Quali poteri ha visto l’uomo nel corpo femminile da temerne la ricomparsa dietro le libertà che le donne vanno conquistando? Si può ipotizzare che, nell’attribuire alle donne come destino naturale la sessualità e la maternità -perché questo è il retaggio della cultura greco-romana-cristiana-, l’uomo abbia fissato l’esperienza che ha fatto da bambino rispetto al corpo che l’ha generato.’

Articolo pubblicato il 17.XI.2016 su Tysm – Philosophy and social criticism, per leggerlo tutto clicca qui.

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Dalle “differenze di genere” alle “singolarità incarnate”

Intervengono: Carlotta Cossutta, Lucia Leonardi, Maia Pedullà e Federico Zappino Coordina: Lea Melandri
Cosa significa liberare il corpo e la sessualità dai modelli culturali eteronormativi egemonici e appropriarsene per la creazione di nuove forme di intimità, di relazione e di mutualità controegemoniche? Quali somiglianze e differenze di analisi e pratiche politiche tra generazioni? Se negli anni Settanta è stata centrale la creazione di una “individualità femminile autonoma” dai modelli interiorizzati, oggi è importante interrogarsi sullo statuto politico e trasformativo delle sperimentazioni identitarie e corporee, su chi coinvolgano, e se, e in che modo, le categorie di “differenza sessuale”, di “genere” e di “eteronormatività” consentano di leggere i processi di individuazione e di relazione contemporanei.

A Milano, domani, sabato 19.XI.2016

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Maestre e maestri

Il “corpo insegnanti” è ancora nella stragrande maggioranza femminile. Perché se ne discute così poco?
Una riflessione di alcuni anni fa:
“Posta nel punto più delicato di snodo, tra famiglia e società -la scuola-, la donna ha finito per essere il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, ma anche, purtroppo, dell’illusione che ha portato le donne a impugnare la loro sottomissione come potere di indispensabilità all’altro, madri in ogni caso, anche quando non hanno figli. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo inermi, dipendenti, ‘bambini’ anche se adulti, nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e di cui pensano dipenda la loro sopravvivenza? Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dall’infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.”

(Per chi ha la pazienza di leggere, ecco la versione intera)

Acrobate
Ho un ricordo vago della maestra della prima e seconda elementare, mentre ho davanti agli occhi, nitida come allora, la figura, il modo di muoversi, di sorridere, di parlare, del maestro che mi ha accompagnata nei tre anni successivi, e senza il cui interessamento non avrei potuto, date le condizioni molto povere della mia famiglia, presentarmi all’esame di ammissione alla prima media.
L’ho visto invecchiare, quasi senza mutamento, le volte che sono tornata al paese e ho avuto l’impressione che anche per lui fossi rimasta l’allieva ‘meritevole’ che aveva conosciuto.
Di quei primi anni di scuola non saprei raccontare molto, ma so per certo che hanno segnato in modo durevole la mia vita, a cominciare dal desiderio -imperioso quasi quanto una ‘vocazione’- di diventare a mia volta ‘maestra’, dalla rapidità con cui ho imparato l’italiano, pur restando fedelmente legata al dialetto, fino all’amore particolare per la scrittura, rimasta, per tutto il percorso successivo, tramite di conoscenza e affetti con gli adulti incontrati nella scuola.
Posso pensare che l’essere femmina, figlia di contadini con un livello bassissimo di istruzione, costretta a cercare nei propri pensieri un riparo da corpi ingombranti, esasperati dalla fatica e dai violenti litigi di tre nuclei famigliari, mi abbia spinto a cercare nella scuola un’ancora di salvezza. Ma non c’è dubbio che, in quella prima sostituzione di figure genitoriali, prendono forma per ogni bambino scelte e comportamenti futuri, incorporazione di modelli, di paure e di certezze, destinate a prolungarsi come un’ombra, di cui si è dimenticata la provenienza, e quindi il modo per liberarsene.
Mi chiedo oggi che cosa abbia significato quella rara presenza maschile nel luogo che tutt’ora sembra destinato, come per naturale continuazione del ruolo biologico della madre, quasi esclusivamente a donne. La riserva, per non dire la spontanea riluttanza, che ho sempre avuto, a confondere o anche soltanto ad accostare madre e maestra, mi fa dire che vengono da lontano i ragionamenti più o meno dotti, politicamente meditati, con cui ho discusso in più occasioni pubbliche su questi temi. Quando una parte del femminismo, dopo anni in cui si era scavato nelle storie personali, per capire quale violenza manifesta o psicologica avesse potuto chiudere l’esistenza femminile dentro la funzione materna, ha riportato in auge l’ “ordine simbolico della madre”, la superiore ‘competenza’ relazionale femminile, ho pensato che la visione del mondo dettata dall’uomo aveva ancora una volta trionfato su un percorso di autonomia appena agli inizi.
Tra le immagini che l’uomo, protagonista unico della storia, ha attribuito al femminile, quella di madre-maestra è senza dubbio, accanto a quella di oggetto erotico, iniziatrice sessuale, la più difficile da smascherare,per la copertura di falsa ‘naturalità’ che si porta dietro, ma anche per l’ambiguo segno che la contraddistingue: esaltata immaginativamente e storicamente insignificante, come ha scritto Virginia Woolf.
Se la divisione sessuale del lavoro ha ristretto il tempo e lo spazio delle donne alla cura di figli, mariti, fratelli, anziani, malati, occupazioni domestiche, l’attribuzione della fase iniziale del processo educativo a una figura femminile ha creato un ibrido, non meno limitante per la vita propria e altrui. Identificata, in quanto donna, col corpo, la natura, la casa, gli affetti, la maestra è, paradossalmente, anche il tramite di quello stesso sapere che ha continuato per secoli a definirla come tale, esclusa dalla sfera pubblica, dalla possibilità di sviluppare la sua intelligenza, le sue capacità creative, il suo potere decisionale. Posta nel punto più delicato di snodo, tra famiglia e società, ha finito per essere il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, ma anche, purtroppo, dell’illusione che ha portato le donne a impugnare la loro sottomissione come potere di indispensabilità all’altro, madri in ogni caso, anche quando non hanno figli. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo inermi, dipendenti, ‘bambini’ anche se adulti, nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e di cui pensano dipenda la loro sopravvivenza?
Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dalla prima infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio, che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.

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Le donne ‘colludono’ col maschilismo?

Interrroghiamo la nostra cultura greco-romana-cristiana
Stando alla definizione del dizionario Zingarelli, “puttana”significa, in senso etimologico, “puzzolente”, “sporco”, e in secondo luogo la denominazione volgare di “meretrice, prostituta”. Qualsiasi donna sa che non c’è bisogno di vendere il proprio corpo, offrire un servizio sessuale in cambio di denaro, per attirarsi l’epiteto insultante di “puttana”. Basta uscire dai canoni del riserbo e del contegno morale che gli uomini si aspettano da lei, allo scopo di occultarne la sessualità, considerata un male in se stessa o il bene riservato a un legittimo padrone. Nessuna meraviglia perciò se un giudizio analogo, di spregio e disapprovazione, sia caduto sul femminismo, sulle sue pratiche volte alla riappropriazione del corpo e della sessualità femminile.
Se ci si indigna e si considera degradante il fatto che la donna venga rappresentata come corpo erotico, corpo seduttivo offerto allo sguardo dell’uomo, non è forse perché l’enfasi con cui è accolto oggi il “femminile” nella sfera pubblica richiama in modo inequivocabile quella che è stata, nella cultura classica greco-cristiana, la “natura” della donna, cioè la sessualità, e di conseguenza la sua collocazione nella “vita inferiore” dell’umano?
La “maledizione” -come ha scritto giustamente Pierre Bourdieu – non è nella “natura” della donna, ma nell’aver essa forzatamente incorporato il pregiudizio che a tale “natura” ha dato forma e nomi. “Nella misura in cui le loro disposizioni sono il prodotto del pregiudizio sfavorevole contro il femminile che è istituito nell’ordine delle cose, le donne possono solo confermare costantemente tale pregiudizio. Questa logica è la logica della maledizione. Le stesse disposizioni che inducono gli uomini a lasciare alle donne i compiti inferiori e le attività ingrate e meschine, insomma a sbarazzarsi di tutti i comportamenti poco compatibili con l’idea che gli uomini si fanno della loro dignità, li portano anche ad accusarle di “ristrettezza mentale”(Il dominio maschile, Feltrinelli 1998).
Una forma di dominio “inscritta in tutto l’ordine sociale” e che “opera nell’oscurità dei corpi”, poteva facilmente essere scambiata per legge di natura, indurre l’uomo a dar corpo ai suoi fantasmi, ad allontanarli da sé, facendone depositario l’altro sesso.
Madre, prostituta o vergine, la donna “non è che mezzo per uno scopo”, nell’erotismo più elevato così come in quello più intimo. Interessante, per capire quanto questo immaginario permanga nella cultura e nel senso comune, è l’aspetto onnicomprensivo che assume la sessualità nella definizione del “carattere” della donna, e più in generale del suo rapporto con l’umano.
“La donna – scrive Otto Weininger (“Sesso e carattere”, Vienna 1903)- si consuma tutta nella vita sessuale, nella sfera dell’accoppiamento e della procreazione, nella relazione cioè di moglie e madre; essa viene totalmente assorbita, mentre l’uomo non è solamente sessuale (…) Personalità e individualità (Io, intelligibile) e anima, volontà e carattere, significano sempre la stessa cosa che, nella sfera umana, appartiene solo all’uomo, e manca alla donna (…) Il loro aspetto esteriore, ecco l’Io delle donne.”
E’ così che la distanza tra la moglie e la prostituta si riduce fin quasi a scomparire.
Presa dentro l’”enigma del dualismo” -la spinta dall’illimitato verso il limite, dello spirito verso la materia, della libertà verso la servitù-, la donna viene così a trovarsi al centro di una definizione quanto mai contraddittoria e paradossale del “femminile”. Se per un verso essa dipende per la sua esistenza dall’uomo, dall’altra, incarnando la “maledizione” di un maschile diviso tra l’animalità e il divino, viene a rivestire una missione decisiva per il sesso vincente.
La stessa “ragione” che la respinge e la separa da sé come minaccia per la sua integrità, è costretta subito dopo a riporre in lei alte doti di moralità e attese salvifiche. La sua appartenenza al genere umano le dà diritto all’equiparazione giuridica ma non all’ “eguaglianza morale e intellettuale”, che spetta solo al sesso che ha in sé corpo e anima, che è soggetto e oggetto al medesimo tempo.
Per rendersi conto di quanto queste contraddizioni siano ancora presenti nella condizione femminile, basterebbe analizzare più a fondo i nessi che ci sono sempre stati tra la riduzione della donna a corpo e la sua assenza dai luoghi dove si esprimono individualità, pensiero, volontà, potere decisionale.

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‘Il maschio al bivio’ di Pierangiolo Berrettoni

Pierangiolo Berrettoni
Il maschio al bivio
Bollati Boringhieri, 2007
Prefazione dell’autore (stralci)
Questo libro nasce come profonda revisione di un volume precedente, La logica del genere, in cui avevo cercato di tracciare una sorta di genealogia e archeologia della cultura di genere nel mondo occidentale a partire dal periodo greco antico, quando si sono costituite le griglie interpretative con cui continuiamo in larga misura a organizzare la realtà, compresa quella umana.
(…)
In quel libro individuavo anche le lontane origini di uno schema mentale ricco di conseguenze nella nostra visione e di-visione della realtà, compresa quella umana: quello «schema comparativo» che inquadra le opposizioni non secondo la semplice constatazione di una differenza (l’uomo è differente dalla donna, il bambino è differente
(…)
Così com’era, il libro era troppo ampio e conteneva troppe digressioni specialistiche di tipo logico e grammaticale, che potevano scoraggiare un pubblico più vasto. È nata, così, l’idea di una sua riduzione drastica e di una sua concentrazione intorno a una sola delle due polarità di genere: il maschile nelle sue due varianti meno conflittuali di
quanto siamo portati a pensare, ma anzi in qualche modo «complici», come cercherò di mostrare, il maschio eterosessuale e quello omosessuale.
L’ho intitolato Il maschio al bivio, sia perché l’immagine del bivio si è costituita attraverso il mito di Ercole come una delle componenti più insistenti nella formazione di un’identità maschile fondata sulla scelta tra impegno/fatica (pónos) e impenetrabilità da una parte, piacere, desiderio, edonismo, paticità dall’altra, sia perché il maschio occidentale, nella sua millenaria dialettica con il femminile, si è gravato nella cultura moderna di un ulteriore «fardello», la scelta esclusiva e dicotomica tra omosessualità ed eterosessualità.
Non ho usato casualmente il termine «fardello», se uno dei miti più tenaci con cui il maschio ha costruito il proprio sistema di dominazione è stato proprio quello del white man’s burden, che non si è configurato necessariamente come cattiva coscienza e mistificazione, ma come autoimposizione (al limite del masochismo) di una logica e di un’etica del sacrificio, della rinunzia e della frustrazione. Quando Freud costruiva la sua teoria della civiltà come rinunzia al soddisfacimento immediato dei bisogni da parte dei fratelli in seguito all’uccisione del padre, non si rendeva ben conto che questa rinunzia era più precisamente all’origine del potere androcentrico istituito con una serie di interdizioni, quella dell’incesto (con il conseguente scambio delle donne e la loro riduzione a segni), dell’equa distribuzione del lavoro sessuale, del desiderio omosessuale, in ultima analisi della liberazione del desiderio, di cui si è forcluso il carattere fluido ed «emanante» in favore di quello fondato sulla mancanza.
Per lungo tempo Freud si è posto il problema di rispondere alla domanda su che cosa voglia la donna: nella trentatreesima lezione introduttiva alla psicoanalisi tenuta nel 1933 sulla femminilità (Die Weiblichkeit), iniziava l’esposizione affermando che durante il corso della storia si era sempre presentato il rompicapo (Grübel) sull’enigma (Rätsel) relativo alla determinazione della natura femminile, e presumeva che anche i suoi ascoltatori maschi si ponessero il problema, diversamente dalle donne, perché proprio loro sono il problema. Oggi sappiamo, naturalmente, che la domanda sul desiderio femminile era mal posta o, per meglio dire, apparteneva a quello strato del pensiero freudiano che era maggiormente datato e più affondava le proprie radici nella cultura del periodo in cui si era formato: non un’acquisizione definitiva e atemporale, dunque, ma piuttosto un frammento di discorso di cui si può fare storia (…)
Così come oggi sappiamo che il senso profondo di quella domanda dello scopritore dell’inconscio riguardava in realtà il desiderio e, più ancora, le paure dell’uomo, e si sarebbe dovuto formulare piuttosto come domanda su che cosa voglia l’uomo, se non fosse che i regimi discorsivi interni alla cultura di quel periodo non avevano ancora preparatol’uomo a interrogarsi su sé stesso e i suoi desideri, per quanto proprio Freud stesse aprendo una radura nel terreno in cui si sarebbero potute porre più tardi queste domande.
Le rivoluzioni della modernità, soprattutto quella femminista e quella omosessuale, hanno posto il maschio di fronte alla necessità di ripensare la propria identità in termini diversi, quando non alternativi, a quelli ereditati da millenni di costruzione dei valori dell’androcentrismo.
A chi, come me, si sia posto il problema doloroso di ripensare in termini nuovi la propria identità di genere, la posizione freudiana appare ribaltabile e proprio il maschile si costituisce come il vero enigma.
In particolare sono due gli enigmi maschili che mi sembrano particolarmente difficili da comprendere.
Il primo è come mai il maschio, nell’imporre il proprio modello di dominazione sulla donna, ma anche sul bambino, il barbaro, il selvaggio,in altre parole nell’inventare una logica e un ethos imperiali e «civilizzatori», abbia accettato di sottoporsi a una serie di fardelli che vanno dalla fatica del corpo alla rimozione delle emozioni e dell’affettività (…)
Il secondo enigma che continuo a trovare senza risposta è come mai il maschio imperiale, temprato a ogni sorta di rinunzia e sacrificio, capace di affrontare deserti assolati e lande ghiacciate, nostalgie e pericoli, guerre e massacri per compiere la propria missione civilizzatrice, si mostri, poi, particolarmente «fragile» non solo nel campo delle emozioni, ma anche e soprattutto in quello dell’autoaccudimento quotidiano e bisognoso di delegare all’altro, perlopiù la donna o un suo sostituto (l’attendente), la propria stessa sopravvivenza emozionale e materiale: interrogativi forse impossibilitati a trovare una risposta, se non quelle parziali che ci danno la psicoanalisi e le archeologie dei saperi-poteri su cui si basano i vari sistemi di dominazione.

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Dialogo tra una femminista e un misogino

Articolo pubblicato il 6 agosto 2016 su Tysm – Philosophy and social criticism 

Grazie Marco Dotti!
“Come può avere ragione un misogino, sessista, che identifica le donne con la sessualità e la maternità, considerandole prive di un Io, di una individualità?
La ragione sta nella cultura di cui Weininger è il tragico sostenitore e testimone, quella che abbiamo ereditato, che trasmettiamo nelle scuole quasi sempre senza alcuna consapevolezza dell’ideologia su cui si è costruita, quella che si regge ancora oggi sulla sua falsa “neutralità”.

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Pensiero e corpo: fine di un’inimicizia?

Se si è costretti a parlare di “confini” tra corpo e linguaggio è perché abbiamo ereditato una visione del modo dualistica: il corpo visto come “oggetto” da parte di un “soggetto conoscente”, una relazione ostile che si esprime in controllo, violazione e sfruttamento, ma che per questo non ha mai abbandonato la nostalgia per l’armoniosa riunificazione di ciò che la storia ha diviso.
Dal momento che le condizioni materiali del vivere sono state identificate col sesso femminile, è attraverso il corpo della donna che l’uomo è andato cercando per secoli il mistero della sua esistenza, del nascere e del morire, della passione amorosa e della sofferenza.
Scostandosi dall’“atto sacrificale” con cui si è affermato nelle civiltà esistenti il principio paterno − come principio spirituale che trascende le leggi della natura −, Franco Rella , nel suo libro “Ai confini del corpo” (Garzanti 2012), porta allo scoperto una contraddizione evidente: non si può parlare, scrivere del corpo, senza interrogarsi sul soggetto conoscente, in quanto soggetto incorporato, sessuato, senza riportare su di sé l’interrogativo: “E io? E io e il mio corpo?”.
Da questa domanda , che rivoluziona la visione del mondo mettendo il soggetto maschile nella posizione associata tradizionalmente alla donna, alla passività, alla vergogna dell’“essere guardato”, prende avvio un saggio “audace e innovativo”, sia nell’esplorazione dei territori “impresentabili” dell’esperienza umana, sia nella ricerca di forme di “scrittura critica”, dove si danno insieme inseparabili pensiero ed emozioni.
Le linee guida di un viaggio che si lascia aperte volutamente strade, sorprese, ripensamenti, sono dunque essenzialmente due: forzare i confini del corpo, varcare sempre nuove soglie per addentrarsi nel suo mistero e dare parola alle passioni che lo abitano, gioie e patimenti, e al medesimo tempo interrogarsi su come “scrivere il corpo” evitando che si riduca alle parole che ne parlano.
L’esito è una scrittura che si interroga costantemente su se stessa, che vuole mantenersi fedele a un Io incorporato, diventare corpo pensante, amalgama di ragione e sentimenti, una scrittura che, se da un lato insegue l’opportunità di una “trama”, si lascia poi felicemente attrarre dalla “logica del frammento”.
A prevalere sulla forma tradizionale del saggio è il “movimento erratico del pensiero” che come una “deriva morenica” si ingrossa via via che avanza, incorporando materiali eterogenei: letteratura, arte, filosofia, schegge narrative, frammenti di esperienza propria, eventi tecno-politici. La parola che tenta di avvicinarsi al “cuore di tenebra” della civiltà e di ogni individuo non può che essere una “parola vacillante”, un filo teso che in ogni istante può spezzarsi. È questa consapevolezza che, impedendo al singolare percorso di pensiero e di scrittura di Rella di fermarsi all’incontro di letteratura, arte e filosofia, gli permette di entrare in un terreno fatto di “ossessive iterazioni, note, aforismi, soprassalti della coscienza”.

Francoise Lefévre, “Il Piccolo Principe Cannibale”

Dalla prefazione di Lea
“Nell’esperienza femminile, la scrittura prende un rilievo particolare, messa all’incrocio di vita e di morte, di solitudine e di possibilità di incontro, di perdita, lutto e rinascita. Si ha l’impressione di scrivere “contro”, contro il mondo e contro se stesse, di “farsi violenza”, di togliersi l’aria, le stagioni, i corpi dei bambini, lo scorrere del tempo, gli odori, i ritmi naturali, di costringersi all’isolamento in quella “caverna” che è la parte segreta di sé. In questa alternativa drammatica, la scrittura diventa un impedimento a vivere.
Ma la vita, l’amore di una donna, finché è, soprattutto, amore per gli altri, per i figli –“troppo spesso nella parte di quella che prepara da mangiare, che si occupa dei bambini, nutre e accarezza”- finisce per “sgretolarsi” e “inasprirsi”. Occorre perciò “essere dentro” la propria vita e nello stesso tempo “a fianco”, sapersene scostare quanto basta per entrare in quelle regioni nascoste, dove è ancora possibile ritrovare la compagnia di se stesse, dare tregua al “timore di non essere amate” e, nel silenzio di altre lingue, “lavorare alla propria resurrezione”.
Non c’è da meravigliarsi allora se, quello che era sembrato un ritiro dal mondo, una volta che ha pescato parole da fondali così segreti, si rivela capace, per quelle stesse strade, di incontri, commozioni, imprevedibili.”

Francoise Lefévre, “Il Piccolo Principe Cannibale”, Muzzio Editore, 1993.