François Jullien

François Jullien:

la “seconda vita come “sprigionamento” di risorse, energie bloccate, emancipazione da una prima vita che si era bloccata o peggio impantanata.

“La saggezza, pensandosi come compensazione della vecchiaia, ne subisce come contraccolpo, anche suo malgrado, le determinazioni negative (…) assume il profilo della rassegnazione-riconciliazione, della restrizione, della ‘misura’ che evita gli eccessi. La saggezza è grigia, diceva Wittgenstein.

La seconda vita, al contrario, reiscrivendo l’inizio nella vita attraverso la dissociazione sempre più marcata rispetto alla vita passata, vi attinge una forza che, per scarto, è propulsiva e, di conseguenza, la dinamizza.

Essa si presenta così come una rimessa in tensione del vivere che può risultare più piena rispetto ai tempi della precedente vita in quanto si tratta di qualcosa di più deciso che, guidato dalla lucidità acquisita, è disposto ad assumersi maggiori rischi.

La seconda vita va più in profondità e si vive maggiormente, più rigorosamente, come una SFIDA (il contrario del “ripiegamento” ma senza cadere nel rifiuto). Dal momento che accede a una maggiore radicalità e non ha più nulla da perdere, essa può più rigorosamente “osare”, in maniera meno esuberante ma più calibrata”.

Amore e violenza

C’è un modo per uscire dal perverso intreccio di amore e violenza, amore e potere: interrogare l’amore così come lo abbiamo conosciuto finora, aprirlo a nuove possibilità.

E’ una delle domande che si pone François Jullien nel suo ultimo libro tradotto in italiano, “Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero”, Feltrinelli 2017:

“Un secondo amore, per essere non la ripetizione ma la ‘ripresa’ di un primo amore, in che cosa si deve distinguere da quest’ultimo?”

Alcuni frammenti:

“Il secondo amore, infatti, avendo dissolto il mito dell’ “Amore”, non essendo più cieco…ha compreso che la celebrazione dell’Altro può mascherare l’autogiustificazione di sé o che ciò che amo sono le qualità che proietto sull’Altro, adornandolo e idealizzandolo…Ma ha compreso anche un’altra cosa, che l’amore ha qualcosa non solo di equivoco, fra il possesso dell’altro e la donazione di sé, l’eros e l’agape, ma anche di doppio, di torbido e di ambivalente, che ci vuole poco per passare dall’amore all’odio, dal desiderio di fare del bene al bisogno di fare del male all’altro e di sacrificarlo (“io ti amo”, ma proprio per questo mi permetto di mutilarti).
(…)
“Ho definito ‘intimo’ il tenore del secondo amore. Esso è fatto non più di passione che si volge in delusione o, quantomeno, destinata necessariamente a incontrare il proprio limite, ma dell’intimo che scopre in maniera inesauribile fra i soggetti. Il primo amore, che pone l’altro come oggetto, chiaramente può non essere condiviso (io ti amo/tu non mi ami), drammatizzandolo e rendendo così piacevole analizzarlo: per questo se ne possono trarre romanzi che, attraverso crisi e riconciliazioni, non cessano di esplorare quel particolare tipo di gioco. Diversamente, l’intimo implica necessariamente la reciprocità. Lo dice anche la lingua: sono intimità con te, ‘siamo intimi’, ossia noi ci instauriamo egualmente –congiuntamente- in posizione di soggetti senza che si debba stabilire a chi dei due ciò è dovuto. O, piuttosto, siamo ‘divenuti’ intimi”.
(…)
“Ne consegue che l’intimo si presenti come la natura stessa del secondo amore: mentre il primo amore, anche quando cede, resta nell’ambito del rapporto di forza (ciò che si subisce invoca la rivincita), il secondo amore, al contrario, procedendo dall’intimo, nasce dall’aver iniziato a estrarre l’Altro dai rapporti di forza che costituiscono la trama del mondo e anche dal fatto che su di lui non si proiettano fini o scopi. Ciò significa riconoscerlo come ‘soggetto’. Da lì proviene la ‘dolcezza’ intima del secondo amore che, de solidarizzando con la forza (che è sempre limitata), è fatto non tanto di affetto quanto di infinito.”
(…)
“L’intimo non si sforza né si domanda, è pudico e non enfatico; si limita alla constatazione: non ha nemmeno bisogno di dirsi. In compenso, continua a scorrere e a farsi cogliere nelle ‘minuzie’ del quotidiano. Non c’è nulla da raccontare. Ecco perché il romanzo procede alla narrazione drammatica del primo amore ma si arresta sulla soglia del secondo, non trovando più nulla di saliente, nulla di significativo, nessun evento da riportare..”
(…)
“Conosciamo bene la strategia del primo amore, fatta di conquista e possesso, in quanto la troviamo descritta in una quantità infinita di romanzi: come l’Uomo fa ‘cedere’ la Donna che resiste per, alla fine, capitolare o tenere duro. Si tratta di una strategia di ‘attacco’ e ‘resistenza’ scandita da assedi, trappole, marce d’avvicinamento, colpi di mano, molestie, sconfitte e riprese, con la vittoria dell’uno che è la sconfitta derll’altro.”
(…)
“Si dovrebbe esplorare in profondità quegli investimenti strategici del secondo amore che sono anche astuzie e mosse esistenziali. Tale è, in particolare, la strategia di quella che definirei ‘stima’, in quanto deve impedire che l’intimo decada in intimità, ossia in una essenza e in una proprietà. Si deve impedire che la dolcezza dell’intimo, che estrae l’Altro dal rapporto di forze, si confini in affetto (in dolcezza affettiva che facilmente scade nell’affettazione) mettendo troppo prudentemente la relazione al riparo disinnescando la virulenza del faccia a faccia.”
(,..)
“Non ci troviamo più sul piano della celebrazione di quel bel viso, idealmente fotografato per i suoi tratti, su cui faceva leva il primo amore. Diversamente, in quel viso si percepiscono tanti visi o, piuttosto, finalmente appare l’immensità celata di un volto…si ha allora la sensazione di avere solo cominciato a vedersi, che prima non ci si era mai visti, che tutto ciò che precede non era che maldestramente tentato. A quel punto, può iniziare la ‘ripresa’”

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Dedicato alla LUD

Questo post è dedicato alla LUD la cui durata trentennale molto deve alla capacità di “riprendersi”, “rileggere” la propria storia, aprirsi verso il possibile di ciò che appare in un dato momento “impossibile”.

“La ripresa non è né sottomessa e passiva come il ricordo ne’ ignorante e casuale come la speranza. Non è bloccata, gravata dal peso del passato, e nemmeno inconsistente e versatile in quanto proiettata a piacere nel futuro (…) la ripresa deve essere colta come un ‘ricordare in avanti’.
(…)
Si può dispiegare passo dopo passo la propria libertà -che non è concessa in un sol colpo- attraverso inflessioni sempre più risolute, riflesse a partire dalla vita passata; oppure ci si può compiacere ingenuamente nell’illusione di scegliere senza essersi dotati della capacità di farlo.
(…)
Le nostre vite, infatti, si misurano in base alla capacità non tanto di sopportare le disgrazie che le colpiscono dal di fuori, in conformità al noto modello stoico, quanto di tenere gli occhi il più possibile aperti sul negativo interno alla vita stessa attivando contestualmente la vita. E senza compensazioni e sostituzioni. Da qui discende la lucidità, che costituisce il punto di appoggio per il rilancio della vita e la ‘possibilità’ di una seconda vita.

Per potere una mattina, finalmente, quando scosto la tenda dalla finestra, quando guardo la finestra di fronte e la strada, cominciare a vedere levarsi, dal fondo della notte, ciò che può essere un mattino. Un mattino ‘in più’, ma che emerge dal mondo, pur procedendo dal mondo, tale come non l’avevo mai visto”.

(Francois Jullien, “Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero”, Feltrinelli 2017)

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La ”risorsa dell’intimità”

Francois Jullien, “Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’Amore”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013
Un libro insolito, che apre alla speranza di poter portare l’ amore “oltre le frontiere del narcisismo”, dentro cui sembra sia rimasto impigliato finora, col suo carico di tenerezza e violenza.
Alcuni frammenti:
“Ma affrontare una cosa così singolare come l’intimità non comporterà forse ‘filosofare in altro modo’? L’intimità non indica, infatti, proprio ciò che più resiste all’astrazione e, quindi, al concetto?”
“Ma insisterò soprattutto sulla necessità in cui ci troviamo, oggi, in un’Europa che si disgrega, ma le cui categorie mentali, più che unificare, standardizzano il mondo intero: la necessità di ripensare l’originalità della cultura europea e di misurarne anzitutto la storicità. A questo proposito l’emergere dell’intimità servirà da rivelatore (…) In particolare, tornare su ciò che, nel nostro pensiero, abbiamo a tal punto assimilato e di cui abbiamo a tal punto occultato i pregiudizi da prenderli come un’evidenza: non li pensiamo più –non ci pensiamo più a pensarli.
E’ proprio il caso dell’ “Amore”, uno dei grandi miti dell’Occidente. Ma da questo mito, come uscirne? Più che “liberararsene”, come svincolarsene?
“…l’intimità è legata al pensiero che si lascia andare, che è più portato a raccogliere che non a cogliere –in altri termini, la necessità di abbandonarsi la rende più difficile da catturare. In quanto pregnante e non distinguibile, è la cosa più fugace ma al tempo stesso più aperta; è evasiva e perciò in appropriabile, ma è anche la più personale; si associa a un luogo, a un’ora, s’impregna d’un paesaggio, si afferra in modo circostanziato e ambientale. Più che studiarla la si ricorda; o meglio, più che ricordarsela torna in mente in modo incidentale; e quando succede, vorremmo più ‘confidarla’ che non confessarla. Da qui il fatto che tende più a essere condivisa che non a farsi ‘conoscere’”.
“L’intimità usa attivamente il silenzio, fa parlare i gesti, gli sguardi, un sorriso, un tono di voce. I gesti, più delle parole, sono vettori e staffette dell’intimità e la rendono effettiva, al cui confronto la parola è ciarliera e limitata; frena nel momento stesso in cui enuncia, crea un blocco e una resistenza, invece di lasciar passare (…) è la sfida più alta portata all’impero del logos; non si lascia andare alla facilità di dire e anche di ‘dire tutto’, di determinare e credere di controllare, ma insinua, stringe tacitamente un accordo, lo propaga e lo fa progredire.”
“Guardandola che mi guarda è come se l’accompagnassi in me stesso: sono passato ‘dall’altra parte’, al tempo stesso che la mia si apre (…) attraverso il suo sguardo incomincio a percepirmi da fuori. L’ho chiamata ‘dolcezza’, la dolcezza dello sguardo dell’Altro su di me, ma non ha niente di affettivo o di psicologico, prende una piega metafisica, diventando una categoria innata: dice che la frontiera è caduta, libera dall’iniziativa del soggetto, sostituisce l’ambiente, il complice, all’eterna frontalità. Come ci si guarda, ci si racconta: come ci si può guardare per ore, ci si può raccontare senza annoiarsi. Raccontar-si non significa tanto, d’altronde, raccontare un ‘sé’ prendendosi oggetto del dire, perché non è la forma riflessiva del verbo, ma esprime la relazione reciproca. Ci si racconta, cioè dall’uno all’altro, come ci si parla: ‘raccontarsi’ l’un l’altro è anche un modo di attivare la riflessività e reciprocità dell’intimità e non ha altro fine.”

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