Psicanalisi e femminismo: alla ricerca di nessi

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi.
La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.
“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato.
L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”
“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui.
La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche. In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto.
Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, che si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali.
E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”
(da L.M., “Una visceralità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne”, Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2000)

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Franco Rella, “Ai confini del corpo”, Garzanti 2012.

“Se si è costretti a parlare di “confini” tra corpo e linguaggio è perché abbiamo ereditato una visione del mondo dualistica: il corpo visto come oggetto da parte di un soggetto conoscente, una relazione ostile che si è trasformata in controllo, violazione e sfruttamento, ma che per questo non ha mai abbandonato la nostalgia per l’armoniosa riunificazione di ciò che la storia ha diviso. Dal momento che le condizioni materiali del vivere sono state identificate col sesso femminile, è attraverso il corpo della donna che l’uomo è andato cercando per secoli il mistero della sua esistenza, del nascere e del morire, della passione amorosa e della sofferenza. Scostandosi dall’“atto sacrificale” con cui si è affermato nelle civiltà esistenti il principio paterno − come principio spirituale che trascende le leggi della natura −, Rella porta allo scoperto una contraddizione evidente: non si può parlare, scrivere del corpo, senza interrogarsi sul soggetto conoscente, in quanto soggetto incorporato, sessuato, senza riportare su di sé l’interrogativo: “E io? E io e il mio corpo?”

Articolo pubblicato su minima&moralia il 22.01.2014, per leggerlo clicca qui

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8 settembre

Fusignano di Ravenna. 8 settembre, giornata di grande festa.
Da lontano…prove di memoria.
“Tornare a sedersi all’ombra di quel casone e, senza essere visti, spalancare ogni volta gli occhi allo stupore di una vitalità sconosciuta è la strada che conduce il pensiero alle sue lontane radici, ai suoni e alle forme con cui ha creduto di potersi confondere, all’ imperiosa presenza di una natura piu’ forte di ogni comando umano.
Ma per la donna che ha sentito stringersi intorno alla sua infanzia i confini di un campo lavorato con fatica, consapevole che nessuno studio avrebbe aperto le porte di un destino diverso da quello naturale, la dimenticanza era un passaggio obbligato, e il silenzio della lingua che aveva parlato per prima necessario per poter riaprire la bocca altrove, in altri luoghi e per altra gente.”
(Prefazione al libro “E’ Paradis -Il paradiso” -di Giuseppe Bellosi, editore Moby Dick, 1993. Traduzione di Loris Rambelli)
Nella foto: la casa dove sono nata e cresciuta. Foto di Cesare Ballardini.

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Stefano Levi Della Torre, “Amore”

La Ministra Giannini al Corriere.it: “Insegneremo ai prof come parlare d’amore in classe”.
Una promessa o una minaccia? Chi insegnerà a chi? Che possibilità hanno di entrare nella scuola i libri che nascono a seguito della rivoluzione culturale del femminismo sui temi del corpo, della sessualità, della maternità e dell’amore?
Un libro interessante, a questo proposito:
Stefano Levi Della Torre, “Amore”, Rosenberg & Sellier, Torino 2013.
Frammenti
“Ci si può innmorare per il desiderio di essere amati, o anche per il bisogno inesauribili di sentirsi amati. La psicologia e in particolare la psicoanalisi hanno fatto luce su una stimmate originaria, più o meno sanguinante in ogni essere umano: la ferita inevitabile subita nell’infanzia dal nostro desiderio di essere infinitamente amati, desiderio che si scontra col fatto che la prima dispensatrice reale immaginario di questo amore, la madre, non è parte di noi ma è persona distinta , capace di assenza e di imporci confini.
Questa disillusione è un viatico che ci apre alla realtà del mondo, alla realtà dei nostri limiti e della nostra separatezza individuale, e resta un rumore di fondo doloroso di ogni nostra esperienza affettiva.
E’ la disillusione in agguato che può trasformare la libertà del nostro desiderio nella schiavitù di un bisogno. Sì che siamo spesso portati a chiedere amore a chi ce lo nega (almeno nel’infinito che vorremmo), quasi a ritornare in un “gioco dell’oca” a quella casella di partenza per rilanciare i dadi, sperando in un altro esito che smentisca quella ferita iniziale e ci guarisca per sempre.”

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Seamus Heaney, il poeta che voleva ”preservare l’esperienza”

Articolo pubblicato su Doppiozero il 01 settembre 2013

Il poeta che voleva “preservare l’esperienza “.
“Aveva scoperto che solo parlando di ciò che davvero conosceva e sentiva poteva parlare a tutti. Già in una delle prime poesie ricordava il momento in cui da collegio tornò a casa perché un fratellino era morto investito da un auto, e le sue impressioni di ragazzo salutato dagli adulti che erano “sorry for your trouble” — dispiaciuti per la tua pena. Parole di convenienza, ma che altro dire. (In questi giorni le sentiranno i suoi familiari affranti, che in lui hanno perduto una persona dalle straordinarie qualità umane).
“C’è una sua poesia di congedo in cui il poeta raccomanda al lettore di non dimenticare di trovare qualche ora per mettersi in auto e andare sul promontorio ventoso e fermarsi lì, quando le raffiche di vento arrivano una dopo l’altra e “prendono il cuore di sorpresa e lo aprono”. Èquesta una descrizione perfetta dell’effetto-Heaney, che avviene sul momento, come conclusione imprevista di un incontro con delle parole lette o udite. Improvvisamente siamo nudi ed esposti, compresi dello stupore di una vita così ricca di cose da provare, capire e condividere.”

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L’individuo e il cittadino: una inimicizia poco interrogata

Quando si constata con sorpresa –come nel caso degli operai che votano a destra- che “identità sociale” e “soggettività politica” sono scisse, si dice, indirettamente, che l’individuo, non solo non coincide col cittadino -anzi, diceva Tocqueville, è il suo “peggior nemico”-, ma non si identifica neppure totalmente con la sua collocazione nei rapporti di lavoro, col suo essere in un territorio, né solo col suo ruolo sessuale nella coppia, nella famiglia. L’essenza della politica, il motore primo della conflittualità sociale e della trasformazione, si sono venuti spostando, di volta in volta, su questo o quell’aspetto dell’esistenza, facendolo diventare unico e centrale.
Dire che nel vissuto del singolo si danno concentrati e confusi bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c’è un ‘territorio’ che sfugge, o esorbita, dai confini della vita pubblica -e quindi irriducibile al sociale-, che è la vita psichica, una terra di confine tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate. Le “viscere” razziste, xenofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi, ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo della coscienza operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l’ambientalismo.
La persona, la soggettività intesa come esperienza del singolo e come corpo pensante, si sono fatti strada con fatica, fuori da vincoli famigliari e comunitari obbligati, e sono andati assumendo sempre più le forme di un individualismo chiuso alla solidarietà, anche perché su questo versante partiti e movimenti di sinistra hanno proceduto separati, guardandosi reciprocamente con sospetto.
Il “personale è politico”, per chi si preoccupava negli anni ’70 di salvaguardare la grande “unità di classe”, suonava come uno slogan “borghese”. Eppure è dalla testimonianza diretta dei singoli, dalle voci che si raccolgono fuori dal dibattito pubblico, fuori soprattutto dalla cerchia del ceto politico, che il “sociale” tanto invocato prende forma, caricandosi di ragioni e di senso. Non necessariamente quelli che ci aspettiamo, ma che tuttavia non possiamo ignorare, se si vuole davvero costruire una alternativa meno violenta e alienata di società.
Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si alimenta il populismo, bisogna tornare a interrogare l’esperienza, sapendo che oggi non è più pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano con saperi e poteri istituzionali. Per riappropriarsene occorre un sapere di sé capace perciò di confrontarsi con tutti i saperi specialistici, bisogna, in altre parole, imparare quello che Laura Kreyder, redattrice della rivista “Lapis”, ha chiamato “un salvifico bilinguismo”:“il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni” (10).
Ma si tratta anche si saper affrontare la conflittualità che questo sapere inedito apre in tutti i luoghi in cui siamo presenti.
(Stralci da L.M. “Amore e violenza”, Bollati Boringhieri 2011)

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Pensiero e corpo: fine di un’inimicizia?

Se si è costretti a parlare di “confini” tra corpo e linguaggio è perché abbiamo ereditato una visione del modo dualistica: il corpo visto come “oggetto” da parte di un “soggetto conoscente”, una relazione ostile che si esprime in controllo, violazione e sfruttamento, ma che per questo non ha mai abbandonato la nostalgia per l’armoniosa riunificazione di ciò che la storia ha diviso.
Dal momento che le condizioni materiali del vivere sono state identificate col sesso femminile, è attraverso il corpo della donna che l’uomo è andato cercando per secoli il mistero della sua esistenza, del nascere e del morire, della passione amorosa e della sofferenza.
Scostandosi dall’“atto sacrificale” con cui si è affermato nelle civiltà esistenti il principio paterno − come principio spirituale che trascende le leggi della natura −, Franco Rella , nel suo libro “Ai confini del corpo” (Garzanti 2012), porta allo scoperto una contraddizione evidente: non si può parlare, scrivere del corpo, senza interrogarsi sul soggetto conoscente, in quanto soggetto incorporato, sessuato, senza riportare su di sé l’interrogativo: “E io? E io e il mio corpo?”.
Da questa domanda , che rivoluziona la visione del mondo mettendo il soggetto maschile nella posizione associata tradizionalmente alla donna, alla passività, alla vergogna dell’“essere guardato”, prende avvio un saggio “audace e innovativo”, sia nell’esplorazione dei territori “impresentabili” dell’esperienza umana, sia nella ricerca di forme di “scrittura critica”, dove si danno insieme inseparabili pensiero ed emozioni.
Le linee guida di un viaggio che si lascia aperte volutamente strade, sorprese, ripensamenti, sono dunque essenzialmente due: forzare i confini del corpo, varcare sempre nuove soglie per addentrarsi nel suo mistero e dare parola alle passioni che lo abitano, gioie e patimenti, e al medesimo tempo interrogarsi su come “scrivere il corpo” evitando che si riduca alle parole che ne parlano.
L’esito è una scrittura che si interroga costantemente su se stessa, che vuole mantenersi fedele a un Io incorporato, diventare corpo pensante, amalgama di ragione e sentimenti, una scrittura che, se da un lato insegue l’opportunità di una “trama”, si lascia poi felicemente attrarre dalla “logica del frammento”.
A prevalere sulla forma tradizionale del saggio è il “movimento erratico del pensiero” che come una “deriva morenica” si ingrossa via via che avanza, incorporando materiali eterogenei: letteratura, arte, filosofia, schegge narrative, frammenti di esperienza propria, eventi tecno-politici. La parola che tenta di avvicinarsi al “cuore di tenebra” della civiltà e di ogni individuo non può che essere una “parola vacillante”, un filo teso che in ogni istante può spezzarsi. È questa consapevolezza che, impedendo al singolare percorso di pensiero e di scrittura di Rella di fermarsi all’incontro di letteratura, arte e filosofia, gli permette di entrare in un terreno fatto di “ossessive iterazioni, note, aforismi, soprassalti della coscienza”.