Né sedotte né seduttrici…ma a volte mascolinamente competitive

La complicità femminile nel condividere, a proprio danno, logiche di potere e di violenza del sesso maschile continua a stupire, a sollevare interrogativi, come se fosse un evento inaspettato e dalla cause misteriose. Non sembra destare invece alcuna meraviglia che delle donne si possa dire una cosa e il suo contrario, considerarle una minaccia o una salvezza: la sessualità, “la colpa dell’uomo divenuta carne” o la sua redenzione.
Le donne non sono né sedotte né seduttrici, né vittime innocenti di un potere che si è appropriato dei loro corpi e delle loro menti, né maliarde disposte a usare contro l’uomo le loro ‘potenti attrattive’. Ma questa è l’immagine, contraddittoria, che con poche eccezioni è stata data di loro nel corso dei secoli e che ancora oggi affiora incontrastata nel discorso pubblico.
Sono uscite alcuni anni fa due inchieste che dicono, sostanzialmente, quanto grande sia la percentuale di donne che condividono le opinioni e i comportamenti più detestabili dei maschi: stando all’indagine condotta dall’Airs, l’associazione italiana per la ricerca in sessuologia (2009), il 33% pensa che è colpa delle donne stesse se vengono violentate o picchiate; in uno studio americano, raccontato dal New York Times, il mobbing subito dalle donne nei posti di lavoro sarebbe per il 70% praticato dalle proprie simili (La Repubblica 27.5.09).
Le attese nei loro confronti delle donne sono pari, per quantità e pesantezza, alle ingiurie materiali e ideologiche di cui sono state fatte oggetto. Gli uomini hanno sempre dialogato solo con se stessi, e, quando le donne hanno preso parola pubblica per dire del paradosso di un potere che passa attraverso i corpi e le esperienze più intime degli esseri umani, hanno chiuso le orecchie per non sentire.
Da oltre un secolo, il femminismo si interroga su cosa abbia comportato per le donne essere state espropriate del loro essere, a partire dal corpo e dalla sessualità, costrette a pensare se stesse e il mondo attraverso l’unica intelligenza che ha avuto cittadinanza nella storia. Da questa lunga ricerca di autonomia dal pensiero unico che ha finora guidato la civiltà nel suo sviluppo, non sono emersi né il femminile innocente mitizzato dagli adoratori ottocenteschi delle madri, come Bachofen e Michelet -la risorsa di umanità integra capace di rigenerare la stanca tempra dell’uomo-, né la figura di una replicante ben ammaestrata.
Nell’accostamento a una individualità femminile sottratta ai ruoli imposti e a stereotipi alienanti, si è potuto capire, a dispetto di tutte le semplificazioni, che molte restano le zone indecifrabili dove si incrociano, nel rapporto tra i sessi, l’amore e la violenza, la debolezza e la forza, il condizionamento biologico e la storia, l’adattamento e la scelta, la tenerezza e la rabbia, la dipendenza del figlio e il privilegio del padre.
Nessun uomo pensa seriamente che le donne siano esseri deboli e indifesi, corpi passivamente arresi alla potenza virile, avendole conosciute, nel momento del maggior bisogno e della maggiore inermità, come madri, generatrici prodighe di cure, e iniziatrici ai primi piaceri sessuali. Come si può pensare che di una capacità biologica diventata, attraverso il ruolo imposto di madre, moglie, amante dell’uomo, l’arma spuntata di un loro inequivocabile potere, le donne non si sarebbero servite? Perché avrebbero dovuto rinunciare a usare a loro vantaggio quelle che agli occhi del dominatore apparivano “potenti attrattive”- la sessualità e la maternità-, tenute perciò ferocemente sotto controllo?
Come potevano sopportare una sorellanza che si prospettava solo come condizione di miseria e di schiavitù, quando l’unico modo per sottrarvisi era la rivalità? Finché la ragione su cui si fonda la subalternità delle donne è anche, inspiegabilmente e contraddittoriamente, la loro unica moneta di scambio -un corpo generoso di vita, di cure, di piaceri sessuali-, ogni giudizio volto a esaltarle per dignità e abnegazione, o a screditarle per spudoratezza, non può che nascondere un fondo di ipocrisia, soprattutto da parte di chi, come l’uomo e la cultura che porta il suo segno, in qualunque forma economica, politica, sociale si sia espressa, non sembrano aver tenuto in alcun conto il terremoto che ha scosso le vite delle donne e, attraverso di esse, saperi, poteri e istituzioni, costruiti senza di loro.
In assenza di un processo analogo di liberazione da parte dell’uomo, costretto comunque a recitare il copione di una virilità anacronistica, anche la più estesa presenza delle donne oggi sulla scena pubblica è destinata a ‘femminilizzare’ il mondo sulla base di modelli tradizionali, di donne-oggetto sessuale, madri e mogli irreprensibili, androgini o donne mascolinamente competitive.
(Riduzione di un articolo uscito su “L’Altro” nel giugno 2009)

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La femminilità e le donne reali

Ringrazio Mario Guaraní Galzigna per l’accoglienza nella rivista Ibridamenti.
VISTO DA LEI è una nuova Rubrica di Ibridamenti, diretta da Lea Melandri, che Lea stessa apre con questo importante contributo “La femminilità e le donne reali” –
“Non esistono “donne reali” fuori dai volti molteplici che sono stati storicamente attribuiti al “femminile”. Non esiste neppure “lo stato di natura” di cui parla Rousseau, ma bisognava pensarlo per capire quanti orpelli la civiltà vi ha costruito sopra.”
“Se siamo qui, ancora oggi, a interrogarci sul rapporto tra il “femminile” e le donne reali è perché le donne hanno subito una doppia espropriazione: identificate col corpo – e quindi non riconosciute come “persone” –, un corpo a cui l’uomo ha dato forma e nomi secondo le sue paure e i suoi desideri.”

Articolo pubblicato il 18 settembre 2016 su Ibridamenti/Due. Per leggere l’articolo clicca qui

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Tutti vogliono qualcosa di Richard Linklater (di Cuter-Bianchi)

Articolo pubblicato il 24 giugno 2016

“Nel 1984 Bruce Springsteen – in quegli anni una vera e propria icona della mascolinità americana – include in quello che diventerà il suo album di più grande successo commerciale, Born in the U.S.A., una canzone che può essere considerata un paradigma per le descrizioni di amicizie maschili. Il pezzo, che si intitola Bobby Jean, è una specie di lettera d’amore indirizzata al suo chitarrista di allora, Stevie Van Zandt, che poco prima dell’uscita dell’album lasciò la band per intraprendere una propria carriera solista.”
“Questa dinamica dii accettazione come pari solo tra persone dello stesso sesso si ritrova in tutte le organizzazioni omosociali che spesso, per esorcizzare il legame omosessuale sul quale si fondano, esprimono il desiderio omoerotico tramite il linguaggio della violenza. Questo linguaggio può anche essere espresso in forme ludiche e non sfociare in vere e proprie pratiche di sopraffazione, ma va costantemente riprodotto (anche in forme depotenziate o parodiche) per ribadire la sostanziale appartenenza al gruppo dei dominanti e non dei dominati”

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