Articolo di Valeria Palumbo pubblicato su La27esimaora.corriere.it, link
In foto: Lea col filosofo Franco Rella all’edizione di tre anni fa
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In foto: Lea col filosofo Franco Rella all’edizione di tre anni fa
“Se si è costretti a parlare di “confini” tra corpo e linguaggio è perché abbiamo ereditato una visione del mondo dualistica: il corpo visto come oggetto da parte di un soggetto conoscente, una relazione ostile che si è trasformata in controllo, violazione e sfruttamento, ma che per questo non ha mai abbandonato la nostalgia per l’armoniosa riunificazione di ciò che la storia ha diviso. Dal momento che le condizioni materiali del vivere sono state identificate col sesso femminile, è attraverso il corpo della donna che l’uomo è andato cercando per secoli il mistero della sua esistenza, del nascere e del morire, della passione amorosa e della sofferenza. Scostandosi dall’“atto sacrificale” con cui si è affermato nelle civiltà esistenti il principio paterno − come principio spirituale che trascende le leggi della natura −, Rella porta allo scoperto una contraddizione evidente: non si può parlare, scrivere del corpo, senza interrogarsi sul soggetto conoscente, in quanto soggetto incorporato, sessuato, senza riportare su di sé l’interrogativo: “E io? E io e il mio corpo?”
Articolo pubblicato su minima&moralia il 22.01.2014, per leggerlo clicca qui
Lea Melandri e Franco Rella in dialogo
Frammenti dalla relazione di Franco Rella,
in “Postfilosofie. Rivista di pratica filosofica e scienze umane”, n.8. Anno 2015, Edizione CaratteriMobili, Bari 2015.
La filosofia è nata e si è mossa nella rimozione completa del corpo. Non solo del corpo, ma anche della soggettività. Musil dice che i filosofi con le loro volontà di potenza, non disponendo di eserciti, hanno imprigionato la realtà dentro i concetti. Platone, di fatto colui che ha “inventato” la filosofia, ha affermato che essa altro non è che l’arte di mettere a morte il corpo, perché il corpo è ciò che ci impedisce di avere una conoscenza vera delle cose, della loro essenza, in quanto ci spinge ad occuparci del colore, delle cose esteriori, di ciò che suscita sensazioni, ma che non ha però alcuna pertinenza conoscitiva.
La condanna platonica si ripete identica in ogni tornante della filosofia. Cartesio sostiene che bisogna abducere mentem a sensibus, staccare la mente dai sensi, perché altrimenti la memoria, che per Cartesio è sempre memoria sensibile, induce all’errore. È infatti la memoria dei nostri sensi che ci porta a sbagliare quando, ad esempio, nell’infanzia abbiamo attribuito più realtà al sasso in cui siamo inciampati piuttosto che ad un teorema matematico. Cartesio sostiene che questo distacco dai sensi, dalla sensibilità, non è possibile a chi ha il cervello molle, troppo umido, come i frenetici, i letargici o gli infanti. Si stabilisce un discrimine. Chi si occupa del corpo è dunque trascinato nel gorgo della follia o risospinto nell’infanzia. Bisogna dunque tenersi lontani dal corpo.
(…)
Il corpo è mutevole, il corpo cambia. Gli anni, i momenti, le cose lo cambiano; la malattia, l’amore, il sesso, la passione continuano a cambiarlo, e dunque devo continuamente riportarmi su di esso, investendo in ciò me stesso, mettendomi interamente in gioco. È ciò che in qualche modo i professori insegnano ai loro studenti di non fare quando lavorano ad una tesi. Bisogna essere oggettivi, dicono, bisogna “tenere la distanza”, mettendo in campo lo scudo della cosiddetta “letteratura secondaria”. Si tratta, dunque, di distruggere quella sorta di legame coatto che si dice esistere fra oggettività e verità. Ciò che è oggettivo non è necessariamente vero. Anzi può essere distorsivo. Può illuderci di aver conquistato d’un colpo la Verità, tanto da poterla mettere al sicuro, come si mette in tasca una cosa. In realtà ciò che possiamo sperare è cogliere qualche frammento di verità, dunque una verità possibile, una verità eventuale, una verità che siamo disposti a rimettere in gioco.
In questo libro, la cui stesura mi ha occupato per più tempo di tutte le altre cose che ho scritto, ho continuato a rimettere tutto in gioco. Ho letto Essere maschi. L’autore, Stefano Ciccone, dice che il maschio non sente il proprio corpo. In realtà la mia esperienza è opposta. Non c’è stato un giorno, ma nemmeno un minuto della mia vita, in cui non abbia sentito la voce del mio corpo: qualcosa che mi metteva continuamente in questione, a disagio. Negli anni Settanta ho trovato chi si metteva in ascolto di quella voce che io sentivo e che altri dicevano e dicono muta. Qualcuno che cercava di amplificarla nei racconti e nelle discussioni che sono emersi e che hanno animato il Movimento delle Donne, al quale, anche per questo, ho sempre guardato con molta attenzione, pensando che lì ci fosse davvero un salto nella ricerca di una nuova teoria del corpo e del soggetto.
(…)
Riconosco l’audacia, della scienza. Non è questa che è in questione. Oggi in realtà c’è un dominio più che della scienza delle tecnoscienze, che sono tutt’altra cosa. Si assiste al dominio delle tecnoscienze, che spesso si autodotano della propria giustificazione e della propria ideologia, che è estremamente limpida. È fattibile? Sì, è fattibile, e dunque lo si fa, senza porsi inutili e fuorvianti problemi di ordine etico. Ci sono filosofi che seguono felici questa direzione. Ad esempio, Aldo Schiavone che afferma gioiosamente che la tecnica è andata così avanti che stiamo per fare un passo ulteriore, verso qualcosa di nuovo, qualsiasi cosa ci lasciamo alle spalle. Dice anche che tra non molto tempo decideremo non solo dove e quando morire, ma addirittura se morire. Non uno sguardo ai “dannati della terra”, quelli che non solo non sono destinati a vincere la morte, ma che sono perdenti nella battaglia per la vita.
Quindi, da un lato, la volontà di potenza che si esprime nelle tecnoscienze, e poi, invece, esiste la scienza, con l’ebbrezza della scoperta e, prima ancora, dell’ipotesi che avvia alla scoperta. Pochi testi sono intensi come quello di Galileo, che muovendo dal cigolio di una porta parla delle cicale, e quindi della vibrazione e del suono.
(…)
Il mio problema in questo libro, nei confronti del sapere scientifico, nasce da un interrogativo: la scienza è certamente in grado di parlare del corpo, ma è in grado di parlare dell’esperienza del corpo, dell’esperienza notturna del corpo, del corpo che si è abbandonato nell’insonnia ai fantasmi che lo abitano? È in grado di parlare del momento in cui ci si pone sull’orlo della passione o della caduta completa della passione, del suo annientamento? Di parlare di quando ci si sente sull’orlo della morte, quando essa pare avanzare a grandi passi, quando ci sentiamo quasi braccati da essa?
Non credo che la scienza abbia il dominio della precisione e la poesia il dominio della vaghezza. Penso che anche nella scienza ci sia, come ho detto, audacia e ricerca. Credo abbia ragione Steiner quando afferma che un teorema di matematica può essere bellissimo come una sinfonia, come una cantata, come una poesia. C’è una sorta di poeticità, ha scritto Steiner, che è propria del pensiero, anche del pensiero scientifico, anche del pensiero più astratto.
Questo libro non pretendeva – come scrivo nella prefazione – di confrontarsi con la scienza, e neanche con la tecnica, ma con l’esperienza del corpo a partire dalla mia esperienza del corpo, che è un’esperienza fatta senza una strumentazione scientifica, ma attraverso un ascolto reso possibile da una strumentazione letteraria, filosofica e politica – un aspetto che oggi ho trascurato ma che Lea ha messo in luce – perché la gestione del corpo è una gestione politica. Spesso, nel dominio del corpo, la scienza viene completamente strumentalizzata da parte della politica: qui sto pensando a come si siano ammantati di falsa scientificità i politici che pretendevano di penetrare violentemente nel dominio più impervio dell’esperienza umana: l’inizio e la fine della vita.
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Se si è costretti a parlare di “confini” tra corpo e linguaggio è perché abbiamo ereditato una visione del modo dualistica: il corpo visto come “oggetto” da parte di un “soggetto conoscente”, una relazione ostile che si esprime in controllo, violazione e sfruttamento, ma che per questo non ha mai abbandonato la nostalgia per l’armoniosa riunificazione di ciò che la storia ha diviso.
Dal momento che le condizioni materiali del vivere sono state identificate col sesso femminile, è attraverso il corpo della donna che l’uomo è andato cercando per secoli il mistero della sua esistenza, del nascere e del morire, della passione amorosa e della sofferenza.
Scostandosi dall’“atto sacrificale” con cui si è affermato nelle civiltà esistenti il principio paterno − come principio spirituale che trascende le leggi della natura −, Franco Rella , nel suo libro “Ai confini del corpo” (Garzanti 2012), porta allo scoperto una contraddizione evidente: non si può parlare, scrivere del corpo, senza interrogarsi sul soggetto conoscente, in quanto soggetto incorporato, sessuato, senza riportare su di sé l’interrogativo: “E io? E io e il mio corpo?”.
Da questa domanda , che rivoluziona la visione del mondo mettendo il soggetto maschile nella posizione associata tradizionalmente alla donna, alla passività, alla vergogna dell’“essere guardato”, prende avvio un saggio “audace e innovativo”, sia nell’esplorazione dei territori “impresentabili” dell’esperienza umana, sia nella ricerca di forme di “scrittura critica”, dove si danno insieme inseparabili pensiero ed emozioni.
Le linee guida di un viaggio che si lascia aperte volutamente strade, sorprese, ripensamenti, sono dunque essenzialmente due: forzare i confini del corpo, varcare sempre nuove soglie per addentrarsi nel suo mistero e dare parola alle passioni che lo abitano, gioie e patimenti, e al medesimo tempo interrogarsi su come “scrivere il corpo” evitando che si riduca alle parole che ne parlano.
L’esito è una scrittura che si interroga costantemente su se stessa, che vuole mantenersi fedele a un Io incorporato, diventare corpo pensante, amalgama di ragione e sentimenti, una scrittura che, se da un lato insegue l’opportunità di una “trama”, si lascia poi felicemente attrarre dalla “logica del frammento”.
A prevalere sulla forma tradizionale del saggio è il “movimento erratico del pensiero” che come una “deriva morenica” si ingrossa via via che avanza, incorporando materiali eterogenei: letteratura, arte, filosofia, schegge narrative, frammenti di esperienza propria, eventi tecno-politici. La parola che tenta di avvicinarsi al “cuore di tenebra” della civiltà e di ogni individuo non può che essere una “parola vacillante”, un filo teso che in ogni istante può spezzarsi. È questa consapevolezza che, impedendo al singolare percorso di pensiero e di scrittura di Rella di fermarsi all’incontro di letteratura, arte e filosofia, gli permette di entrare in un terreno fatto di “ossessive iterazioni, note, aforismi, soprassalti della coscienza”.