Aborto. La grande ossessione dell’immaginario maschile…

“Si discute molto in questo momento della scelta di fare o non fare figli, e della violenza quotidiana che subiscono le donne per lo più da parte di uomini con cui hanno intrattenuto legami amorosi e famigliari. Come si fa a non vedere il legame fra due questioni di primo piano nel rapporto tra i sessi e il ritorno di quella grande ossessione della cultura maschile più conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne, che è l’interruzione volontaria di gravidanza?

La grande ossessione che attraversa la storia fin qui conosciuta del rapporto uomo-donna è chiaro che riguarda essenzialmente la maternità, vista come destino naturale o obbligo procreativo per la donna: madre sempre e comunque, anche quando è solo moglie, figlia, sorella, compagna di vita; snaturata se non fa figli o se li uccide allo stato embrionale, ma anche se decide di abbandonare il luogo dove l’uomo si aspetta di trovarla -la casa, la famiglia, la cura del suo benessere e del suoi interessi.

La violenza maschile ha molti aspetti –da quelli più selvaggi e manifesti a quelli più invisibili, che si ammantano di sacralità e rispetto dei più alti valori umani- , ma un obiettivo sempre più evidente: impedire che le donne trovino il senso della propria vita in se stesse, e non nell’essere al servizio o in funzione dell’altro, nel rifiuto di conformarsi a modelli che contrastano coi loro desideri, a essere, come sono sempre state un «mezzo per un fine», nella sessualità come nella procreazione e nelle forme più elevate dell’amore.”

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‘Amore’, di Stefano Levi Della Torre

Cominciamo dall’alfabeto dei sentimenti primari…

Che possibilità hanno di entrare nella scuola i libri che nascono a seguito della rivoluzione culturale del femminismo sui temi del corpo, della sessualità, della maternità e dell’amore?

Un libro interessante, a questo proposito:
Stefano Levi Della Torre, “Amore”, Rosenberg & Sellier, Torino 2013.

Frammenti

“Ci si può innamorare per il desiderio di essere amati, o anche per il bisogno inesauribili di sentirsi amati. La psicologia e in particolare la psicoanalisi hanno fatto luce su una stimmate originaria, più o meno sanguinante in ogni essere umano: la ferita inevitabile subita nell’infanzia dal nostro desiderio di essere infinitamente amati, desiderio che si scontra col fatto che la prima dispensatrice reale immaginario di questo amore, la madre, non è parte di noi ma è persona distinta , capace di assenza e di imporci confini.
Questa disillusione è un viatico che ci apre alla realtà del mondo, alla realtà dei nostri limiti e della nostra separatezza individuale, e resta un rumore di fondo doloroso di ogni nostra esperienza affettiva.
E’ la disillusione in agguato che può trasformare la libertà del nostro desiderio nella schiavitù di un bisogno. Sì che siamo spesso portati a chiedere amore a chi ce lo nega (almeno nel’infinito che vorremmo), quasi a ritornare in un “gioco dell’oca” a quella casella di partenza per rilanciare i dadi, sperando in un altro esito che smentisca quella ferita iniziale e ci guarisca per sempre.”

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Crisi della paternità o dell’ideale virile?

E’ mia abitudine fare maggiore attenzione a ciò che rimane invariato nel tempo, piuttosto che ai cambiamenti. Perciò ho letto con piacere la lettera-editoriale di Barbara Stefanelli sul “Corriere della sera” ( 19 marzo 2016), dedicato ai “nuovi padri”, “presenti e responsabili”fin dai primi anni nella vita dei figli, ma il mio interesse è stato sviato immediatamente dall’articolo di Luigi Zoja che, sullo stesso tema, lo affiancava.
Posso essere d’accordo su alcuni aspetti della sua analisi: crescita dei divorzi, delle separazioni, nascite fuori dal matrimonio, aumento delle donne singole con figli, eclisse delle figura paterna e conseguente comparsa di forme di aggregazione maschile simili al branco primordiale.
La crisi della famiglia è vista da Zoja fondamentalmente come “assenza del padre” e ritorno al modello del “maschio competitivo”: l’orda barbarica, il bullismo.
Il padre, di cui si lamenta la mancanza, è ancora quello tradizionale, garante della crescita del bambino, sia dal punto di vista educativo che culturale., un ruolo molto lontano da quello del “mammo”, addetto solo all’ “accadimento corporale” del figlio.
Della figura femminile -la madre- non si fa parola, ma è chiaro da tutto il discorso che siamo nell’ordine della complementarietà, a cui sembra oggi fare sempre più difetto uno dei due poli dell’antica dialettica.
Neppure una parola sul paradosso della quasi esclusiva presenza di donne nella scuola, dall’asilo fino alle soglie dell’Università: madri-maestre, figure ibride, funamboliche, a cui si chiede di trasmettere un sapere creato da altri, di “disciplinare corpi”, essendo state esse stesse considerate corpo, natura, materia senza forma propria.
L’incremento del numero delle donne single non è di per sé indicativo di una messa in discussione del ruolo tradizionale di madre che potrebbe, al contrario, uscirne rafforzato, ma del rifiuto sempre più consapevole da parte femminile di assumersi la cura e il sostegno di un marito-figlio: un adulto da loro dipendente al di là del reale bisogno e a discapito della sua stessa autonomia.
Se dietro l’eclisse del padre-padrone emerge oggi l’orda selvaggia dei figli, è perché questi due volti del maschile in realtà non sono mai stati separati, costretti a convivere, come Giano Bifronte, dal confinamento della donna nel ruolo di madre, potenza dominata storicamente ma al medesimo tempo dominatrice nelle cure e negli affetti domestici.
Parlare di padri come “simbolo positivo”, che è venuto a mancare, vuol dire non tenere conto di quel salto della coscienza storica che è stato portare allo scoperto il rapporto uomo-donna, ripensare le costruzioni del maschile del femminile alla luce della divisione sessuale del lavoro, dell’identificazione della donna con la natura, della separazione tra privato e pubblico, della maternità come obbligo procreativo.
Non è la paternità che è oggi in crisi, ma l’”invenzione della virilità” per quello che ha significato nel corso dei secoli, sia come rapporto di potere, sia come perverso funesto intreccio di amore e violenza.
Nella foto: Giano bifronte- Palazzo Magnani- Reggio Emilia

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‘La maternità è l’oppio delle donne’

Un ottimo articolo di Erica Vecchione.
“Legare la donna al figlio che andrà a partorire vuol dire incatenarla in una prigione dorata, significa promuoverla per rimuoverla.”
Mi permetto di aggiungere che il “sacrificio” che una madre fa della propria vita a un figlio pesa come una croce o comunque come un debito inestinguibile sulle spalle del figlio stesso.
Prigionieri entrambi di un vincolo biologico diventato destino per la coppia madre-figlio, e purtroppo modello di appartenenza intima a un altro essere anche nella relazione amorosa adulta.

Articolo pubblicato su Il fatto quotidiano, 4.II.2017, per leggerlo clicca qui

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‘Il mestiere più antico del mondo’

Ho conosciuto Gabriella Pacini in questi giorni al Laboratorio di scrittura di esperienza tenuto a Roma alla Casa internazionale delle donne, ma solo ora leggo con emozione questo suo testo nella trasposizione teatrale che ne è stata fatta e che spero di poter vedere presto a Milano.
Come ostetrica, Gabriella ha potuto osservare e riflettere sulla violenza, che resta ancora poco dicibile per la retorica di cui è ancora avvolta la maternità, sulle donne in una sala parto.
“Mi ricordo il primo turno, ho cominciato con una notte. Si stava dalle nove la sera fino al mattino alle sette, senza fermarsi un attimo. Eravamo sei allieve e quattro ostetriche per ogni turno, la più anziana era la capo ostetrica e comandava tutte quante. La sala travaglio era una grande stanza con sei letti e un soffitto alto con dei neon grigi e sporchi che ce li facevano sembrare ancora più alto e triste. Era d’estate, si sentivano le cicale e faceva un caldo terribile, da mancare l’aria. Le donne erano tre per ogni lato, ognuna con la sua storia: da una parte c’era quella che aveva appena iniziato con i dolori e ci guardava con aria spaventata sentendo le urla della poverina che era già nella sala parto lì accanto. Su un altro letto c’era una che piangeva perché le era morto il bambino dentro e adesso le toccava anche di partorirlo, morto, e non si capiva se piangeva di più per la creatura che era morta o per la paura di passare tutti quei dolori…”

Clicca qui per vedere il video 

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Il Festival “italiano” per eccellenza e l’incentivo alla maternità: come non pensare a una forma sia pure lata di “nazional-fascismo”?

Il FERTILITY DAY in versione ROCKY HORROR PICTURE SHOW.
A che servono tanti Osservatori sulla pubblicità, Associazioni di giornaliste, studi e pubblicazioni sugli stereotipi di genere, e così via, se poi si lascia passare uno spot come questo, dove si mescolano con una volgarità senza limiti spettacolo, business e incentivo governativo contro il calo delle nascite?
Da togliere immediatamente!

Per leggere la fonte, da ‘Il Manifesto’, clicca qui

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”Madri snaturate?”

E’ fin troppo facile accanirsi contro la madre che uccide un figlio, finché si considera la donna spinta da un “naturale” istinto materno all’amorosa cura dell’essere che ha messo al mondo. Più difficile interrogarsi di quali cambiamenti, conflitti, sofferenze e sentimenti ambivalenti è fatta la maternità, vissuta spesso in solitudine anche nell’ambito famigliare.

Articolo pubblicato su Zeroviolenza il 10 dicembre 2014, per leggerlo clicca qui

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‘Perchè la libertà delle donne fa tanta paura?’

‘Lea Melandri: Quali poteri ha visto l’uomo nel corpo femminile da temerne la ricomparsa dietro le libertà che le donne vanno conquistando? Si può ipotizzare che, nell’attribuire alle donne come destino naturale la sessualità e la maternità -perché questo è il retaggio della cultura greco-romana-cristiana-, l’uomo abbia fissato l’esperienza che ha fatto da bambino rispetto al corpo che l’ha generato.’

Articolo pubblicato il 17.XI.2016 su Tysm – Philosophy and social criticism, per leggerlo tutto clicca qui.

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‘Quelle madri pentite di aver avuto figli’ di Stefania Prandi

“Pensieri, per quanto inconfessabili, più comuni di quanto si creda, ci racconta Francesca, 38enne insegnante bolognese con un bambino di un anno. «Siamo in molte a chiederci se ne sia valsa la pena. Io non ho mai sentito la vocazione, se così possiamo chiamarla, ma poi un giorno ho pensato che forse mi stavo perdendo qualcosa, e così mi sono buttata. Non è che io non voglia bene a mio figlio, lo amo tantissimo, ma anche se ho un marito tutto grava sulle mie spalle, perché io sono la madre». Ilaria, 36enne, ricercatrice, una figlia di tre anni, ci confessa che non si aspettava «tutto questo peso addosso”.
«Abbiamo questa immagine di madre che ci viene passata dalle canzoni, dal cinema, dalla pubblicità, che prevede che per i figli ci debba essere amore abnegato, totale e assoluto. La verità, però, è che non per tutte è così perché siamo persone e la nostra individualità fatica a coesistere con l’immagine della mamma perfetta. Quando proviamo sentimenti contraddittori ci sentiamo in colpa, e non possiamo nemmeno parlarne pubblicamente perché veniamo tacciate di egoismo e irresponsabilità».

Da ‘Quelle madri pentite di aver avuto figli‘ di Stefania Prandi, pubblicato il 23 ottobre 2016 su Pagina99

Articolo in spagnolo su Orna Donath

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Sacrario erotico. La coppia madre-figlio nell’immaginario maschile

La coppia madre-figlio, su cui si può ipotizzare si siano costruite le figure della dualità -femminile/maschile, biologia/storia, corpo/mente, ecc.-, nonostante i cambiamenti che ha subito nel corso del tempo e ad opera di culture diverse, conserva i segni di un amore che si è configurato fin dall’origine indisgiungibile da un atto di guerra: il ‘desiderio primordiale’ del figlio di tornare a fondersi col corpo della madre si è convertito storicamente nel dominio dei padri, nell’imposizione di un modello unico di sessualità, penetrativo e generativo, impugnato come un’arma in difesa dell’identità maschile. Il luogo da cui si origina la vita è diventato teatro della più feroce e più duratura legge di sopravvivenza -morte tua, vita mia-, anche se non sempre la nascita del figlio ha comportato la morte fisica della madre, ma quella morte di sé che è il sacrificio del proprio desiderio, dei propri interessi, della propria esistenza come persona.
L’onnipotenza attribuita alla madre, come corpo che genera da sé e che può riprendersi in ogni momento la parte che si è da lei separata, ha il suo corrispettivo in quella del figlio che, capovolte le parti, torna da adulto a celebrare la ‘vittoria sul trauma della nascita’, occupando una terra che considera propria, carne della sua carne.
Se i contadini del mio paese –come di tutti i paesi del mondo- si vantavano al bar di aver messo incinta le loro mogli, Sàndor Ferenczi, uno dei più interessanti allievi di Freud, nel saggio Thalassa (1924), introduce suggestivi scenari marini per attribuire al coito la certezza dell’uscita da pericolose acque materne:
“Allorché, con l’eiaculazione la lotta finisce, la secrezione si separa dal corpo dell’uomo, ma in modo tale che questa secrezione si trova messa la riparo in un luogo sicuro e appropriato, all’interno del corpo femminile. Tuttavia, questa sollecitudine ci induce a supporre che vi sia anche un processo di identificazione tra la secrezione e l’Io: in tal senso il coito potrebbe fin d’ora implicare un triplice processo identificatorio: identificazione dell’intero organismo con l’organo genitale, identificazione con il partner e identificazione con la secrezione genitale…tutta questa evoluzione, comprendente quindi anche il coito, non può avere altro scopo se non un tentativo dell’Io di tornare all’interno del corpo materno, situazione nella quale la frattura così dolorosa tra l’Io e il mondo ancora non esisteva…Nell’atto sessuale non si tratta semplicemente di deporre in luogo sicuro il prodotto della secrezione, ma anche dell’instaurarsi di uno stretto rapporto tra questo atto e la fecondazione.”
Abituati come ormai siamo, dalle tecnologie riproduttive, a parlare di spermatozoi e ovociti, gameti e embrioni, come fossero persone, la “favola filogenetica” di Ferenczi, che vede nel “membro virile” un “piccolo Io in formato ridotto”, spinto dalla nostalgia a tornare alla sua dimora originaria, e a riattraversarla per essere sicuro della propria nascita, non può che fare tenerezza.
Non sfugge a Ferenczi l’aspetto “cruento” del coito: la lotta di due avversari che tentano di “forzare l’accesso al corpo dell’altro”, le armi che garantiscono il privilegio maschile, le compensazioni dietro cui la donna nasconde la sua sconfitta.
Difficile trovare una definizione più realistica della vicenda che ancora oggi unisce e contrappone un sesso all’altro -“una grandiosa lotta il cui esito doveva decidere su quale dei due dovessero ricadere le cure e le sofferenze della maternità, nonché il ruolo passivo della genialità”-, e delle sue conseguenze psicologiche -“la donna possiede una saggezza e una bontà innate superiori a quelle dell’uomo, in compenso l’uomo deve contenere la propria brutalità sviluppando maggiormente l’intelligenza e il super-Io morale”.
La ‘naturalizzazione’ del rapporto tra i sessi affiora oggi vistosamente sulla scena pubblica come riduzionismo biologico, e trova al suo fianco l’alleato di sempre: la religione. Ma, insieme al fondamento ideologico di un dominio divenuto ‘senso comune’, struttura portante e indiscussa di tutte le civiltà costruite dall’uomo, si va facendo strada anche la consapevolezza della centralità che ha avuto finora la coppia madre-figlio nello sviluppo della storia umana.
In una insolita ‘scrittura di esperienza’ -Arnaldo Bressan, Esercizi laterali di piacere (edizioni del leone 1993)- il legame tra sessualità e fecondazione svela l’immaginario che lo sorregge, il desiderio incestuoso che impronta la vita sessuale adulta, piegando la relazione tra uomini e donne verso quel primo corpo a corpo che formano insieme la madre e il figlio.
“Partorire, sì. Ma allattare, Francisca: inturgidirsi, ergersi, penetrare!…sentirsi venir meno di languore nel salire ed eiacularsi del suo latte: denso e lento, o chiaro e sottile, seme amoroso tra verginali labbra cieche e fameliche, contro una gola che esige da lei -con unghie convulse e schiumose gengive- il solo rapporto incestuoso e omosessuale considerato naturale, consentito da tutti e glorificato da millenni (anche se le Madonne che allattano, sicuramente per il loro aspetto troppo conturbante, sono assai meno frequenti di quelle in stato di frigida quiete rispetto al
Combattere solo con le armi della razionalità la feroce, impietosa misoginia che anima le campagne contro l’aborto, che non sembrano mai del tutto sconfitte, non servirà a molto, se non si comincia a scalfire l’immaginario con cui raccolgono consenso, ma soprattutto se non si mette in discussione il dominio che l’uomo gli ha costruito sopra.

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