FREUD, JUNG E LA CLASSE DOMINANTE

Scrive Nicola Ghezzani:

‘Quando si parla di Freud e di Jung il più delle volte si dimentica che si tratta di due sconfitti. Ci si concentra sul conflitto fra loro, che in effetti li accompagnò tutta la vita, ma si dimentica che essi sono stati degli esclusi.
Per tutto l’arco della sua vita professionale, Freud ha anelato alla cattedra universitaria, il che avrebbe voluto dire far parte della potente classe degli psichiatri (Freud era un neurologo, ma ciò non costituiva un ostacolo: all’epoca psichiatria e neurologia erano discipline affini). Quando Freud accolse Jung nella sua cerchia psicoanalitica, lo fece anche in vista del fatto che il giovane svizzero era già uno psichiatra molto famoso e che, essendo il vice di Eugen Bleuler presso il Burghölzli (il celebre ospedale psichiatrico di Zurigo, di cui Bleuler era direttore), era destinato a diventare uno dei dieci psichiatri più potenti del mondo. Inoltre Freud era un ebreo e Jung invece poteva non solo vantare natali ariani, ma anche uno spirito di intraprendenza e un attivismo rari anche ai suoi tempi.
Come si sa, l’avance di Freud andò male. Dopo pochi anni i due litigarono a morte e si separarono con reciproca acrimonia. Freud non aveva saputo valutare il carattere di Jung. Stupisce che il padre della psicoanalisi non si fosse posto la domanda più semplice, nel loro caso: «Perché mai un superiore dovrebbe cercare un inferiore?» Freud era superiore a Jung quanto a età e a fama nel mondo culturale (artistico e letterario, non psichiatrico), ma era decisamente inferiore quanto a classe sociale. Freud era un escluso dal mondo accademico, che soffrì tutta la vita della sua esclusione; Jung invece era il pupillo della grande psichiatria internazionale. Ebbene, Jung (di classe superiore) cercò Freud (di classe inferiore) perché era un ribelle e stava per abbandonare tutti i suoi privilegi. Il suo carattere impetuoso e orgoglioso gli impediva di aderire ai mantra della psichiatria accademica. Infatti, Freud servì a Jung per maturare una sua fantasia da bohémien, dopo di che ruppe con Freud, ruppe sia con la psicoanalisi che con la psichiatria, abbandonò Bleuler, si dimise dall’incarico universitario e si dedicò alla professione privata. Divenne di fatto un “artista” della psicoterapia. Diede vita alla sua psicologia e alla sua scuola, che pian piano si diffusero nel mondo; mentre Freud ebbe largo successo grazie alla sua espansione soprattutto nel mondo anglosassone.
Il loro parrebbe dunque un percorso premiato dalla Storia. In realtà, sia Freud che Jung furono due sconfitti, ma per motivi diversi. Freud fu uno sconfitto perché escluso dalla neurologia e dalla psichiatria accademiche: avrebbe voluto colonizzarle e invece subì il rifiuto sprezzante da parte della grande e privilegiata classe degli accademici, che lo tennero a distanza. Jung, che odiava l’accademia, si autoescluse dal Gotha della psichiatria mondiale. Fu a sua volta uno sconfitto perché rinunciò a far parte della Storia della scienza per diventare quel mahatma che poi in effetti divenne.
Chi fu il vincitore? Ma è ovvio! Il vero vincitore fu la psichiatria organicista accademica, che infatti è anche oggi in testa alla classifica mondiale del potere di gestione delle coscienze umane. La psichiatria organicista ha il controllo del 90% della psicopatologia mondiale, è in stretta sorellanza di interessi con la potentissima industria farmaceutica, ha cooptato a sé la ricerca neuroscientifica e si appresta a sbarcare nel nuovo continente dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie. Il giro di affari è immenso. Solo per fare un piccolo esempio: l’Abilify, di Otsuka Holdings, è un antipsicotico, quindi uno psicofarmaco di uso piuttosto raro (indicato nel trattamento della schizofrenia negli adulti e negli adolescenti dai 15 anni in su, oltre che degli episodi maniacali del disturbo bipolare): ebbene, questo farmaco fattura da solo 6 miliardi di dollari l’anno. Un tale bilancio (parliamo di uno psicofarmaco raro, non di ansiolitici e antipressivi, che fatturano dieci volte tanto) sovrasta i profitti di qualsivoglia odierna corrente psicoterapeutica. Aggiungo: la formazione psichiatrica (in Italia e altrove) è fornita dallo Stato, quindi è istituzionale; quella psicoterapeutica è affidata a una miriade di piccole scuole in competizione e in perpetuo litigio fra loro (oltre che interamente a spese del candidato). Il mondo della psichiatria è un grigio monolite in cui non litiga mai nessuno; la psicoterapia è una Babele scontrosa e priva di solidarietà.
Intendiamoci, la vita e l’esperienza culturale di Freud e di Jung sono state comunque un successo, ed è bene rimarcarlo: essi hanno posto le basi della moderna psicoterapia, che rappresenta pur sempre l’alternativa elitaria alla psichiatria di massa. In tal senso hanno donato (a tutti noi che crediamo che la maturazione del pensiero sia lo strumento per la guarigione della psiche) una base di cui non possiamo più fare a meno. Ma in un certo senso essi si sono dovuti entrambi accontentare di poteri “locali”: Freud di una Società Psicoanalitica che ha prodotto ricerca relazionale e poi, nei paesi anglosassoni, anche sociale; Jung di aver posto il seme dell’antipsichiatria (essendo stato in fondo l’antesignano di tale corrente) e di aver contribuito allo sviluppo della controcultura europea e della new age americana.
Nella vita privata sia Freud che Jung furono benestanti (fra l’altro Jung sposò una donna ricchissima) e oggetto di un culto personale crescente. Ma anche questo in fondo può essere l’ambiguo segno di una sconfitta. La psichiatria organicista classificatoria fondò il suo statuto e il suo potere fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento coi nomi di Wilhelm Griesinger, Emil Kraepelin, Eugen Bleuler e Karl Jaspers, dopo di ché non ebbe mai più né scismi né innovazioni, quindi non ebbe più bisogno di idee e nomi nuovi (come appresero a loro spese i grandi antipsichiatri Franco Basaglia e Ronald D. Laing, morto l’uno di tumore a 56 anni, l’altro di infarto a 61 anni).
Un potere consolidato (come quello psichiatrico, alla stessa stregua di un potere religioso o politico) ha bisogno solo di una Bibbia (nel caso della psichiatria è il DSM): non ha più alcuna necessità di produrre innovazioni, né ha bisogno di elevare templi ai propri guru. Il vero potere cancella sempre gli individui che lo hanno creato. Al massimo ne fa delle icone da cartolina, non scava mai nelle loro vite. Il vero potere crea la propria casta, poi un sistema di caste sottomesse, infine cancella le tracce del proprio percorso. Fa della Storia una pagina bianca.’

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Psicanalisi e politica

Negli anni ’70 la psicanalisi ha fatto una breve incursione nella politica e l’effetto è stata la modificazione di entrambe: una psicanalisi capace di andare ‘oltre’ la ‘segregazione di un rapporto duale’, una politica portata alle radici dell’umano.
Marx e Freud non sono mai stati così vicini, in quanto esploratori dei ‘fondamenti’ della coscienza borghese, il primo a partire dalla crisi della famiglia, l’altro dalla nascita dell’industria.
Se Freud aveva visto emergere, al di là della barriera della coscienza, il corpo, i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue fantasie, con la critica alla coscienza borghese, una cinquantina di anni prima, Marx aveva disvelato “un altro rimosso, l’inconscio socieconomico” (Fachinelli).
Oggi, pur essendo saltati i confini tra privato e pubblico, si ha l’impressione che psicanalisi e politica, psicanalisi e economia, sia tornati a essere saperi opposti e complementari: da una parte l’individuo, dall’altra i rapporti sociali, da una parte la sessualità ridotta a pornografia e oggetto di consumo, dall’altra una cultura sempre più attratta da nuove mete tecnologiche. Ma può anche darsi che il “caotico mondo dell’antiragione” abbia preso il sopravvento e che si stia pericolosamente nuotando in un mare di inconsapevolezza.

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Psicanalisi e femminismo: alla ricerca di nessi

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi. La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.
“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato. L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”
“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui. La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche. In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto. Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, ce si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali. E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”
“Psicanalisi e femminismo sembrano dunque collocarsi su orizzonti paralleli e contrapposti, messi rispettivamente a rappresentare da una parte la ragione storica dell’uomo (la sua supremazia, il suo privilegio, ma, soprattutto, la giustificazione scientifica del suo dominio) e, dall’altra, la nascita della coscienza femminile. Per produrre un effetto radicale di differenziazione, viene messa totalmente in ombra la contraddittorietà della scoperta di Freud, l’aprirsi di un campo di ricerca che avrebbe consentito di guardare dentro il suo stesso impianto interpretativo -discorsivo, linguistico-, per coglierne le radici inconsce; che avrebbe permesso di rileggere lo stesso Freud mostrando, dentro la sua costruzione teorica ‘patriarcale’, il sogno dell’uomo-figlio, e quindi anche le spinte capaci di intaccare la supremazia maschile.”

Voce: ‘tenerezza’.

Voce: Tenerezza
“La corrente di tenerezza – scrive Freud- è la più antica. Essa deriva dai primissimi anni di infanzia, si è formata sul terreno degli interessi della pulsione di autoconservazione e si rivolge alle persone di famiglia, essa corrisponde alla scelta oggettuale infantile primaria(…) Il lattante attaccato al petto della madre è diventato il modello di ogni rapporto amoroso.”
Se è vero che la memoria del corpo trattiene, come un buon archivio, anche le esperienze più remote di un essere umano, che cosa resta di quel singolare passaggio che è l’unità a due o la parziale indistinzione tra la madre e il figlio nella fase che precede la nascita e nei primi mesi di vita? Se l’amore conserva, nonostante la varietà delle relazioni e degli interessi umani, una indiscussa ‘centralità’, non è forse per quella tenerezza antica che precede ogni separazione, ogni differenziazione di poteri, ruoli, attitudini, tutto ciò che ha opposto storicamente l’uomo e la donna, l’adulto e il bambino? Non è questa ‘preistoria’ che mantiene aperta la strada del ritorno nostalgico all’origine, al ‘paradiso perduto’ dell’infanzia?
L’amore, nella sua definizione più nota e più duratura, è simpatia profonda di nature diverse, fusione assoluta e miracolosa di che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso. Se la “coercizione al lavoro” spinge l’uomo verso aggregazioni sempre più ampie, la “potenza dell’amore” sembra invece premere in senso opposto e trattenere la coppia degli amanti nel chiuso di sentimenti “teneri e intimi”. “Al culmine dell’innamoramento –scrive sempre Freud nel saggio”Il disagio della civiltà”- il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se le cose stessero così.”
Amore di sé e amore dell’altro nascono insieme, ignari della distanza che permette di vedersi e darsi confini. Ma è proprio questa ideale permeabilità reciproca, questa ‘oasi’ che sembra fare dell’amore la sola eccezione alla legge del dominio maschile, a far passare in ombra i destini così vistosamente divergenti di un sesso e dell’altro. Difficile dire quanto abbia contato la nostalgia di figlio nel volere che la donna restasse essenzialmente madre, luogo di partenza e di ritorno, utero e tomba, rifugio primo e ultimo per il viaggiatore del mondo; quanto invece sia stata la donna stessa a ripiegarsi su una ‘proprietà’ biologica, carne della sua stessa carne, vita affidata alle sue cure, conferma di senso e indispensabilità capace di compensare l’insignificanza a cui l’ha condannata la vita pubblica.
Relegati rispettivamente sul versante dell’origine e della storia, la donna e l’uomo non sembrano conoscere altra tregua a un conflitto millenario che l’illusoria cattura dell’innamoramento, sogno febbricitante di unioni impossibili. Neppure l’indifferenza delle logiche produttive e di mercato sembrano aver scalfito l’idea di tenerezza come “appartenenza intima” legata alla ‘casa’ comune, primordiale, del maschio e della femmina, quel mondo-corpo della madre, che la comunità storica degli uomini continua ad amare e temere, ad esaltare immaginativamente e ad aggredire con violenza.
Confinando la donna nel ruolo di custode della casa, degli affetti, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.
Come luogo che istituzionalizza l’infanzia, la famiglia, pur nella crisi attuale che l’attraversa, continua ad essere vissuta come rifugio e prigione, garanzia di sopravvivenza e minaccia permanente di perdite e abbandoni. Tenerezza e violenza, amore e odio, fuori dalle infinite coperture ideologiche che le hanno tenuti lontani dalla coscienza storica, mostrano oggi inequivocabili parentele. Le cronache, i rapporti internazionali sulla violenza contro le donne, dicono che il pericolo si annida proprio là dove si va a cercare protezione, che è dall’interno dei rapporti più intimi che si scatena la furia omicida, o perché l’abbraccio è troppo stretto o, al contrario, perché sembra essersi definitivamente allentato.

 

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Il ‘sesso’ della violenza

Se invece…
– Se invece di piangere lacrime di retorica sulle foto dei bambini colpiti dalle bombe,
-se invece di deprecare ogni volta la ferocia della guerra, dei fondamentalismi, dei razzismi,
-se invece di portare ossessivamente l’attenzione sul corpo delle donne…
gli uomini cominciassero a porsi domande scomode ma necessarie sull’origine della violenza (in tutte le sue forme) praticata dai loro simili nel corso della storia conosciuta finora?
Riprese
(Il Manifesto 10 aprile 2915)
“Le stragi, le guerre, le persecuzioni, gli orrori privati e pubblici hanno un sesso.
Prima che l’assuefazione, il senso di impotenza e una rassegnata apatia prendano il sopravvento di fronte agli orrori di ogni specie a cui assistiamo quotidianamente, vale la pena porsi qualche domanda.
E’ vero che non tutti gli uomini uccidono, che la cultura maschile dominante da secoli non ha seminato solo morte, ma dato vita anche a opere sublimi di civiltà; è vero che l’amore, la solidarietà, il pacifismo non le sono estranei.
Mi chiedo se è per questo che esitiamo a nominare alcune verità evidenti:
-che la violenza, in tutte le forme manifeste che conosciamo, dalle guerre tra Stati alle guerre civili dovute al fanatismo o a problemi sociali, alla persecuzione delle minoranze, è stata praticata finora dal sesso maschile, sia pure con l’aiuto e la complicità delle donne;
-che l’amore e l’odio, considerate pulsioni contrapposte, non si danno mai isolatamente, vincolate come sono l’una all’altra.
Ad Albert Einstein, che in una lettera del settembre 1932 gli chiedeva “metodi educativi”, “modi di azione” per frenare la “fatalità della guerra”, Freud rispondeva:”…la pulsione di autoconservazione è certamente erotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta ad oggetti, necessita di un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle”. (Freud, “Il disagio della civiltà e altri saggi”, Bollati Boringhieri 1987, p. 93).
Come è possibile che ancora oggi, dopo tanto parlare di patriarcato e di maschilismo, non si riesca a scalfire la maschera di ‘neutralità’ che impedisce di riconoscere ai responsabili di tanti orrori l’appartenenza a un sesso?
Che cosa impedisce agli uomini sinceramente convinti di dover operare per la pace nel mondo di interrogarsi sulla matrice ‘virile’ della violenza?
Perché, a loro volta, le donne sono così poco inclini a chiedersi quando e come un figlio, un marito, un amante passano dalla tenerezza alla violenza?
Può darsi che il rapporto di potere tra i sessi e le inevitabili complicità che ne hanno permesso una così lunga durata non siano, come sono portata a pensare, il maggiore ostacolo materiale e psicologico a una convivenza più umana, più giusta e solidale. Ma finché non vengono portati alla coscienza e fatti oggetto della riflessione che meritano, non sapremo mai se dobbiamo rassegnarci a una “naturale” violenza maschile, o sperare nella possibilità di un cambiamento che non riguarderebbe solo il sessismo, ma tutte le forme di distruzione e di morte che gli uomini hanno agìto contro i loro simili.”

‘La delusione della guerra’ di S. Freud

L’Europa senza patrie.
Il Parnaso perduto o mai realizzato nella descrizione di Freud. Un secolo fa?

Da S.Freud, “La delusione della guerra” (1915) . Traduzione di C.L.Musatti.

“E anche vero che si poteva constatare che all’interno di queste nazioni civili erano qua e là frammischiate minoranze etniche quasi sempre non gradite, e perciò ammesse solo controvoglia e non completamente a partecipare al comune lavoro civile, benché si fossero dimostrate sufficientemente idonee a un tale lavoro. Ma gli stessi grandi popoli, si pensava, dovevano aver acquistata tanta comprensione per ciò che fra loro vi è di comune, e tanta tolleranza per quanto vi è di diverso, da non dover più, come ancora avveniva nell’antichità classica, confondere in un unico concetto lo “straniero” e il “nemico”.
Fiduciose in questa unificazione dei popoli civili innumerevoli persone hanno abbandonato la loro casa in patria per trasferirsi all’estero, legando la loro esistenza ai rapporti di scambio esistenti tra popoli amici. E colui che non era trattenuto altrettanto stabilmente in un luogo determinato dalle necessità della vita, poteva costituirsi con i vantaggi e le attrattive dei paesi civili una nuova patria più ampia, dove poteva circolare senza trovare ostacoli o suscitare sospetti. Poteva in tal modo bearsi del mare azzurro e di quello grigio, delle bellezze dei monti nevosi e di quelle delle verdi praterie, dell’incanto della foresta nordica e dello splendore della vegetazione meridionale, dei sentimenti suscitati dai paesaggi legati ai grandi ricordi storici e dell’immobile silenzio della natura inviolata.
Questa nuova patria era per lui anche un museo pieno di tutti i tesori che gli artefici dell’umana civiltà hanno creato in tanti secoli lasciandoli a noi.
(…)
Né si deve scordare che ogni cittadino del mondo civile s’era fatto un suo privato “Parnaso”, una sua “Scuola di Atene”. Fra i grandi pensatori, poeti e artisti di tutte le nazioni, era andato scegliendo coloro ai quali pensava di dovere il meglio di ciò a cui aveva attinto per capire e gustare la vita, e nella sua ammirazione li aveva collocati accanto ai classici antiche e ai familiari maestri del suo paese. Nessuno di questo grandi gli era apparso straniero sol perché aveva parlato in una lingua diversa dalla sua, si trattasse di un acuto esploratore delle umane passioni, o di uno zelatore entusiastico della bellezza, o di un profeta dalle forti invettive, o di un sottile ironista, e mai aveva creduto di doversi sentire per questo colpevole di tradimento verso la nazione o verso la cara lingua materna.

Nella foto:
Idomeni. Bambini in cerchio per un’Europa senza confini.
Da Indipendenti.eu

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Gli spettri dell’ambivalenza

Articolo pubblicato il 9 giugno 2016 su Il Manifesto

TEMPI PRESENTI. Il lavoro di cura e domestico, la centralità delle donne nella vita pubblica segnalano alcune contraddizioni delle teorie sull’emancipazione femminile. Una lettura sulla trasformazione delle relazioni tra i sessi

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Le donne sono state confinate sul versante che è parso più vicino alla loro «natura» di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia, l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: «come una stirpe – scrive Freud ne Il disagio della civiltà – o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo».
La critica a ogni forma di dualismo non poteva che partire da chi ne aveva portato per secoli il peso di maggiore alienazione e sofferenza, ma era chiaro che riguardava entrambi i sessi, i ruoli che erano stati chiamati a rivestire di generazione in generazione. Altrettanto chiare erano l’estensione e la complessità del cambiamento che si prospettava: una «modificazione di sé» che spingeva la politica fin dentro le zone più remote e misteriose della vita psichica, per venire a capo di una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e dalla donna «aprioristicamente ammessa» – per usare le parole di Sibilla Aleramo-, «compresa solo per virtù di analisi»; ma anche l’idea che si potesse partire da questa incursione nella storia personale, nel «sé» meno conosciuto, per modificare l’ordine sociale nel suo insieme.

Si potrebbe dire che il sogno d’amore, inteso come fusione di nature diverse, ricongiungimento degli opposti, oggi esce dalla sfera intima degli individui per diventare paradigma delle trasformazioni che interessano l’economia, la politica, l’organizzazione sociale nei suoi vari aspetti. Il lavoro di cura o il lavoro domestico, come qualcuna preferisce chiamarlo, elargito finora gratuitamente a bambini, malati, anziani e adulti perfettamente autonomi all’interno delle case, fa il suo ingresso senza soluzione di continuità nella sfera pubblica: un maternage senza fine che da «destino naturale» diventa per le donne il passaporto per la loro piena cittadinanza.
Se il femminismo degli anni ’70 nasceva come processo di «liberazione» da modelli imposti, divenuti habitus mentali, incorporati fino a confondere la lingua dell’oppressa e dell’oppressore, i decenni successivi hanno visto riemergere logiche emancipazioniste, sia pure in forme diverse da quelle del Novecento.

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