Chiediamo alla RAI di trasmettere “Processo per stupro”, regia di Loredana Rotondo, in prima serata come il 26 aprile 1979.
“Processo per stupro” e’ seguito da piu’ di tre milioni di spettatori. Se ne chiede a gran voce una replica che viene trasmessa in Ottobre del 1979 ed e’ seguita da nove milioni di spettatori. Il documentario mette in mostra come nel corso del processo la vittima, donna, diventa lentamente l’imputato. La donna e’ colpevole d’aver istigato, con comportamenti ambigui e cattivi costumi, la violenza dell’uomo. “Processo per stupro” ha una vastissima eco nell’opinione pubblica, spingendola a riflettere sulla mentalita’ sessista ancora imperversante nel paese.”
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Riflessioni a margine del presidio davanti al Tribunale di Milano.
Ne’ sedotte ne’ seduttrici
La complicità femminile nel condividere, a proprio danno, logiche di potere e di violenza del sesso maschile continua a stupire, a sollevare interrogativi, come se fosse un evento inaspettato e dalla cause misteriose. Non sembra destare invece alcuna meraviglia che delle donne si possa dire una cosa e il suo contrario, considerarle una minaccia o una salvezza: la sessualità, “la colpa dell’uomo divenuta carne” o la sua redenzione.
Le donne non sono né sedotte né seduttrici, né vittime innocenti di un potere che si è appropriato dei loro corpi e delle loro menti, né maliarde disposte a usare contro l’uomo le loro ‘potenti attrattive’. Ma questa è l’immagine, contraddittoria, che con poche eccezioni è stata data di loro nel corso dei secoli e che ancora oggi affiora incontrastata nel discorso pubblico.
Sono uscite alcuni anni fa due inchieste che dicono, sostanzialmente, quanto grande sia la percentuale di donne che condividono le opinioni e i comportamenti più detestabili dei maschi: stando all’indagine condotta dall’Airs, l’associazione italiana per la ricerca in sessuologia (2009), il 33% pensa che è colpa delle donne stesse se vengono violentate o picchiate; in uno studio americano, raccontato dal New York Times, il mobbing subito dalle donne nei posti di lavoro sarebbe per il 70% praticato dalle proprie simili (La Repubblica 27.5.09).
Le attese nei confronti delle donne sono pari, per quantità e pesantezza, alle ingiurie materiali e ideologiche di cui sono state fatte oggetto. Gli uomini hanno sempre dialogato solo con se stessi, e, quando le donne hanno preso parola pubblica per dire del paradosso di un potere che passa attraverso i corpi e le esperienze più intime degli esseri umani, hanno chiuso le orecchie per non sentire.
Da oltre un secolo, il femminismo si interroga su cosa abbia comportato per le donne essere state espropriate del loro essere, a partire dal corpo e dalla sessualità, costrette a pensare se stesse e il mondo attraverso l’unica intelligenza che ha avuto cittadinanza nella storia. Da questa lunga ricerca di autonomia dal pensiero unico che ha finora guidato la civiltà nel suo sviluppo, non sono emersi né il femminile innocente mitizzato dagli adoratori ottocenteschi delle madri, come Bachofen e Michelet -la risorsa di umanità integra capace di rigenerare la stanca tempra dell’uomo-, né la figura di una replicante ben ammaestrata.
Nell’accostamento a una individualità femminile sottratta ai ruoli imposti e a stereotipi alienanti, si è potuto capire, a dispetto di tutte le semplificazioni, che molte restano le zone indecifrabili dove si incrociano, nel rapporto tra i sessi, l’amore e la violenza, la debolezza e la forza, il condizionamento biologico e la storia, l’adattamento e la scelta, la tenerezza e la rabbia, la dipendenza del figlio e il privilegio del padre.
Come si può pensare che di una capacità biologica diventata, attraverso il ruolo imposto di madre, moglie, amante dell’uomo, l’arma spuntata di un loro inequivocabile potere, le donne non si sarebbero servite? Perché avrebbero dovuto rinunciare a usare a loro vantaggio quelle che agli occhi del dominatore apparivano “potenti attrattive”- la sessualità e la maternità-, tenute perciò ferocemente sotto controllo?
Come potevano sopportare una sorellanza che si prospettava solo come condizione di miseria e di schiavitù, quando l’unico modo per sottrarvisi era la rivalità?
Finché la ragione su cui si fonda la subalternità delle donne è anche, inspiegabilmente e contraddittoriamente, la loro unica moneta di scambio -un corpo generoso di vita, di cure, di piaceri sessuali-, ogni giudizio volto a esaltarle per dignità e abnegazione, o a screditarle per spudoratezza, non può che nascondere un fondo di ipocrisia, soprattutto da parte di chi, come l’uomo e la cultura che porta il suo segno, in qualunque forma economica, politica, sociale si sia espressa, non sembrano aver tenuto in alcun conto il terremoto che ha scosso le vite delle donne e, attraverso di esse, saperi, poteri e istituzioni, costruiti senza di loro.
In assenza di un processo analogo di liberazione da parte dell’uomo, costretto comunque a recitare il copione di una virilità anacronistica, anche la più estesa presenza delle donne oggi sulla scena pubblica è destinata a ‘femminilizzare’ il mondo sulla base di modelli tradizionali, di donne-oggetto sessuale, madri e mogli irreprensibili, androgini o donne mascolinamente competitive.
(Riduzione di un articolo uscito su “L’Altro” nel giugno 2009)
A proposito di prostituzione…
“La disuguaglianza di accesso alle risorse, la donna è stata spinta forzatamente a fare del corpo il suo capitale, una merce di scambio, sia nelle relazioni matrimoniali riproduttive, che in quelle non matrimoniali. Detto altrimenti: la donna non è stata pensata come soggetto di desiderio, con una sua specifica sessualità: “La sua sessualità, cancellata come tale, viene piegata verso l’oggetto riproduttivo e verso il servizio sessuale.”
La reciprocità non è pensabile dentro rapporti di dominio. Scambiandosi con altro da sé – il denaro – la sessualità femminile si avvia a diventare un servizio e infine un lavoro.”
Articolo pubblicato su Minima&Moralia 11.II.2015, link
Una legge e un’etica laica sulla maternità surrogata
Un articolo interessante ed equilibrato su un tema che fa discutere…non solo in parlamento: la maternità surrogata o gestazione per altri/e.
“Il Comitato nazionale della bioetica si è espresso nettamente a favore della maternità surrogata apportando a sostegno della posizione assunta argomentazioni logiche, lineari e concrete, a fronte di una normativa nazionale che vieta questa pratica procreativa. La ragione principale del parere positivo si fonda sull’affermazione assoluta del diritto di libertà. La scelta di genitorialità, quale che sia il metodo, la procedura attraverso la quale tale desiderio o scelta vengano realizzati, rientrano nell’ambito dell’esercizio del diritto di libertà. Lo Stato deve porsi in una posizione di neutralità dinanzi al diritto del singolo di soddisfare i propri desideri e, semmai, deve predisporre gli strumenti necessari affinché i diritti di ciascuno possano trovare piena attuazione.”
Articolo di Andrea Catizone pubblicato il 22.III.2017, link
Sulla legge 194: Giulia Carmen Fasolo
Articolo di Giulia Carmen Fasolo pubblicato il 25 giugno 2016. Per leggerlo, clicca qui.
Un ottimo intervento di Giulia Carmen Fasolo sulla Legge 194, che non viene attaccata direttamente ma resa inapplicabile. Un’ ipocrisia italica che ben conosciamo.
“Oggigiorno, cercare un luogo sanitario dove tutto il personale sanitario non abbia scelto l’obiezione di coscienza è cercare un ago in un pagliaio. Così, ciò che una volta era un diritto della donna, ora è divenuto un dovere di accettare l’obiezione di coscienza tout court.”
IMPUNITI
” Il sindaco di Cosenza assegna un assessorato a Fedele Bisceglia, il francescano al centro di accuse pesantissime di violenza sessuale nei confronti di una donna, Suor Tania.
Dopo l’offesa, la beffa: la delega assessoriale è ‘al contrasto alle povertà, al disagio, alla miseria umana e materiale, al pregiudizio razziale e religioso, alla discriminazione sociale; ambasciatore degli invisibili e degli ultimi “.
Un capovolgimento perfetto, forse un involontario contrappasso: rendere giustizia a chi ha ricevuto offesa e non ha potuto difendersi cioè Suor Tania.
Tutta la mia solidarietà alle donne e amiche carissime del Centro antiviolenza “Roberta Lanzino” ”
L’articolo riportato è di Alessandra Pigliaru, che ringrazio.
Per leggere l’articolo completo (titolo originale, ‘La voracità del voto’, clicca qui)
Il piano contro la violenza sessuale è un’occasione mancata
Articolo pubblicato il 12 giugno 2015 su ‘L’Internazionale’
Il piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, approvato il 7 maggio, nasce dal lungo e paziente lavoro volontario dei centri antiviolenza. Oltre che dall’impegno di larga parte del femminismo per far uscire la violenza maschile contro le donne dal confinamento nei casi di cronaca nera, nella patologia, nelle conseguenze del degrado sociale e dell’arretratezza di culture straniere. Ma di questo “precedente” storico, culturale e politico, benché ampiamente documentato, nella premessa del piano non c’è traccia.
Si parla di “fenomeno strutturale”, dovuto a rapporti di potere diseguali tra i sessi, della necessità di un “sistema integrato di politiche pubbliche” per la salvaguardia e promozione dei diritti umani delle donne, di azioni a favore delle vittime e interventi di contrasto alla violenza di genere, associata – nella ratifica alla convenzione di Istanbul (15 ottobre 2013, legge 119) – “alle disposizioni urgenti in materia di sicurezza” e “protezione civile”.
Il primo e unico passaggio in cui viene riconosciuta ai centri antiviolenza una “rilevanza” particolare e un legame con il femminismo, si trova negli “Obiettivi del piano”. Da quel punto in avanti saranno sempre accomunati, senza alcuna distinzione, alla realtà del privato sociale, del terzo settore, dell’associazionismo governativo.
Per leggere l’articolo completo, clicca qui
2 giugno 2016. Luci e ombre di una ricorrenza
Nel 1946 lo Stato italiano riconosce, estendendo anche a loro il diritto di voto, le donne come ‘cittadine’.
L’anno successivo, 1947, viene approvata la Costituzione che definendo la famiglia “società naturale fondata sul matrimonio” (art.29) e sulla ” essenziale funzione famigliare dela donna” -subordinata perciò al lavoro, alla sua attiva presenza nella vita pubblica-, di fatto confina le donne nel ruolo riproduttivo, necessario per la continuità e per la salvaguardia della “saldezza morale e la prosperità della Nazione.”
Nell’assemblea costituente del 15 gennaio 1947, Togliatti “dichiara che non ha nessun ostacolo, nè di carattere dottrinale, nè di carattere politico, a riconoscere la famiglia come una società naturale. Le forme sono storicamente determinate; ma nella sua coscienza accetta che sia una società naturale, e che esista il riconoscimento giuridico dello Stato. Voterà pertanto la ‘formula’ della Sottocommissione”.
Pressochè unica voce discordante, Lina Merlin “ricorda che in seno alla terza Sottocommissione, si è sempre opposta a che si inserissero nella Carta costituzionale definizione destinate a cristallizzare determinate situazioni. In materia di famiglia avrebbe preferito che non si fosse detto nulla, in quanto non è di carattere costituzionale. Se mai, lo Stato potrebbe limitarsi a garantire la famiglia e le condizioni materiali sulle quali essa deve basarsi”.
Quanto si sia “cristallizzata” una “determinata situazione storica”, fino a diventare “natura” immodificabile, lo dimostra il fatto che, con tutto il dibattere che si fa oggi sul cambiamento della Costituzione, sugli articoli che definiscono in modo così vistoso la maternità come requisito sociale e politico della ‘cittadinanza’ delle donne, inevitabilmente ‘imperfetta’, pesa ancora il più grande silenzio.