Rossana Rossanda, “Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986”, Feltrinelli 1987.

Il ’68 di Rossana Rossanda

Da una pagina del libro:
Rossana Rossanda, “Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986”, Feltrinelli 1987.

Un libro da ristampare

“Se mai avessi dubitato che si poteva scrivere, dai non toccati dalla grazia, soltanto così, come un servizio, ma ne avrebbe convinto il ’68: quelle assemblee, prima di studenti poi di tutti, riscoprivano l’io, rivestivano la protesta di gioco, vivevano la rivolta già come un modo di essere, implacabile gioioso; ma dissacrarono ferocemente, loro che erano un bizzarro prodotto del sapere, l’intellettuale di professione che si rispecchia in faccia al mondo ed esibisce le sue preziose viscere da un convegno all’altro, in alberghi confortevoli di luoghi esotici, il tutto pagato. Il ’68 irrideva in particolare l’intellettuale di sinistra, in nome della parla di tutti: che cos’ha di straordinario la “tua” parola per esigere più attenzione di quella dell’ultimo degli ultimi che si alza nell’assemblea di un’università, che non aveva mai osato varcare, per dire: ascoltatemi, sono io che parlo? O dei “cioè” che aprivano vertiginosi vuoti in coloro che si abbrancavano per la prima volta al microfono, e avevano un messaggio da mandare e non sapevano quale, ma essenzialmente che esistevano quanto te, signore e mestierante della parola?
Ancora pochi anni fa, al festival dei poeti di Castelporziano, qualcuno invase la scena nella speranza di enunciare parole decisive, perché per ognuno è decisiva la sua vita ed è atroce sentire che no, non lo è.
Furono, credo, gli ultimi a tentarlo. Oggi come prima siamo in pochi ad accedere ai microfoni, a un editore, a un canale televisivo, e nessuno ci contesta. Agli altri è stata tolta la certezza, o speranza, di avere una comunicazione importante da farci…”
(…)
Si dicono molte vacuità oggi su quel bisogno di un pensare e sentire collettivo che, è vero, toccò in alcuni il limite del misticismo e del ridicolo: ma allora fu sentito non come un demolitore della persona ma come un suo asse, luogo di realizzazione, ponte fra politico e morale, privato e collettivo. Così del resto è avvenuto sempre nei momenti di tensione sociale; di straordinario, a rendere più problematici quegli anni quegli anni e il loro rapido bruciarsi, fu la spinta gregaria di soggetti non gregari, nei quali già era più complessa d’un tempo la domanda rivolta al leader e più ultimativa la ricerca di senso collettivo. Non per affogare in esso ma per respirare in esso. Vanno prese alla lettera le parole di chi, in questi momenti o quando si addensano le scelte definitive, scrive: “Oggi la mia vita ha un senso, so quel che faccio, e anche se non ne vedrò la realizzazione, so per quale scopo sono al mondo”.
Questa non è assenza della dimensione della persona, ma un suo estremo affermarsi.”

Nota
La mia recensione al libro uscì su Il Manifesto il 15/16 marzo 1987 ed è stata poi ripubblicata nel mio libro “Lo strabismo della memoria”(Edizioni La Tartaruga 1991)

 

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Letture natalizie/antinatalizie: la tragica saggezza di Carlo Michelstaedter

“Vuoti in ogni presente…per soddisfare la fame insaziabile e mancare sempre di tutto”.

Da
Carlo Michelstaedter, “Il dialogo della salute e altri saggi”, Adelphi 1988:

“Tuo è ciò di cui non puoi fare a meno. Ma se tu non ne puoi far a meno, non tu le ‘hai’ in tua potestà: ma esse ‘hanno’ te, e tu dipendi da loro che non puoi sussister senza di loro. -E le persone care non forse allo stesso modo ti sono necessarie bensì e tu sei necessario a loro, ma il vostro amore non c’è chi lo possa saziare – né baci né amplessi, né quante altre dimostrazioni l’amore inventi vi possono compenetrare più l’uno dell’altro? Ma sempre vi tiene un eguale bisogno vicendevole. – Così ogni cosa è nostra solo perché ne abbiamo bisogno, solo perché ne usiamo -e mai abbiamo usato così delle cose della vita da non desiderare alcuna cosa, ma d’ ‘aver la nostra vita in noi’. – Perché non possediamo mai la nostra vita, l’aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perché ‘contengono per noi il futuro’, per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di tutto. -Finché la morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga- se nulla abbiamo. -Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo.”

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G.Anders: la falsa neutralità dell’ “io” maschile.

Günter Anders, “Amare, ieri. Appunti sulla storia della sensibilità”, Bollati Boringhieri 2004

“Ma io stesso, nonostante i miei numerosi diari, non mi sono mai occupato in modo particolare di me stesso; tutto ciò che è accaduto nel corso della mia esistenza, a partire dal 1914, è sempre stato troppo urgente e tremendo per consentire di mettersi a curiosare e rovistare nel proprio profondo, anche solo per farlo apparire interessante.”

“Più di trent’anni fa ho definito la ‘storia dei sentimenti ‘ come la più deplorevole lacuna della ricerca storica. A causa dei pregiudizi, le cui radici non possono qui essere messe a nudo, fino a oggi abbiamo di fatto considerato l’apparato emozionale dell’uomo come una dotazione naturale immutabile (press’ a poco come il corredo fisiologico); mentre non ci sarebbe stato nessuno, è ovvio, che non avrebbe riconosciuto tra gli strumenti mondani l’evolversi continuo delle idee, delle istituzioni.”

“Se nė l’ “io”, nė l’ “esistenza” nė l’ “esser-ci” mostrano caratteri sessuali, ciò sembra poter significare solamente che ai filosofi la petite différence appare accidentale, a posteriori, empirica, insomma metafisicamente impresentabile.
(…)
“Il potere del nostro universo maschile, che in molte lingue ha fatto dell’ “essere umano” una semplice variante della parola “uomo “, non ha contagiato anche la filosofia?
L’ “io”, la “coscienza “ non sono forse soggetti maschili? Chi nel nominare la parola “io” ha mai pensato alla signora Fichte? Non associamo forse la “persona” nonostante sia femminili generis, e si proponga di esprimere l’idea morale dell’essere umano in generale, a qualcosa di maschile?”

“…se la donna, come è capitato, si è trovata in una situazione in cui la sua appartenenza sessuale ha giocato un ruolo diverso rispetto all’ uomo, se è stata costretta nel suo essere-donna, siamo stati anche noi uomini a costringerla. E le “costrizioni”, non importa se si presentano sotto forma di catene, consuetudini, pregiudizi o filosofie, non sono sempre frutto del potere?”

“A noi sembra moralmente basso che una donna sia considerata, trattata, o amata non in quanto ‘questa donna particolare’, ma in quanto ‘una’ donna (che casualmente è proprio questa), dunque come generalità .”

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“Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero”, di F. Jullien

Rileggersi, percorrere all’indietro tracciati di vita scheggiati da una memoria dolorosa, restia a nominarsi, lasciare che le lacrime aprano con dolcezza la via al congedo così come alla possibilità di scoprire , nel testo che si ha alle spalle le risorse
che aprono la strada alla “ripresa”, o a quella che Francois Jullien, chiama “la seconda vita”.

“La rilettura non è solo più radicale ma, andando più a fondo in quello che allora appariva privo di fondo, è anche più iniziale. Tutte le letture precedenti, capitalizzandosi e decantando, hanno predisposto una capacità più acuta, più affilata, per approcciare l’opera facendone non più la scoperta ma lo scoprimento…”

“Ci sono le vite che ‘si riprendono’, le vite riformate, e le altre. Le nostre vite, infatti, si misurano in base alla capacità non tanto di sopportare le disgrazie che le colpiscono dal di fuori (…) quanto di tenere gli occhi il più possibile aperti sul negativo interno alla vita stessa attivando contestualmente la vita. E senza compensazioni o sostituzioni. Da qui discende la lucidità, che costituisce il punto di appoggio per un rilancio della vita e la ‘possibilità’ di una seconda vita.”

(da F.Jullien, “Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero”, Feltrinelli 2017)’

I libri rari e introvabili di Agnese Seranis

A. Seranis, “Joëlle”, a cura di Silvia Treves e con una Introduzione di Nicoletta Buonapace, C.S. Coop. Studi libreria editrice Torino.

“Joelle…Joelle
I sogni è meglio che siano bolle di sapone
o soffice bianca nuvola
I sogni duri come il diamante
fanno soffrire
fanno piangere

E
non sai
non sai quando
-i duri sogni frantumati-
le microscopiche schegge
invisibili
aguzze
sprofondate
seppellite
nel tuo cuore
riemergeranno
ad appannare
la tua ora più chiara

I sogni è meglio che siano bolle di sapone
o soffice nuvola bianca.”

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In ricordo di Ingeborg Bachmann

“Dagli interni delle case, dove si consuma una morte lenta per mancanza di verità, per il grigiore delle abitudini, gli odi trattenuti, i tradimenti nascosti, l’infamia degli uomini va a ricongiungersi alle “squallide azioni” della loro vita pubblica. Solo una donna che, per intelligenza e cultura, è riuscita ad addentrarsi in un mondo che non le era destinato, tanto da attribuirsi – nel racconto Il trentesimo anno- un Io maschile, può dire di averne capito le mascherature e gli inganni e, proprio per questo, di non essere disposta a condividerli.”

F. De La Motte-Fouqué , “Ondina. La ninfa che divenne donna per amare”,
Ingeborg Bachmann, “Ondina se ne va”, Filema Edizioni, Napoli 2004.

Frammenti dalla mia Lettura ai due testi

A tutte le donne che incontrano, gli uomini assegnano una funzione, affinché nulla venga loro a mancare: ne fanno le loro mogli, le donne per un giorno, un weekend e per tutta la vita; le vogliono come Muse o ‘bestie da soma’, come ‘compagne istruite e comprensive’ o ‘collaboratrici’ per garantirsi un futuro o una discendenza.
(…)
Che cosa possono avere in comune la favola di un romantico barone del primo ‘900 e l’”invettiva” tenera e rabbiosa contro gli uomini di una lucida coscienza femminile vicina a noi, come Ingeborg Bachmann? Accanto a matrimoni, famiglie, progenie, con cui ha inteso adempiere ai doveri della sua vita civile, l’uomo non ha mai smesso di celebrare altre “nozze”, lontano da parate istituzionali e in sintonia coi richiami antichi della sua appartenenza al mondo naturale.
(…)
L’”amante marina” è creatura dell’uomo, la statua che Pigmalione vede trasformarsi in donna, la ninfa emersa dai flutti a cui il Cavaliere Uldebrando, nella favola di La Motte-Fouqué, dà un’”anima” umana. Ma è anche quel luogo di perdizione e di salvezza, “prodotto dalla follia maschile”, di cui parla Otto Weininger in Sesso e carattere:
(…)
“Voi avete sognato di me”, dice Bachmann nel momento in cui, disincantata Ondina, ha deciso di non dire “mai più né ‘tu’ né ‘sì’”.
La “sconosciuta” che intona il lamento ai matrimoni e che guarda dietro la maschera delle abitudini coniugali, la donna nel cui bacio si potrebbe morire, è, per il sesso che ha imposto la sua lingua e la sua legge, l’altro, il diverso, lo straniero dal volto duplice e contraddittorio: prodotto dalle “scorie della storia, delle pulsioni e degli istinti”, a metà tra la “natura selvaggia” e la strada che porta alla civiltà, ma, per un altro verso, anche potenza originaria, immane e immutabile come il mare, o spirito custode di verità inaudite.
(…)
Nella specie umana, scrive a sua volta Bachmann, ci sono donne violente “che affilano le loro lingue”, e donne miti “che versano un paio di lacrime in silenzio”, donne che la sera, calmati i bambini, spento il gas, giacciono nei loro letti con gli occhi spalancati nel buio, pieni di disperazione e cattiveria. Fanno i conti con il matrimonio, con gli anni, con il denaro della spesa, e si abbandonano a pensieri di vendetta, sognano la morte dei loro uomini e subito dopo piangono su di loro e su se stesse.
(…)
Bachmann non aspetta che sia un Dio a sollevarla dalla propensione ad amare in modo assoluto -amori sempre diversi e sempre uguali, presto e mai del tutto dimenticati, pronti a ricominciare, lo “stesso amore” e lo “stesso errore”, a cui “si è predestinati”. Un’Ondina che non ha più bisogno di un Pigmalione per avere vita e pensieri, può voltare le spalle e, andandosene, in un ultimo sguardo pronunciare le parole di un lungo silenzio, togliere la maschera ai luoghi che le erano parsi pieni di luce.
Dagli interni delle case, dove si consuma una morte lenta per mancanza di verità, per il grigiore delle abitudini, gli odi trattenuti, i tradimenti nascosti, l’infamia degli uomini va a ricongiungersi alle “squallide azioni” della loro vita pubblica. Solo una donna che, per intelligenza e cultura, è riuscita ad addentrarsi in un mondo che non le era destinato, tanto da attribuirsi – nel racconto Il trentesimo anno- un Io maschile, può dire di averne capito le mascherature e gli inganni e, proprio per questo, di non essere disposta a condividerli.
(…)
L’ “amante marina”, sottratta alla favola che l’ha posta al centro dei sogni dell’uomo, non sembra tuttavia aver perduto, agli occhi della donna che l’ha portata dentro di sé come un destino, il fascino che assume un’esistenza estranea alle bassezze della storia e capace, contro un ordine che conosce solo l’”utile”, di far emergere una “grande idea priva di praticità”. Pur pagato col prezzo di una eroica dolorosa solitudine, l’incanto di acque rigeneratrici non si eclissa con la stessa rapidità degli amori a cui ha dato alimento.

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‘Il maschio al bivio’ di Pierangiolo Berrettoni

Pierangiolo Berrettoni
Il maschio al bivio
Bollati Boringhieri, 2007
Prefazione dell’autore (stralci)
Questo libro nasce come profonda revisione di un volume precedente, La logica del genere, in cui avevo cercato di tracciare una sorta di genealogia e archeologia della cultura di genere nel mondo occidentale a partire dal periodo greco antico, quando si sono costituite le griglie interpretative con cui continuiamo in larga misura a organizzare la realtà, compresa quella umana.
(…)
In quel libro individuavo anche le lontane origini di uno schema mentale ricco di conseguenze nella nostra visione e di-visione della realtà, compresa quella umana: quello «schema comparativo» che inquadra le opposizioni non secondo la semplice constatazione di una differenza (l’uomo è differente dalla donna, il bambino è differente
(…)
Così com’era, il libro era troppo ampio e conteneva troppe digressioni specialistiche di tipo logico e grammaticale, che potevano scoraggiare un pubblico più vasto. È nata, così, l’idea di una sua riduzione drastica e di una sua concentrazione intorno a una sola delle due polarità di genere: il maschile nelle sue due varianti meno conflittuali di
quanto siamo portati a pensare, ma anzi in qualche modo «complici», come cercherò di mostrare, il maschio eterosessuale e quello omosessuale.
L’ho intitolato Il maschio al bivio, sia perché l’immagine del bivio si è costituita attraverso il mito di Ercole come una delle componenti più insistenti nella formazione di un’identità maschile fondata sulla scelta tra impegno/fatica (pónos) e impenetrabilità da una parte, piacere, desiderio, edonismo, paticità dall’altra, sia perché il maschio occidentale, nella sua millenaria dialettica con il femminile, si è gravato nella cultura moderna di un ulteriore «fardello», la scelta esclusiva e dicotomica tra omosessualità ed eterosessualità.
Non ho usato casualmente il termine «fardello», se uno dei miti più tenaci con cui il maschio ha costruito il proprio sistema di dominazione è stato proprio quello del white man’s burden, che non si è configurato necessariamente come cattiva coscienza e mistificazione, ma come autoimposizione (al limite del masochismo) di una logica e di un’etica del sacrificio, della rinunzia e della frustrazione. Quando Freud costruiva la sua teoria della civiltà come rinunzia al soddisfacimento immediato dei bisogni da parte dei fratelli in seguito all’uccisione del padre, non si rendeva ben conto che questa rinunzia era più precisamente all’origine del potere androcentrico istituito con una serie di interdizioni, quella dell’incesto (con il conseguente scambio delle donne e la loro riduzione a segni), dell’equa distribuzione del lavoro sessuale, del desiderio omosessuale, in ultima analisi della liberazione del desiderio, di cui si è forcluso il carattere fluido ed «emanante» in favore di quello fondato sulla mancanza.
Per lungo tempo Freud si è posto il problema di rispondere alla domanda su che cosa voglia la donna: nella trentatreesima lezione introduttiva alla psicoanalisi tenuta nel 1933 sulla femminilità (Die Weiblichkeit), iniziava l’esposizione affermando che durante il corso della storia si era sempre presentato il rompicapo (Grübel) sull’enigma (Rätsel) relativo alla determinazione della natura femminile, e presumeva che anche i suoi ascoltatori maschi si ponessero il problema, diversamente dalle donne, perché proprio loro sono il problema. Oggi sappiamo, naturalmente, che la domanda sul desiderio femminile era mal posta o, per meglio dire, apparteneva a quello strato del pensiero freudiano che era maggiormente datato e più affondava le proprie radici nella cultura del periodo in cui si era formato: non un’acquisizione definitiva e atemporale, dunque, ma piuttosto un frammento di discorso di cui si può fare storia (…)
Così come oggi sappiamo che il senso profondo di quella domanda dello scopritore dell’inconscio riguardava in realtà il desiderio e, più ancora, le paure dell’uomo, e si sarebbe dovuto formulare piuttosto come domanda su che cosa voglia l’uomo, se non fosse che i regimi discorsivi interni alla cultura di quel periodo non avevano ancora preparatol’uomo a interrogarsi su sé stesso e i suoi desideri, per quanto proprio Freud stesse aprendo una radura nel terreno in cui si sarebbero potute porre più tardi queste domande.
Le rivoluzioni della modernità, soprattutto quella femminista e quella omosessuale, hanno posto il maschio di fronte alla necessità di ripensare la propria identità in termini diversi, quando non alternativi, a quelli ereditati da millenni di costruzione dei valori dell’androcentrismo.
A chi, come me, si sia posto il problema doloroso di ripensare in termini nuovi la propria identità di genere, la posizione freudiana appare ribaltabile e proprio il maschile si costituisce come il vero enigma.
In particolare sono due gli enigmi maschili che mi sembrano particolarmente difficili da comprendere.
Il primo è come mai il maschio, nell’imporre il proprio modello di dominazione sulla donna, ma anche sul bambino, il barbaro, il selvaggio,in altre parole nell’inventare una logica e un ethos imperiali e «civilizzatori», abbia accettato di sottoporsi a una serie di fardelli che vanno dalla fatica del corpo alla rimozione delle emozioni e dell’affettività (…)
Il secondo enigma che continuo a trovare senza risposta è come mai il maschio imperiale, temprato a ogni sorta di rinunzia e sacrificio, capace di affrontare deserti assolati e lande ghiacciate, nostalgie e pericoli, guerre e massacri per compiere la propria missione civilizzatrice, si mostri, poi, particolarmente «fragile» non solo nel campo delle emozioni, ma anche e soprattutto in quello dell’autoaccudimento quotidiano e bisognoso di delegare all’altro, perlopiù la donna o un suo sostituto (l’attendente), la propria stessa sopravvivenza emozionale e materiale: interrogativi forse impossibilitati a trovare una risposta, se non quelle parziali che ci danno la psicoanalisi e le archeologie dei saperi-poteri su cui si basano i vari sistemi di dominazione.

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