Il Festival “italiano” per eccellenza e l’incentivo alla maternità: come non pensare a una forma sia pure lata di “nazional-fascismo”?

Il FERTILITY DAY in versione ROCKY HORROR PICTURE SHOW.
A che servono tanti Osservatori sulla pubblicità, Associazioni di giornaliste, studi e pubblicazioni sugli stereotipi di genere, e così via, se poi si lascia passare uno spot come questo, dove si mescolano con una volgarità senza limiti spettacolo, business e incentivo governativo contro il calo delle nascite?
Da togliere immediatamente!

Per leggere la fonte, da ‘Il Manifesto’, clicca qui

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Pazze di maternità. Ovvero: la faccia innominabile della Fertility

L’ “oggetto medico” per eccellenza resta quel corpo che, svuotato di una propria verità psicologica e ricoperto di idealità, non ha mai smesso, agli occhi del mondo, di partorire figli e mostri, vita e morte, beatitudine e dannazione.
Rilette con la consapevolezza che abbiamo oggi della maternità, le parole con cui Jules Michelet, nel 1959, descriveva il destino femminile, prendono un significato sinistramente capovolto:
“Deve amare e partorire, è questo il suo sacro dovere. Fin dalla culla la donna è madre, pazza di maternità”. Nell’idealizzazione di un uomo-figlio, certo di essere il destinatario naturale della felicità, niente lascia intendere che l’ “eccesso di passione” di cui si è creduta depositaria la donna avrebbe potuto compartire odio anziché amore, follia al posto di salute.
Eppure non doveva essere difficile immaginare che il sacrificio di sé, la dedizione totale agli altri, avrebbe potuto chiedere presto o tardi una contropartita altrettanto distruttiva. Anche Freud, così lucido nel riconoscere la commistione di sentimenti opposti, di tenerezza e ostilità, nei confronti di persone amate, non esita a ritagliare intorno alla coppia madre e figlio una zona franca, “esente da ambivalenze”. Se non fosse così “sorprendente” ancora oggi ammettere che una madre possa uccidere il proprio figlio, non si capirebbe perché, fra tanti delitti famigliari di cui è stata data notizia negli ultimi tempi, sia sempre “Medea” ad accentrare fantasie, perizie scientifiche, supporti statistici, “piani” governativi di attacco e difesa.
La fretta con cui l’infanticidio commesso da una madre viene archiviato sotto l’etichetta, per un certo verso rassicurante, della “follia” e della “malattia mentale” segnala che, in modo paradigmatico, il sovvertimento del rapporto più “intimo” e “umano” scuote le coscienze, sollevando il dubbio intollerabile che l’antico comandamento “non uccidere” stia rientrando dal lungo esilio, per chiedere riconoscimento e cittadinanza.
Restituire alla morte -quella che si dà ad altri o che si subisce- il posto che ha nella vita del singolo e della collettività, dove non ha mai smesso di mescolarsi all’amore, non ha altro significato che fare il passo necessario per comprendere l’ “umano” nella sua complessità, e sottrarre al determinismo biologico comportamenti che nascono nel contesto di storie e relazioni particolari, suscettibili pertanto di cambiamento.
Se è vero che la storia dell’umanità è “piena di assassinii”, e che l’uomo primitivo che è in noi non si è mai del tutto eclissato, non dovrebbe essere difficile capire quali sentimenti elementari, incontrollabili, fanno debordare la voglia di uccidere da semplice pensiero o desiderio silenzioso, rivolto a “chiunque ci sbarra la strada”, alla sua messa in atto.
“Le azioni violente non vengono necessariamente commesse da individui pervertiti, ma da persone comuni che si trovano intrappolate in circostanze tragiche: la maggior parte degli esseri umani è in grado di commettere azioni violente” (R.Papadopoulos).
Questo “sollievo” che precipita subito dopo nell’inferno, questa “rivincita di persone tormentate” che permette, sia pure in un solo attimo, di eliminare, insieme al pensiero, un conflitto e una sofferenza intollerabili, più che i tratti della depressione richiama l’impulso disperato ad aprirsi comunque una via d’uscita, a costo di passare sul proprio corpo e su quello di chi, come un figlio, si considera parte di se stessi.
Le madri e i padri, la figlie e i figli che uccidono soffrono, prima ancora che di abbandoni, di legami invasivi, che promettono vita e che strangolano, che fanno dell’intimità familiare e amorosa una difesa, e nel medesimo tempo, un’ingiustificata limitazione.
All’inviata de “La Repubblica” (30 maggio 2002), un’infermiera dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove vengono internate madri infanticide riconosciute incapaci di intendere e volere, al momento del delitto, spiegava con meraviglia che molte di loro preferirebbero a quel luogo nel verde, “con una parvenza di casa”, il carcere.
Forse, forzando il significato del loro desiderio, si può intendere che espiare una colpa anziché subire l’esilio protetto della malattia mentale, è un modo per sentirsi ancora parte della collettività, per dire implicitamente quanto la patologia, nelle sue varie forme, sia imparentata con la comune, ordinaria sofferenza umana.
Nella foto: Dalla mostra “La Grande Madre” – Palazzo Reale, Milano 2015.
Anna Maria Maiolino, “Por um Fio”, 1976

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‘Le aporie del materno nel movimento delle donne’

Articolo pubblicato su Minima&Moralia

Riprese
Accanto alle giuste critiche al “Fertility Day”, che riporta in auge, senza dirlo esplicitamente, la maternità come “obbligo procreativo” dellle donne, in nome del “bene comune” (come del resto è sempre stato), mi sembra importante anche riflettere sul posto che ha avuto il “materno” (madri reali, madri simboliche, dee madri, ecc.) nelle teorie e pratiche del femminismo.
Lo scritto che riprendo è stato fatto in occasione del convegno “Madri senza tempo?” (Milano, giungo 2012), promosso dalla Fondazione Badaracco (Archivi del Femminismo) e pubblicato da Minima&Moralia.

Per leggere l’articolo completo, clicca qui

Articoli correlati: ‘Non c’è stata emancipazione, ma liberazione della donna dai ruoli classici. E questo fa paura, anche ai maschi‘ su Lastampa.it 

e ‘Vorrei un figlio, ma con chi lo faccio?’ (raccolto anche in questo blog) su L’Internazionale

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Sul FertilityDay

Molto peggio del Family Day.
Se le donne fossero “mucche da latte”, come sembra considerarle il Piano Fertilità del Ministero della Salute, interverrebbe la protezione animali per sfruttamento intensivo. Del tipo: allevamento.
Ipocrisia massima: le donne sono state da secoli un “bene comune ” (vedi: obbligo procreativo). Quello che oggi fa problema è che cominciano a non volere esserlo più.

Condivido l’ottimo articolo di Giorgia Serughetti, riservandomi riflessioni meno emotivamente ‘pregiudizievoli’ dopo aver letto il sermone ministeriale alle ‘cattivissime’ donne che non fanno figli.
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“Le donne childfree in Italia sono circa il 20%, e secondo una ricerca dell’Università di Firenze, solo una piccola percentuale di ultraquarantenni che non hanno avuto figli avrebbe cambiato idea nel caso fossero state in atto migliori politiche pubbliche di sostegno alla maternità. Un terzo delle donne intervistate non è voluto invece diventare madre per via delle eccessive rinunce che un figlio comporterebbe, constatando che sono le donne a dover sopportare in toto il peso della cura dei figli, la cui presenza determina molto frequentemente un peggioramento del loro status e la perdita di diritti e posizioni all’interno della coppia, così come nella società.”

(Immagine tratta dalla campagna del FertilityDay)

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