Nascite e cambiamenti di vita, personale e sociale. Un modo interessante di guardare alla paternità.

Ringrazio Nicola Lagioia per la segnalazione a Radio Tre dell’articolo di Raffaele Alberto Ventura: “Mia figlia, una piccola Apocalisse“.
Un’osservazione: è importante che i cambiamenti non restino nell’ambito delle singole vite, delle loro scelte esistenziali, quotidiane, ma che aprano interrogativi e un nuovo agire politico capace di aggedire un modello di società, che ancora si regge sulla divisione patriarcale del lavoro e su logiche capitalistiche di profitto.
Era questo il significato di due slogan del femminismo ai suoi inizi:
“Il personale è politico”, “Modificazione di sé e modificazione del mondo “.
“Partire da se'” ha significato per le pratiche del femminismo uscire dalla separazione tra privato e pubblico, riconoscere che la vita personale appartiene da sempre alla storia, alla cultura, alla politica, che il cambiamento è prima di tutto prendere cpsv6 dei nessi che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro.
Qualche frammento:
“Molti di noi dividono la loro vita tra il lavoro ‘vero’ e l’esercizio di una vocazione intellettuale, artistica, sportiva o imprenditoriale; ma cosa succede quando nelle nostre vite irrompe un evento che mette in crisi questo equilibrio precario? Ci costringe a mettere ordine tra le nostre priorità”.
“E ora vi guardo con i miei occhi da morto. Ha ragione l’amico scrittore: sicuramente i genitori sono vittime di una mutilazione, come se un pezzo del loro corpo fosse asportato e ora vivesse di vita propria. Le donne più ancora degli uomini, in maniera concreta e sconvolgente: tant’è che al contrario della madre in questa prima settimana io riesco ancora a trovare il tempo, tra un acquisto dell’ultima ora e l’altro, per giocare all’autofiction (…). A nessuno viene in mente, tranne forse ai militanti dell’ISIS, che essere ‘mutilati’ è precisamente quello di cui noi borghesi occidentali abbiamo bisogno. Ecco perché la paternità ha smesso di farmi paura: tutto quello che avrei rischiato di perdere, di fatto, era proprio quello che ‘dovevo’ perdere.”

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