Psicanalisi e femminismo

Nel documento “Pratica dell’inconscio e movimento delle donne” di Alcune femministe milanesi del 1975 si legge:

“…nella lotta per la nostra liberazione troviamo un nodo problematico, la sessualità, il corpo. Se si decide di non passare oltre con trovate ideologiche, è inevitabile fare i conti con la psicanalisi.”

Di questa importante intuizione iniziale del femminismo poco è rimasto. Oggi, di fronte alla sequenza di stupri e femminicidi, e più in generale al dibattito che finalmente si è aperto sulle questioni di genere, sessismo e razzismo, dovremmo sentirla ancora più necessaria.
Punire gli aggressori, tutelare le vittime, sostenere i centri antiviolenza, manifestare non basta, se contemporaneamente non si continuano a indagare le ragioni profonde di un dominio che passa attraverso i corpi e la vita intima.

Riletture per frammenti:

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi. La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.

“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato. L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”

“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui.

La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche.

In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto. Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, che si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali. E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”

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Dalle “differenze di genere” alle “singolarità incarnate”

Intervengono: Carlotta Cossutta, Lucia Leonardi, Maia Pedullà e Federico Zappino Coordina: Lea Melandri
Cosa significa liberare il corpo e la sessualità dai modelli culturali eteronormativi egemonici e appropriarsene per la creazione di nuove forme di intimità, di relazione e di mutualità controegemoniche? Quali somiglianze e differenze di analisi e pratiche politiche tra generazioni? Se negli anni Settanta è stata centrale la creazione di una “individualità femminile autonoma” dai modelli interiorizzati, oggi è importante interrogarsi sullo statuto politico e trasformativo delle sperimentazioni identitarie e corporee, su chi coinvolgano, e se, e in che modo, le categorie di “differenza sessuale”, di “genere” e di “eteronormatività” consentano di leggere i processi di individuazione e di relazione contemporanei.

A Milano, domani, sabato 19.XI.2016

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Maestre e maestri

Il “corpo insegnanti” è ancora nella stragrande maggioranza femminile. Perché se ne discute così poco?
Una riflessione di alcuni anni fa:
“Posta nel punto più delicato di snodo, tra famiglia e società -la scuola-, la donna ha finito per essere il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, ma anche, purtroppo, dell’illusione che ha portato le donne a impugnare la loro sottomissione come potere di indispensabilità all’altro, madri in ogni caso, anche quando non hanno figli. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo inermi, dipendenti, ‘bambini’ anche se adulti, nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e di cui pensano dipenda la loro sopravvivenza? Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dall’infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.”

(Per chi ha la pazienza di leggere, ecco la versione intera)

Acrobate
Ho un ricordo vago della maestra della prima e seconda elementare, mentre ho davanti agli occhi, nitida come allora, la figura, il modo di muoversi, di sorridere, di parlare, del maestro che mi ha accompagnata nei tre anni successivi, e senza il cui interessamento non avrei potuto, date le condizioni molto povere della mia famiglia, presentarmi all’esame di ammissione alla prima media.
L’ho visto invecchiare, quasi senza mutamento, le volte che sono tornata al paese e ho avuto l’impressione che anche per lui fossi rimasta l’allieva ‘meritevole’ che aveva conosciuto.
Di quei primi anni di scuola non saprei raccontare molto, ma so per certo che hanno segnato in modo durevole la mia vita, a cominciare dal desiderio -imperioso quasi quanto una ‘vocazione’- di diventare a mia volta ‘maestra’, dalla rapidità con cui ho imparato l’italiano, pur restando fedelmente legata al dialetto, fino all’amore particolare per la scrittura, rimasta, per tutto il percorso successivo, tramite di conoscenza e affetti con gli adulti incontrati nella scuola.
Posso pensare che l’essere femmina, figlia di contadini con un livello bassissimo di istruzione, costretta a cercare nei propri pensieri un riparo da corpi ingombranti, esasperati dalla fatica e dai violenti litigi di tre nuclei famigliari, mi abbia spinto a cercare nella scuola un’ancora di salvezza. Ma non c’è dubbio che, in quella prima sostituzione di figure genitoriali, prendono forma per ogni bambino scelte e comportamenti futuri, incorporazione di modelli, di paure e di certezze, destinate a prolungarsi come un’ombra, di cui si è dimenticata la provenienza, e quindi il modo per liberarsene.
Mi chiedo oggi che cosa abbia significato quella rara presenza maschile nel luogo che tutt’ora sembra destinato, come per naturale continuazione del ruolo biologico della madre, quasi esclusivamente a donne. La riserva, per non dire la spontanea riluttanza, che ho sempre avuto, a confondere o anche soltanto ad accostare madre e maestra, mi fa dire che vengono da lontano i ragionamenti più o meno dotti, politicamente meditati, con cui ho discusso in più occasioni pubbliche su questi temi. Quando una parte del femminismo, dopo anni in cui si era scavato nelle storie personali, per capire quale violenza manifesta o psicologica avesse potuto chiudere l’esistenza femminile dentro la funzione materna, ha riportato in auge l’ “ordine simbolico della madre”, la superiore ‘competenza’ relazionale femminile, ho pensato che la visione del mondo dettata dall’uomo aveva ancora una volta trionfato su un percorso di autonomia appena agli inizi.
Tra le immagini che l’uomo, protagonista unico della storia, ha attribuito al femminile, quella di madre-maestra è senza dubbio, accanto a quella di oggetto erotico, iniziatrice sessuale, la più difficile da smascherare,per la copertura di falsa ‘naturalità’ che si porta dietro, ma anche per l’ambiguo segno che la contraddistingue: esaltata immaginativamente e storicamente insignificante, come ha scritto Virginia Woolf.
Se la divisione sessuale del lavoro ha ristretto il tempo e lo spazio delle donne alla cura di figli, mariti, fratelli, anziani, malati, occupazioni domestiche, l’attribuzione della fase iniziale del processo educativo a una figura femminile ha creato un ibrido, non meno limitante per la vita propria e altrui. Identificata, in quanto donna, col corpo, la natura, la casa, gli affetti, la maestra è, paradossalmente, anche il tramite di quello stesso sapere che ha continuato per secoli a definirla come tale, esclusa dalla sfera pubblica, dalla possibilità di sviluppare la sua intelligenza, le sue capacità creative, il suo potere decisionale. Posta nel punto più delicato di snodo, tra famiglia e società, ha finito per essere il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, ma anche, purtroppo, dell’illusione che ha portato le donne a impugnare la loro sottomissione come potere di indispensabilità all’altro, madri in ogni caso, anche quando non hanno figli. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo inermi, dipendenti, ‘bambini’ anche se adulti, nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e di cui pensano dipenda la loro sopravvivenza?
Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dalla prima infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio, che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.

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Le donne ‘colludono’ col maschilismo?

Interrroghiamo la nostra cultura greco-romana-cristiana
Stando alla definizione del dizionario Zingarelli, “puttana”significa, in senso etimologico, “puzzolente”, “sporco”, e in secondo luogo la denominazione volgare di “meretrice, prostituta”. Qualsiasi donna sa che non c’è bisogno di vendere il proprio corpo, offrire un servizio sessuale in cambio di denaro, per attirarsi l’epiteto insultante di “puttana”. Basta uscire dai canoni del riserbo e del contegno morale che gli uomini si aspettano da lei, allo scopo di occultarne la sessualità, considerata un male in se stessa o il bene riservato a un legittimo padrone. Nessuna meraviglia perciò se un giudizio analogo, di spregio e disapprovazione, sia caduto sul femminismo, sulle sue pratiche volte alla riappropriazione del corpo e della sessualità femminile.
Se ci si indigna e si considera degradante il fatto che la donna venga rappresentata come corpo erotico, corpo seduttivo offerto allo sguardo dell’uomo, non è forse perché l’enfasi con cui è accolto oggi il “femminile” nella sfera pubblica richiama in modo inequivocabile quella che è stata, nella cultura classica greco-cristiana, la “natura” della donna, cioè la sessualità, e di conseguenza la sua collocazione nella “vita inferiore” dell’umano?
La “maledizione” -come ha scritto giustamente Pierre Bourdieu – non è nella “natura” della donna, ma nell’aver essa forzatamente incorporato il pregiudizio che a tale “natura” ha dato forma e nomi. “Nella misura in cui le loro disposizioni sono il prodotto del pregiudizio sfavorevole contro il femminile che è istituito nell’ordine delle cose, le donne possono solo confermare costantemente tale pregiudizio. Questa logica è la logica della maledizione. Le stesse disposizioni che inducono gli uomini a lasciare alle donne i compiti inferiori e le attività ingrate e meschine, insomma a sbarazzarsi di tutti i comportamenti poco compatibili con l’idea che gli uomini si fanno della loro dignità, li portano anche ad accusarle di “ristrettezza mentale”(Il dominio maschile, Feltrinelli 1998).
Una forma di dominio “inscritta in tutto l’ordine sociale” e che “opera nell’oscurità dei corpi”, poteva facilmente essere scambiata per legge di natura, indurre l’uomo a dar corpo ai suoi fantasmi, ad allontanarli da sé, facendone depositario l’altro sesso.
Madre, prostituta o vergine, la donna “non è che mezzo per uno scopo”, nell’erotismo più elevato così come in quello più intimo. Interessante, per capire quanto questo immaginario permanga nella cultura e nel senso comune, è l’aspetto onnicomprensivo che assume la sessualità nella definizione del “carattere” della donna, e più in generale del suo rapporto con l’umano.
“La donna – scrive Otto Weininger (“Sesso e carattere”, Vienna 1903)- si consuma tutta nella vita sessuale, nella sfera dell’accoppiamento e della procreazione, nella relazione cioè di moglie e madre; essa viene totalmente assorbita, mentre l’uomo non è solamente sessuale (…) Personalità e individualità (Io, intelligibile) e anima, volontà e carattere, significano sempre la stessa cosa che, nella sfera umana, appartiene solo all’uomo, e manca alla donna (…) Il loro aspetto esteriore, ecco l’Io delle donne.”
E’ così che la distanza tra la moglie e la prostituta si riduce fin quasi a scomparire.
Presa dentro l’”enigma del dualismo” -la spinta dall’illimitato verso il limite, dello spirito verso la materia, della libertà verso la servitù-, la donna viene così a trovarsi al centro di una definizione quanto mai contraddittoria e paradossale del “femminile”. Se per un verso essa dipende per la sua esistenza dall’uomo, dall’altra, incarnando la “maledizione” di un maschile diviso tra l’animalità e il divino, viene a rivestire una missione decisiva per il sesso vincente.
La stessa “ragione” che la respinge e la separa da sé come minaccia per la sua integrità, è costretta subito dopo a riporre in lei alte doti di moralità e attese salvifiche. La sua appartenenza al genere umano le dà diritto all’equiparazione giuridica ma non all’ “eguaglianza morale e intellettuale”, che spetta solo al sesso che ha in sé corpo e anima, che è soggetto e oggetto al medesimo tempo.
Per rendersi conto di quanto queste contraddizioni siano ancora presenti nella condizione femminile, basterebbe analizzare più a fondo i nessi che ci sono sempre stati tra la riduzione della donna a corpo e la sua assenza dai luoghi dove si esprimono individualità, pensiero, volontà, potere decisionale.

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‘Il maschio al bivio’ di Pierangiolo Berrettoni

Pierangiolo Berrettoni
Il maschio al bivio
Bollati Boringhieri, 2007
Prefazione dell’autore (stralci)
Questo libro nasce come profonda revisione di un volume precedente, La logica del genere, in cui avevo cercato di tracciare una sorta di genealogia e archeologia della cultura di genere nel mondo occidentale a partire dal periodo greco antico, quando si sono costituite le griglie interpretative con cui continuiamo in larga misura a organizzare la realtà, compresa quella umana.
(…)
In quel libro individuavo anche le lontane origini di uno schema mentale ricco di conseguenze nella nostra visione e di-visione della realtà, compresa quella umana: quello «schema comparativo» che inquadra le opposizioni non secondo la semplice constatazione di una differenza (l’uomo è differente dalla donna, il bambino è differente
(…)
Così com’era, il libro era troppo ampio e conteneva troppe digressioni specialistiche di tipo logico e grammaticale, che potevano scoraggiare un pubblico più vasto. È nata, così, l’idea di una sua riduzione drastica e di una sua concentrazione intorno a una sola delle due polarità di genere: il maschile nelle sue due varianti meno conflittuali di
quanto siamo portati a pensare, ma anzi in qualche modo «complici», come cercherò di mostrare, il maschio eterosessuale e quello omosessuale.
L’ho intitolato Il maschio al bivio, sia perché l’immagine del bivio si è costituita attraverso il mito di Ercole come una delle componenti più insistenti nella formazione di un’identità maschile fondata sulla scelta tra impegno/fatica (pónos) e impenetrabilità da una parte, piacere, desiderio, edonismo, paticità dall’altra, sia perché il maschio occidentale, nella sua millenaria dialettica con il femminile, si è gravato nella cultura moderna di un ulteriore «fardello», la scelta esclusiva e dicotomica tra omosessualità ed eterosessualità.
Non ho usato casualmente il termine «fardello», se uno dei miti più tenaci con cui il maschio ha costruito il proprio sistema di dominazione è stato proprio quello del white man’s burden, che non si è configurato necessariamente come cattiva coscienza e mistificazione, ma come autoimposizione (al limite del masochismo) di una logica e di un’etica del sacrificio, della rinunzia e della frustrazione. Quando Freud costruiva la sua teoria della civiltà come rinunzia al soddisfacimento immediato dei bisogni da parte dei fratelli in seguito all’uccisione del padre, non si rendeva ben conto che questa rinunzia era più precisamente all’origine del potere androcentrico istituito con una serie di interdizioni, quella dell’incesto (con il conseguente scambio delle donne e la loro riduzione a segni), dell’equa distribuzione del lavoro sessuale, del desiderio omosessuale, in ultima analisi della liberazione del desiderio, di cui si è forcluso il carattere fluido ed «emanante» in favore di quello fondato sulla mancanza.
Per lungo tempo Freud si è posto il problema di rispondere alla domanda su che cosa voglia la donna: nella trentatreesima lezione introduttiva alla psicoanalisi tenuta nel 1933 sulla femminilità (Die Weiblichkeit), iniziava l’esposizione affermando che durante il corso della storia si era sempre presentato il rompicapo (Grübel) sull’enigma (Rätsel) relativo alla determinazione della natura femminile, e presumeva che anche i suoi ascoltatori maschi si ponessero il problema, diversamente dalle donne, perché proprio loro sono il problema. Oggi sappiamo, naturalmente, che la domanda sul desiderio femminile era mal posta o, per meglio dire, apparteneva a quello strato del pensiero freudiano che era maggiormente datato e più affondava le proprie radici nella cultura del periodo in cui si era formato: non un’acquisizione definitiva e atemporale, dunque, ma piuttosto un frammento di discorso di cui si può fare storia (…)
Così come oggi sappiamo che il senso profondo di quella domanda dello scopritore dell’inconscio riguardava in realtà il desiderio e, più ancora, le paure dell’uomo, e si sarebbe dovuto formulare piuttosto come domanda su che cosa voglia l’uomo, se non fosse che i regimi discorsivi interni alla cultura di quel periodo non avevano ancora preparatol’uomo a interrogarsi su sé stesso e i suoi desideri, per quanto proprio Freud stesse aprendo una radura nel terreno in cui si sarebbero potute porre più tardi queste domande.
Le rivoluzioni della modernità, soprattutto quella femminista e quella omosessuale, hanno posto il maschio di fronte alla necessità di ripensare la propria identità in termini diversi, quando non alternativi, a quelli ereditati da millenni di costruzione dei valori dell’androcentrismo.
A chi, come me, si sia posto il problema doloroso di ripensare in termini nuovi la propria identità di genere, la posizione freudiana appare ribaltabile e proprio il maschile si costituisce come il vero enigma.
In particolare sono due gli enigmi maschili che mi sembrano particolarmente difficili da comprendere.
Il primo è come mai il maschio, nell’imporre il proprio modello di dominazione sulla donna, ma anche sul bambino, il barbaro, il selvaggio,in altre parole nell’inventare una logica e un ethos imperiali e «civilizzatori», abbia accettato di sottoporsi a una serie di fardelli che vanno dalla fatica del corpo alla rimozione delle emozioni e dell’affettività (…)
Il secondo enigma che continuo a trovare senza risposta è come mai il maschio imperiale, temprato a ogni sorta di rinunzia e sacrificio, capace di affrontare deserti assolati e lande ghiacciate, nostalgie e pericoli, guerre e massacri per compiere la propria missione civilizzatrice, si mostri, poi, particolarmente «fragile» non solo nel campo delle emozioni, ma anche e soprattutto in quello dell’autoaccudimento quotidiano e bisognoso di delegare all’altro, perlopiù la donna o un suo sostituto (l’attendente), la propria stessa sopravvivenza emozionale e materiale: interrogativi forse impossibilitati a trovare una risposta, se non quelle parziali che ci danno la psicoanalisi e le archeologie dei saperi-poteri su cui si basano i vari sistemi di dominazione.

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Dialogo tra una femminista e un misogino

Articolo pubblicato il 6 agosto 2016 su Tysm – Philosophy and social criticism 

Grazie Marco Dotti!
“Come può avere ragione un misogino, sessista, che identifica le donne con la sessualità e la maternità, considerandole prive di un Io, di una individualità?
La ragione sta nella cultura di cui Weininger è il tragico sostenitore e testimone, quella che abbiamo ereditato, che trasmettiamo nelle scuole quasi sempre senza alcuna consapevolezza dell’ideologia su cui si è costruita, quella che si regge ancora oggi sulla sua falsa “neutralità”.

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Pensiero e corpo: fine di un’inimicizia?

Se si è costretti a parlare di “confini” tra corpo e linguaggio è perché abbiamo ereditato una visione del modo dualistica: il corpo visto come “oggetto” da parte di un “soggetto conoscente”, una relazione ostile che si esprime in controllo, violazione e sfruttamento, ma che per questo non ha mai abbandonato la nostalgia per l’armoniosa riunificazione di ciò che la storia ha diviso.
Dal momento che le condizioni materiali del vivere sono state identificate col sesso femminile, è attraverso il corpo della donna che l’uomo è andato cercando per secoli il mistero della sua esistenza, del nascere e del morire, della passione amorosa e della sofferenza.
Scostandosi dall’“atto sacrificale” con cui si è affermato nelle civiltà esistenti il principio paterno − come principio spirituale che trascende le leggi della natura −, Franco Rella , nel suo libro “Ai confini del corpo” (Garzanti 2012), porta allo scoperto una contraddizione evidente: non si può parlare, scrivere del corpo, senza interrogarsi sul soggetto conoscente, in quanto soggetto incorporato, sessuato, senza riportare su di sé l’interrogativo: “E io? E io e il mio corpo?”.
Da questa domanda , che rivoluziona la visione del mondo mettendo il soggetto maschile nella posizione associata tradizionalmente alla donna, alla passività, alla vergogna dell’“essere guardato”, prende avvio un saggio “audace e innovativo”, sia nell’esplorazione dei territori “impresentabili” dell’esperienza umana, sia nella ricerca di forme di “scrittura critica”, dove si danno insieme inseparabili pensiero ed emozioni.
Le linee guida di un viaggio che si lascia aperte volutamente strade, sorprese, ripensamenti, sono dunque essenzialmente due: forzare i confini del corpo, varcare sempre nuove soglie per addentrarsi nel suo mistero e dare parola alle passioni che lo abitano, gioie e patimenti, e al medesimo tempo interrogarsi su come “scrivere il corpo” evitando che si riduca alle parole che ne parlano.
L’esito è una scrittura che si interroga costantemente su se stessa, che vuole mantenersi fedele a un Io incorporato, diventare corpo pensante, amalgama di ragione e sentimenti, una scrittura che, se da un lato insegue l’opportunità di una “trama”, si lascia poi felicemente attrarre dalla “logica del frammento”.
A prevalere sulla forma tradizionale del saggio è il “movimento erratico del pensiero” che come una “deriva morenica” si ingrossa via via che avanza, incorporando materiali eterogenei: letteratura, arte, filosofia, schegge narrative, frammenti di esperienza propria, eventi tecno-politici. La parola che tenta di avvicinarsi al “cuore di tenebra” della civiltà e di ogni individuo non può che essere una “parola vacillante”, un filo teso che in ogni istante può spezzarsi. È questa consapevolezza che, impedendo al singolare percorso di pensiero e di scrittura di Rella di fermarsi all’incontro di letteratura, arte e filosofia, gli permette di entrare in un terreno fatto di “ossessive iterazioni, note, aforismi, soprassalti della coscienza”.

Svelamento:L’androginismo e la creatività femminile. Virginia Woolf e Sibilla Aleramo

L’androginismo e la creatività femminile. Virginia Woolf e Sibilla Aleramo
Frammenti
Per quanto distanti, se si guardano le loro storie personali e intellettuali, Virginia Woolf e Sibilla Aleramo vengono a trovarsi inaspettatamente vicine quando si confrontano i termini con cui hanno inteso indicare quella specie di rigenerazione di sé che ha luogo nella creatività artistica, o nell’arte e nella vita insieme per la potenza miracolosa dell’amore (Aleramo).
La consapevolezza con cui entrambe indagano le condizioni di “insignificanza storica” delle donne, il rischio di una emancipazione che sia solo assimilazione all’uomo (al suo linguaggio, ai suoi modi) e, nel caso dell’Aleramo, la coscienza di una sottomissione ancora più profonda che fa coincidere il sacrificio di sé con la propria sopravvivenza, si arresta di fronte all’immagine -l’ “estasi per l’Aleramo, il “matrimonio dei contrari” per la Woolf.
Non dovrebbe essere difficile vedere che l’immagine della perfetta fusione degli opposti, così come ha preso forma nel mito e nella storia, è il sogno di una ritrovata integrità che va però a collocarsi sull’uomo: è la “madre nel figlio” (Nietzsche), il sole di Zarathustra che si “ingravida” perché ha sollevato a sé gli abissi.
Come in tutte le visioni profetiche e le attese di una sovrumanità, sono le viscere della terra e i mostri marini che vanno a ricongiungersi alle cime dei monti, non viceversa. Questa vicenda appare chiara in tutta la cultura dell’uomo e in alcune recenti analisi del mito classico e cristiano esplicitata in modo inconfondibile (Hillman). Le ragioni per cui ha ancora tanto fascino anche per parte del femminismo:
-l’androgino si profila come l’uscita da un dualismo che è fonte di insoddisfazione e sofferenza (natura/cultura, corpo/mente, ecc.), ma rappresenta anche l’uno, la “coidentità” d’origine, speranza di salvezza futura e insieme nostalgia di un paradiso perduto;
-l’ interezza è per la donna una necessità più forte che per l’uomo: dividendo i campi (infanzia/storia, famiglia/vita sociale) e imponendo ad essi la sua legge, l’uomo può garantirsi in qualche modo una continuità, sia pure precaria e insoddisfacente. La donna, confinata su un polo solo, è costretta a operare drammatiche sostituzioni:la creatività del pensiero al posto di quella biologica, l’impegno “virile” nel mondo contro un destino “femminile” di moglie e madre;
-la ricomposizione sembra non poter essere pensata altro che attraverso questa immagine duplice, una specie di divinità bifronte, e non come il naturale innestarsi (ad es. il corpo e il pensiero) in uno stesso essere, maschio o femmina. Con tutto ciò che porta con sé di assolutezza, perfezione, atemporalità, l’ideale androgino non può che essere fonte di sofferenza e causa di follia per la realtà concreta e limitata dell’individuo che attraverso di esso vorrebbe trascendersi.
A mantenere l’attaccamento a una identità illusoria contribuisce il modo contraddittorio con cui l’uomo si è rivolto da sempre alla donna. Scrive Virginia Woolf:
“Immaginativamente la sua importanza è estrema; ma praticamente, la sua insignificanza è totale. Ella pervade la poesia, da una copertina all’altra, invece dalla storia è quasi assente.” (2)
Nella “storia” di cui parla la Woolf riferendosi essenzialmente alle condizioni materiali di inferiorità delle donne, si può far rientrare anche la percezione svalutata che esse hanno del loro corpo: il corpo esaltato è solo quello che si può fantasticare come complemento dell’uomo, è il corpo che l’uomo -figlio, padre, amante, marito- ama perché indispensabile integrazione del suo essere.
Calata in un rapporto d’amore o nella poesia, l’immagine androgina diventa in ogni caso desiderio di “purificazione” da una materialità sofferente e fastidiosa.
(…)
Dopo il breve accenno al sogno d’amore -la Woolf è meno incline dell’Aleramo a lasciarsi incantare dalla bella “fola”- l’immagine androgina si trasferisce nell’esperienza artistica. Lo stato d’animo più propizio perché possa compiersi “l’atto della creazione” è quello che poggia sul “matrimonio dei contrari”. L’esito di questa “fusione” sembra che si possa riportare indifferentemente sull’uomo e sulla donna: è la creatura “integra” che esce come “terzo” dalla scomparsa dei sessi contrapposti. Ma non è un caso che venga a collocarsi nell’opera di un uomo, Shakespeare, e che il lungo oscuro sforzo che dovranno fare le donne perché rinasca Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare, approdi a un risultato analogo. (L’Aleramo dirà lo stesso di Ibsen, ma subito si accorge della contraddizione di aver proposto come modello per l’esperienza autonoma delle donne la scrittura di un uomo).
Anche la descrizione che la Woolf fa della mente nel suo pieno sviluppo creativo è modellata sull’esperienza maschile: quello che sparisce “consumato”, perché costituisce peso e ostacolo dentro un pensiero che si è fatto “incandescente e indiviso”, è il corpo, la vita emotiva, la sessualità, intesa come coscienza che pensa un sesso “separatamente” dall’altro.
Se questa frattura è problematica e faticosa per l’uomo, che trova comunque altrove luoghi per dare consolazione, accadimento e rassicurazione agli affetti, per la donna significa rinunciare alla sua pretesa di infanzia e all’unico luogo dove, per lungo confinamento, si è formata la sua sensibilità e la sua saggezza.
L’ “atto creativo” visto come “purificazione” comporta la perdita di un retroterra emotivo, fantastico, sessuale, che non si lascia ridurre. A parte le condizioni sociali e culturali di inferiorità che ne ostacolano il talento, la Woolf riconosce nelle donne “istinti contraddittori”, “ostili a questo stato d’animo”, che tuttavia considera fondamentale per potersi esprimere pienamente e liberamente.
(…)
Ciò che la Woolf non vede, e che l’Aleramo nella sua lunga vita viene svelando a tratti, è che per somigliare a se stesse occorre prima decantare l’immagine mitica di perfezione e integrità, e questo mutamento è difficile o impossibile finchè la zona muta, la parte inespressa dell’essere femminile, non trova altra rappresentazione che quella negativa, contrappositiva: oscurità contro chiarezza, materia informe contro forme di un’armonia assoluta. In uno dei frammenti inediti dell’Aleramo, datati intorno al 1904-1910, sono indicati i termini della contraddizione:
“La donna è combattuta tra il proprio oscuro istinto e l’ideale che l’uomo ha foggiato perch’ella lo accettasse senza esame.” (14)
Tra questi due poli oscilla tutta la vita e l’opera (tra loro inscindibili) dell’Aleramo, anche se con la coscienza di oggi possiamo vedere che questo istinto “oscuro” le ha dettato riflessioni di grande lucidità sul rapporto uomo-donna, e che il mito, l’immagine di un’ideale rappresentazione di sé, non è stato in lei così dominante come avrebbe voluto per la riuscita della sua arte, e come le sembrava fosse stato per la Woolf.
(…)
Se è così difficile staccarsi dall’immagine mitica di sé è perché l’ “estasi”, l’androgino inteso come “matrimonio dei contrari”, sta a copertura di una realtà difficile da sopportare: il “duplice limite” relativo a un ordine naturale , imprescindibile, qual è da un lato la diversità di un sesso rispetto all’altro (che vuol dire rinuncia all’indispensabilità, alla complementarità su cui sono costruiti i “generi”), dall’altro l’esistenza singola, circoscritta nel tempo (nascita, morte) e nello spazio (per cui cade l’illusione di potersi fondere con l’altro, o di essere l’altro).
(L.Melandri, “Scrittura e immagine di sé: la mente androgina in Virginia Woolf e il tema dell’estasi negli scritti di Sibilla Aleramo, in Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, a cura di Annarita Buttafuoco e Marina Zancan, Feltrinelli 1988.)

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Nascite e cambiamenti di vita, personale e sociale. Un modo interessante di guardare alla paternità.

Ringrazio Nicola Lagioia per la segnalazione a Radio Tre dell’articolo di Raffaele Alberto Ventura: “Mia figlia, una piccola Apocalisse“.
Un’osservazione: è importante che i cambiamenti non restino nell’ambito delle singole vite, delle loro scelte esistenziali, quotidiane, ma che aprano interrogativi e un nuovo agire politico capace di aggedire un modello di società, che ancora si regge sulla divisione patriarcale del lavoro e su logiche capitalistiche di profitto.
Era questo il significato di due slogan del femminismo ai suoi inizi:
“Il personale è politico”, “Modificazione di sé e modificazione del mondo “.
“Partire da se'” ha significato per le pratiche del femminismo uscire dalla separazione tra privato e pubblico, riconoscere che la vita personale appartiene da sempre alla storia, alla cultura, alla politica, che il cambiamento è prima di tutto prendere cpsv6 dei nessi che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro.
Qualche frammento:
“Molti di noi dividono la loro vita tra il lavoro ‘vero’ e l’esercizio di una vocazione intellettuale, artistica, sportiva o imprenditoriale; ma cosa succede quando nelle nostre vite irrompe un evento che mette in crisi questo equilibrio precario? Ci costringe a mettere ordine tra le nostre priorità”.
“E ora vi guardo con i miei occhi da morto. Ha ragione l’amico scrittore: sicuramente i genitori sono vittime di una mutilazione, come se un pezzo del loro corpo fosse asportato e ora vivesse di vita propria. Le donne più ancora degli uomini, in maniera concreta e sconvolgente: tant’è che al contrario della madre in questa prima settimana io riesco ancora a trovare il tempo, tra un acquisto dell’ultima ora e l’altro, per giocare all’autofiction (…). A nessuno viene in mente, tranne forse ai militanti dell’ISIS, che essere ‘mutilati’ è precisamente quello di cui noi borghesi occidentali abbiamo bisogno. Ecco perché la paternità ha smesso di farmi paura: tutto quello che avrei rischiato di perdere, di fatto, era proprio quello che ‘dovevo’ perdere.”

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Cara Laura Boldrini

Cara Laura Boldrini,
Leggo oggi su Repubblica (10 giugno 2016), a proposito della impressionante sequenza di omicidi di donne, la sua indignazione e il suo giusto richiamo perché “Dai politici alla Tv, ognuno faccia la sua parte”.
Mi permetta di obiettare.
In questo Paese, che lei chiama a mobilitarsi in tutte le sue componenti, politici e tv -ma io aggiungo intellettuali, opinionisti, scrittori, professionisti,ecc.- la loro ‘parte” , riguardo alla barbarie perdurante nella relazione tra i sessi, l’hanno sempre fatta, ed è stata quella di passare sotto silenzio per non dire di osteggiare apertamente, il pensiero, le pratiche, l’impegno volontario, nati da quasi mezzo secolo di femminismo.
All’occorrenza si è parlato di “silenzio del femminismo”, quando serviva per una qualsiasi causa politica che le donne scendessero in piazza. Ma per il resto si è preferito decidere che fosse “muto” o “defunto”, pur di non aprire uno spazio e dare voce all’ unica cultura che in Italia ha scavato e continua a scavare a fondo in un dominio del tutto particolare, come quello maschile, che passa attraverso le vicende più intime, come la maternità e la sessualità, e che forse proprio per questo vede perversamente intrecciati amore e potere, amore e violenza.
Non parliamo poi della marginalizzazione a cui vanno incontro i centri antiviolenza, come conseguenza del “Piano straordinario d’azione”, appena approvato, che li nomina a malapena, come servizi sociali, Terzi settore, e non come i luoghi che hanno esteso da decenni all’accoglienza e alla tutela delle vittime la pratica di ascolto che è stata dell’autocoscienza, la difesa dell’autonomia e delle consapevolezze nuove venute d movimento delle donne degli anni ’70.
E infine: se vogliamo che siano gli uomini a rendersi conto che questa violenza “li riguarda”, in quanto legata alla storia e alla cultura del maschile come “genere”, perché non dare la visibilità che meritano alle associazioni come “‘Maschile Plurale” che da decenni si interrogano sulla “virilità”, su ciò che gli uomini hanno da guadagnare e non solo da perdere dalla libertà delle donne?
Questa è la “parte”, l’assunzione di responsabilità che molte di noi, femministe di diverse generazioni, pazientemente rabbiosamente aspettiamo da tempo.
Lea Melandri