Un dono gradito: l’arte della gioia

E finalmente, per gradito dono ricevuto, Natale con Goliarda, la sua arte della gioia (e la gioia della sua arte).

Nella foto: il profumatissimo calicanto che fiorisce d’inverno e con cui faccio i miei auguri per il nuovo anno a tutte le amiche e gli amici.

”Era di una tale bellezza il cielo notturno…”

Agnese Piccirillo, in arte Seranis, fisica e femminista storica torinese, amica carissima e autrice di libri rari per la loro lucida visionarietà sulle molplici immagini del femminile che le donne portano dentro di sè, è morta il 2 marzo 2008 per una malattia degenerativa, a 66 anni.
Il cielo stellato è quello che ha voluto vedere la notte in cui è morta.

Leggo e trascrivo sempre con commozione frammenti dai suoi libri, per me di culto, e introvabili.

Agnese Seranis, “Il filo di un discorso”, Eura Press/Edizioni Italiane, Milano 1997

“Ma allora, soprattutto all’inizio, le difficoltà del formalismo matematico mi eccitavano e la sua padronanza mi rendeva orgogliosa di appartenere a quei pochi. La matematica di Minkovschi, il formalismo di Dirac, la trasformata di Fourier…Ma ciò che mi affascinava era il punto di arrivo: la generalizzazione dei concetti, l’astrazione che implicavano. Anche le semplici quattro operazioni della mia infanzia persero la loro immediatezza intuitiva, ingenua, quando furono interpretate a mezzo degli operatori. L’universo in cui penetravo era di cristallo trasparente. Non esisteva più chi comprava e chi vendeva e si dovevano calcolare costi, ricavi e guadagni. Tutto ciò restava laggiù, sulla terra, tra quelle migliaia e migliaia di formiche, mercanti che si agitavano.
Io potevo passeggiare nei giardini dei cieli aristotelici, tra corpi eterni e incorruttibili. Era questo che mi regalava la scienza, Liberarmi dalla carne, trascenderla in un’esaltante spiritualizzazione. Il microcosmo e il macrocosmo potevano riflettersi l’uno nell’altro, come medesimi, attraverso metafore suggerite da magici simboli. Provai persino disgusto per il mio corpo di donna che sanguinava mensilmente. Provai ostilità per mia madre che quando ritornavo a casa mi rimproverava la mia poca cura nel vestire. Se fosse esistito un monastero dove ritirarmi, con il solo scopo della contemplazione, mi sarei ritirata là, mi dicevo nei periodi di particolare esaltazione.
Le donne sembravano legate alla terra, in una inevitabilità disperante. Perché le donne dovevano sentirsi così attratte dalla vita da consumarsi per la sua conservazione? Perché le donne dovevano sempre muoversi intorno a fuochi, a letti? Perché le donne dovevano cercare e creare calore? I vapori delle minestre appannano le leggi cristalline della fisica. Perché non accade mai che occhi di donna si alzassero verso il cielo notturno e la vista di quel cielo producesse una svolta nella sua vita: mettere il bimbo nella culla, asciugarsi le mani, e andarsene verso l’ignoto a conoscere i cieli. Invidiai l’uomo che si era sollevato, che si era sottratto alle cucine. Avrei potuto diventare una di loro?, mi chiedevo dopo una lunga giornata di studio, sotto le coperte, prima di essere vinta dal sonno.
L’universo della donna era davvero soltanto il proprio ventre?, mi chiedo ora quasi riprendendo il filo dei miei pensieri di allora. Lì cominciava e lì finiva? Tutto l’universo: galassie, cieli, pianeti, atomi e molecole, lei li avrebbe risucchiati nel proprio ventre, lei: la donna. Per rigenerarlo e ancora rigenerarlo in una instancabile e infinita ripetizione. Un’appartenenza materiale, di sangue e di carne, sembrava il desiderio femminile. Avrebbe allattato l’universo, se le fosse stato chiesto, per la sua espansione. L’avrebbe attraversato come un giardino, se vi avesse trovato un viottolo. Per incantarsi. In realtà lei preferiva lasciare a ciò che la circondava la magicità dell’ignoto.
Forse, un giorno, si sarebbero conosciuti l’un l’altra attraverso una lente. Reciproca osmosi. Perché tanta fretta? L’universo sarebbe rimasto là fuori,a farsi contemplare: in eterno. Era di una tale bellezza il cielo notturno, nelle fredde sere invernali o nelle tiepide notti estive! E che quelle luci brillanti fossero stelle inesistenti, soltanto immagini trasportate da distanze incommensurabili, non cambiava nulla. Anzi, la donna non voleva neppure saperlo.”

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I libri rari e introvabili di Agnese Seranis

A. Seranis, “Joëlle”, a cura di Silvia Treves e con una Introduzione di Nicoletta Buonapace, C.S. Coop. Studi libreria editrice Torino.

“Joelle…Joelle
I sogni è meglio che siano bolle di sapone
o soffice bianca nuvola
I sogni duri come il diamante
fanno soffrire
fanno piangere

E
non sai
non sai quando
-i duri sogni frantumati-
le microscopiche schegge
invisibili
aguzze
sprofondate
seppellite
nel tuo cuore
riemergeranno
ad appannare
la tua ora più chiara

I sogni è meglio che siano bolle di sapone
o soffice nuvola bianca.”

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I regali di internet: ‘Pur che tutti ridano’ di Gastone Monari

Ho trovato su Internet, non senza emozione, la segnalazione del libro di Gastone Monari, “Pur che tutti ridano”, il titolo che suggerii io alla casa editrice Feltrinelli, a cui avevo fatto avere il manoscritto dopo la sua morte.

Gastone Monari è stata una presenza decisiva nella mia vita. Senza di lui forse non sarei riuscita a fuggire dal paese, dove entrambi siamo nati, a raggiungerlo a Milano, dove era approdato dopo il primo tentato suicidio e dove era appena morta la madre. Omosessuale, in tempi in cui si doveva ancora nasconderlo, Gastone ha vissuto insieme a me l’inseguimento dei parenti, per poi condividere la casa dove, due anni dopo, nel febbraio del 1969, l’avrei trovato morto, tornando come ogni giorno da scuola. Due vite che si sono sorrette a vicenda in un passaggio esistenziale tragico ed esaltante al medesimo tempo, di cui resta testimonianza nelle quaranta lettere che ci siamo scritti, prima che io riuscissi a prendere un treno per Milano, la mattina che decisi di lasciare due famiglie e il liceo in cui ero appena entrata di ruolo.
Ringrazio chi mi ha riportato a una memoria, che ho considerato finora indicibile, e ha dato a Gastone Monari il riconoscimento poetico che merita.

La segnalazione è sul blog blanc de ta nuque in data 31 gennaio 2007, ma visto che nel blog il testo risulta illeggibile, lo riporto qui per intero.

“Pur che tutti ridano” uscì per le edizioni Feltrinelli nel 1973. Scriveva Aldo Tagliaferri nella prefazione:

“L’esistenza (come concretezza e complessità irriducibili cui la letteratura può solo asintotticamente approssimarsi) e la rivoluzione marxista (come unica autentica ragion d’essere per l’arte) costituiscono per la nuovissima poesia italiana due riferimenti necessari, esterni e, tuttavia, costitutivi. Da questa reale contraddizione ci sembra discendere l’opportunità di proporre una presentazione critica di un poeta come Monari con almeno qualche significativo cenno agli obbligatori rinvii: il tragico individuale, e la sua collocazione nella prospettiva politico-culturale. […]
Gastone Monari si è ucciso a 27 anni, nel 1969. Attento lettore di alcuni dei poeti novissimi (in particolare di Nanni Balestrini, del quale si può in parte considerare un discepolo), ammiratore di alcuni musicisti contemporanei (Cage, Chiari, Bortolotto, Donatoni) e compositore musicale egli stesso, ha respirato a fondo l’atmosfera dell’estrema avanguardia, con tutte le sue contraddizioni e lacerazioni.
Non sembra tuttavia che il suo suicidio possa essere interpretato a partire dalla pur drammatica problematica di arte e rivoluzione. Il segreto di quell’estrema scelta giace senza dubbio infondo a quell’analisi psicoanalitica che aveva intrapresa per chiarificare e arricchire la sua personalità. Non è ovviamente questa la sede opportuna per avanzare una interpretazione clinicamente attendibile. Tuttavia riteniamo che qualche elemento di essa, che ci appare più evidente, possa utilizzarsi per la comprensione di certe ricorrenze sintagmatiche presenti nelle composizioni che stiamo presentando, le uniche che egli abbia lasciato con autorizzazione alla pubblicazione, insieme a pochi altri scritti e a alcune lettere.
Il morboso attaccamento alla madre (due anni dopo la morte della quale egli si uccise) risaliva in Monari a una vera e propria identificazione con la figura di lei; e a questa identificazione è fin troppo facile addebitare quell’omosessualità che fu per lui origine di angoscia. Di questa identificazione, e del presagio di suicidio, sono reperibili nelle sue lettere diverse testimonianze. Poco prima della morte della madre egli scriveva: “Perché se non ci sarà più mia madre, quale sono ora certo non ci sarò più anch’io.” E, poco dopo: “Questa morte, questa morte mi è preziosa, l’ho interiorizzata.” […]
La raccolta, che si articola in 11 parti, per lo più segue rigorosamente un metodo combinatorio abbastanza vario e complesso, che certamente trae lo spunto da Come si agisce di Balestrini. Molte invenzioni grafiche e combinatorie sono tuttavia nuove e inedite, e altre si rifanno alle più lontane lezioni di Apollinaire, o del Surrealismo. Il metodo è abbastanza noto. Si tratta di partire da uno o più contesti più o meno referenziali, propri o altrui (la loro scelta costituendo un residuo di intervento soggettivo dell’autore), di frantumarli in sintagmi o serie di brevi gruppi di parole, e di costruire poi con questi frammenti o del tutto casualmente (con ricorso al cervello elettronico, per esempio, come nella poesia di Balestrini, o all’ I-Ching, come spesso nella poesia di Monari) o seguendo qualche norma o suggerimento del gusto, un nuovo contesto. […]”

FALLOFORIA 4.2

fuma la comparsa da nuda olivastra in frammenti ro-
sseggienti mangia in piedi del tabacco coi capelli
vortica se beve gli altri rifiutano il co-
ntatto con qualsiasi oggetto restano immobili per un tempo
più o meno lungo qui la dottoressa ne accende una
al paziente e cosi volute di farfalle dalle labbra
a punti verdognole dalla velina sulla punta olivas-
tra volute brune sfuggite alle labbra argentato ai
margini vortica mostrandosi olivastro prima che br-
uno ma prima ancora rosso umido quindi verdognolo
subito e nuovamente bruno come ballerino dalla cen-
ere si avvicina ai pazienti che mangiano sotto la
continua caduta delle farfalle rosse e bevono pure
oh se al bambino giallo di pipì e di pelle olivast-
ro la dottoressa umida e rossa per quel giallo acc-
omunàtasi alle violacee farfalle coi capelli al ba-
mbino prescrivesse una dieta così dimagrisce quel
brunetto prima il bambino e la dottoressa stanno a-
nche per un’ora senza parlare senza muoversi non è
un personaggio minore questo paziente così bambino
che col bambino giallo di pipì violaceo per lo sfo-
rzo inghiotte anche la cenere pur che tutti ridano

SOLUZIONE

o la fiamma o la tiara del papa con la croce che poggia sull
a bocca vicina alla rientranza dove c’è l’ano e che quindi è
la vagina rovesciata con i piedi della figura che toccano l’
altra faccia crociata col mento diviso in due e la bocca anc
ora più grande è una testa con la barba l’altro piede è nasc
osto dalla testa della bambola gli occhi tondi la bocca da b
ambino con la collana e col pendaglio senza breccia dà un se
nso di terrore perché è mostruosamente infantile e c’è un’os
cenità dolorosa buono e cattivo uniti nei contorni setolosi
cioè alla linea è sovrapposta una grata di peli di ferro com
e nei disegni che da bambini non abbiamo mai fatto.

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A proposito di Edmondo De Amicis, ”Il re delle bambole”

Ripescaggi: a proposito di “Edmondo De Amicis, “Il re delle bambole “. (Straordinario!)
Bambole
Nel gioco della bambina con la bambola si è creduto a lungo di vedere precocemente all’ opera l’ “istinto materno”. Ma che dire allora delle modelle, delle “veline” e delle conduttrici televisive sempre più simili alle Barbies, e viceversa? Le bambine hanno sempre avuto un rapporto ambiguo con quel corpo inanimato in tutto simile al loro, fatto per specchiarsi più che per apprendere la difficile arte della relazione con l’altro. Lo coccolano e, al medesimo tempo, lo invidiano. La sua bellezza e seduzione inducono ansie e voglie devastatrici: diventa necessario impadronirsene, sottometterne il mistero imponendogli norme e leggi. Dietro la copertura apparente dell’iniziazione alla maternità trapelano inequivocabili rituali erotici: vestire per svestire, abbellire per degradare. Su quel corpo i gesti e le parole consumano curiosità e vendetta, il gioco diventa esercizio di un dominio. La relazione, trasgressiva rispetto alle attese educative, rimanda a un corpo femminile visto “da fuori”, come se corpo e pensiero si fossero separati, collocandosi su poli opposti.
Analogo è quello che solitamente avviene nel rapporto sessuale, tanto da far nascere il dubbio che sia la donna stessa a muoversi dentro il rituale maschile dell’appropriazione, ad assecondarlo, forse a prepararlo. Il corpo che si consegna all’uomo è già stato guardato e porta già segni di manipolazione, sia pure immaginaria. Il desiderio, la curiosità, la voglia di dominio del maschio, sono già stati preceduti da sentimenti analoghi, da parte della bambina, per il corpo che le è simile, e quindi per il suo stesso corpo: per vincere quello che “dal di dentro” di quel corpo le si oppone, lo fa proprio. Ma se questa per l’uomo è una vittoria, non lo è per la donna che condanna se stessa al destino di bambola, che è “lasciarsi fare”, divenire oggetto in mano di altri.
La “bambola” che l’uomo e la donna incontrano all’inizio della loro vita sembra dunque assommare in sé aspetti diversi: è il corpo che genera, il corpo della madre, se visto dall’interno, ma è anche, guardato da fuori, l’oggetto d’amore che si consegna, muto e seducente, al desiderio sessuale. Inoltre, dato che la bambola viene tradizionalmente associata al figlio futuro, si può pensarla anche come immagine di quel femminile narcisisticamente appagato di se stesso, che Freud accosta al bambino e ad alcuni animali da preda.
Che la bambola abbia poco a che fare con la maternità, lo dimostra in modo evidente un breve racconto di Edmondo De Amicis, Il re delle bambole (Sellerio, 1980). Nella bottega di colui che le fabbrica, o le ripara, le bambole sono “bambine inanimate”, ma con “belle gambe di donna”, che gli sguardi delle ragazzine “rubano con gli occhi” e poi con le mani, travolte da “un’orgia di desideri”. Da subito si confondono “bambole e bimbe”, “vocine naturali” e “vocine meccaniche”, “braccini di carne” e “braccini di legno”, “occhietti viventi” e “occhietti di vetro”. La ricerca della bambola si carica di slanci erotici, ma anche di fantasie devastanti, a cui contribuiscono “mani fanciullesche eccitate dalla curiosità istintiva dell’anatomia del giocattolo”.
“Se vedessi che sguardi lanciavano alle bambole a cui debbono rinunziare, sguardi d’amore, sospiri, addii, col capo rivolto all’indietro…Bisogna vedere le mosse, lo slancio con cui alcune se ne impossessano e se le serrano al petto: tigrette affamate che abbracciano la preda”
“E la sala delle operazioni è la pressa, tutta ingombra di ferri, di pinze, di fili…vi si vedono sui tavoli, sulle seggiole, sul davanzale delle finestre, buttate in tutti gli atteggiamenti, grandi bambole nude, con le capigliature tragicamente arrovesciate, con “gli occhi mobili”, stralunati, con le “bocche parlanti”, spalancate, le une cieche, le altre zoppe, le altre mutilate, teste separate dal busto, tronchi con le braccia tese, braccia e gambe disperse; uno spettacolo orrendo, che mi ricordò un cert’antro fantastico di Jack lo squartatore”.
“Il Bonini mi mostrò le bambole più belle, chiomate e vestite…tutte con quel visetto fatto a pesca, con quella bocca a botton di rosa, con quegli occhi grandi e freddi di donnine senza cuore e cocottes senza pensieri”.
“E quante carezze amorose, quante parole gentili, quanti teneri baci avranno quei corpicini insensibili…su quante innocenti e soavi nudità premeranno queste fantocce i loro labbruzzi freddi di porcellana, strette tra due braccini candidi e scaldate da un alito odoroso, dentro un lettuccio visitato da sogni azzurri”.
Fin qui la bambola sembra rimandare unicamente al corpo femminile come oggetto erotico, che muove desideri e voglie aggressive. Ma c’è un passaggio imprevisto che fa comparire altri aspetti: nel momento in cui la bambola si anima, si fa “attiva”, avviene una specie di trasmutazione e, dietro la “donnina senza cuore”, compaiono le figure della madre e del figlio.
“Stavo ancora amoreggiando con la bella varallese, quando mi vedo buttare su banco una grossa bambola che agita le braccia e le gambe, gnaulando come un bimbo in culla, ed ecco un’altra bambola enorme, che alterna dei passi sul pavimento, tenuta per le mani da un commesso, tale e quale come un bimbo che impara a camminare. Un’altra bambola tanto fatta nello stesso tempo mi viene incontro sul banco a passi risoluti, dritta, gettando delle strida di folletto…non so dire lo strano senso di stupore e quasi di inquietudine che provai in mezzo a quella insospettata eruzione di vita artificiale…mi parve ad un tempo di trovarmi al teatro regio, a una scena del ballo Puppenfee e in una sala della Maternità in un momento di scompiglio.”
La sessualità e la maternità, il rituale erotico e l’accudimento, il piacere e la fame, ipocriticamente separati nelle immagini dei media, della moda, della pubblicità, ricompaiono come una specie di Giano bifronte nel simbolo più universale del destino femminile, la bambola, e aiutano a capirne il successo duraturo, oggi incredibilmente esteso.
(Questo mio articolo è apparso su Liberazione del 4 giugno 2006 Inserto QUEER, n. V “I nostri burqa”)

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Giovanni Zaccherini intervista Lea Melandri

Articolo pubblicato il 5 agosto 2016 su The Wall Street International – disponibile in varie lingue

Ringrazio Giovanni Zaccherini per questa intervista.
Si può leggere in varie lingue: spagnolo, francese, inglese, tedesco e portoghese.
“Ho detto spesso che i miei libri nascono “strada facendo”. Non so cosa vuole dire mettersi a tavolino, avere un’idea in mente articolata in capitoli, comporre le argomentazioni secondo un ordine prestabilito. Forse questo fanno gli studiosi. Io ho avuto la fortuna di non avere una formazione accademica, anche se ho fatto l’università, e di aver cominciato la mia scrittura pubblica con un movimento antiautoritario che mi permetteva di fare della vita, dell’esperienza personale, non più il “fuori tema”, come era stato al liceo, ma “il tema”. Mi considero una pensatrice libera, solitaria e socievole tanto da poter tenere insieme una pratica politica fatta di incontri, riflessione collettiva, e momenti in cui il pensiero torna sui propri passi, e ritrova il silenzio necessario per scavare nel profondo della vita personale, inseguendo quei tracciati remoti che accompagnano l’individuo come un destino… Sono rimasta la figlia del contadino, che aiutava i famigliari nella semina, che sognava le strade del mondo ma poi si rintanava dentro le braccia protettive degli alberi.”
Riportato da Nietta Paolillo che ringrazio.

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