Ed ecco anche la bella relazione di Maria Moïse al Seminario Il corpo e la polis della LUD fi sabato 18 novembre.
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Ed ecco anche la bella relazione di Maria Moïse al Seminario Il corpo e la polis della LUD fi sabato 18 novembre.
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Questo post è dedicato alla LUD la cui durata trentennale molto deve alla capacità di “riprendersi”, “rileggere” la propria storia, aprirsi verso il possibile di ciò che appare in un dato momento “impossibile”.
“La ripresa non è né sottomessa e passiva come il ricordo ne’ ignorante e casuale come la speranza. Non è bloccata, gravata dal peso del passato, e nemmeno inconsistente e versatile in quanto proiettata a piacere nel futuro (…) la ripresa deve essere colta come un ‘ricordare in avanti’.
(…)
Si può dispiegare passo dopo passo la propria libertà -che non è concessa in un sol colpo- attraverso inflessioni sempre più risolute, riflesse a partire dalla vita passata; oppure ci si può compiacere ingenuamente nell’illusione di scegliere senza essersi dotati della capacità di farlo.
(…)
Le nostre vite, infatti, si misurano in base alla capacità non tanto di sopportare le disgrazie che le colpiscono dal di fuori, in conformità al noto modello stoico, quanto di tenere gli occhi il più possibile aperti sul negativo interno alla vita stessa attivando contestualmente la vita. E senza compensazioni e sostituzioni. Da qui discende la lucidità, che costituisce il punto di appoggio per il rilancio della vita e la ‘possibilità’ di una seconda vita.
Per potere una mattina, finalmente, quando scosto la tenda dalla finestra, quando guardo la finestra di fronte e la strada, cominciare a vedere levarsi, dal fondo della notte, ciò che può essere un mattino. Un mattino ‘in più’, ma che emerge dal mondo, pur procedendo dal mondo, tale come non l’avevo mai visto”.
(Francois Jullien, “Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero”, Feltrinelli 2017)
Se trent’anni vi sembrano pochi…
Al centro e condivisa c’è sempre stata la nostra “autonomia”, la volontà di costruire un sapere e un linguaggio liberi da gerarchie e norme precostituite, il desiderio di ricollocare il pensiero dentro la storia del corpo.
Questo ha voluto dire assumere il “partire da sé”, la pratica dell’autocoscienza nelle sue implicazioni più profonde, come punto di vista da cui interrogare i saperi, i poteri, le istituzioni della vita pubblica.
“Una geografia
non una genealogia
paesaggi inquinati
ma dove può nascere
movimento e libertà”.
( “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”)
1987-1997)
“Ma la scoperta o la presa di coscienza più importante per chi cominciava allora il suo insegnamento, era l’aprirsi di una prospettiva nuova: partire dall’esperienza di ognuno, riportare dentro le aule la vita in tutti i suoi aspetti, creare le condizioni per poterla raccontare farne oggetto di riflessione insieme agli altri. Voleva dire legittimarsi a portare allo scoperto tutto ciò che era rimasto fino allora ‘il sottobanco’,
dare voce al “ragazzo vivo”, contrapposto al “ragazzo scolastico”, per usare l’espressione di uno dei miei allievi della scuola media di Melegnano.
In sintesi, le acquisizioni più importanti si possono così riassumere:
-Messa in discussione dell’astrattezza del soggetto che parla attraverso la storia e la cultura, tradizionalmente intese, soprattutto quella scolastica dei manuali; un essere scorporato –non di fatto ma nel modo di percepirsi, di rappresentarsi-, rispetto ad alcune delle condizioni materiali, inalienabili dell’esistenza: l’eredità biologica e psichica, le condizioni sociali ed economiche, le potenziali espressive che passano attraverso il corpo, ecc.
-Necessità di interrogare la vita personale –le vicende riguardanti l’infanzia, i sentimenti e i sogni che restano nascosti nel mondo interno di ogni singolo-, nella convinzione che nel vissuto di ognuno ci sia una parte importante di storia non scritta, ancora da indagare.
-La convinzione che questi interrogativi non riguardassero solo i soggetti in formazione, gli allievi, ma prima di tutto gli adulti, uomini e donne.
(L.M., “Corpo, individuo e legame sociale. Per una educazione portata alle radici dell’umano”)
Per approfondimenti. Link
26.XI.2016
Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come spinta a uscire dalla carsicità.
Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è piazza San Giovanni a Roma, è sicuramente il modo più felice per rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è. Una manifestazione come quella di oggi, come quelle che si sono succedute da quarant’anni a questa parte, devono darci il coraggio di dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc –o forse proprio per questa varietà- è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.
Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto analizzato, sia sulle sue forme manifeste -stupri, omicidi, maltrattamenti- sia su quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano nella “normalità”, nel senso comune, nei gesti e nelle parole della quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso finora. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.
Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno. E’ il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza maschile in tutte le sue forme,a partire da quei segni profondi che ha lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate con la natura, il corpo, la conservazione della specie. Abbiamo scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e disuguaglianze che la storia ha conosciuto.
Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più disposte a tollerare:
-che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che qualcuno ancora si permetta dire che il femminismo è morto o silenzioso;
-che quando interviene una “parola pubblica” a istituzionalizzare pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati. Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il Terzo settore, i servizi sociali.
-che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la certezza di finanziamenti al riguardo.
Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono “vittime” della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella, inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice “Io decido” della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere figli.
Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan –“Io decido”, “Non una in meno”- per dire che continueremo a batterci contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e forse riusciremo a trovare quei “nessi” che legano la specificità dei nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.
“Chi pensa che il privato da non toccare siano solo “panni sporchi” della famiglia o “i sanitari del cesso”, è perfettamente in linea con la visione classica, storicamente accreditata, della politica che ha creduto di poter rinchiudere nelle case gli aspetti meno presentabili dell’umano, perché più vicini alla natura animale: i corpi, le donne, la sessualità, la malattia, la vecchiaia, la morte. Lo stesso si può dire di quanti, a destra e a sinistra, si affannano a ricordare che ci si sta dimenticando dei bisogni sociali “veri”, come se la volgarità, il voyeurismo, la bigotteria, non fossero il risvolto violento e deformante dell’insignificanza in cui sono tenuti da secoli di patriarcato la relazione tra i sessi, l’amore, la sessualità, la conservazione della vita, cioè quella parte enorme, insondata, della storia che ha al centro la persona nella sua interezza, e che solo la difesa del privilegio maschile ha potuto confinare in un immobile ordine di natura.”
Da ”Perché ‘il personale è politico’ resta solo uno slogan”, su Università delle Donne.
La Lud, una storia di oltre trent’anni, la memoria duratura delle teorie e pratiche più originali del femminismo degli anni -70.
Grazie a tutte le donne instancabili appassionate che generosamente ne hanno garantito la continuità.
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