Sull’opera lirica

“Più vicina alle ragioni profonde del cuore, e sostenuta dal linguaggio dotto della musica, l’opera lirica si muoveva indifferentemente tra i grandi teatri cittadini, le impalcature innalzate all’aperto dentro la cornice scenografica del Pavaglione di Lugo, e il più modesto Teatro Corelli di Fusignano.

Dietro paludamenti solenni, che davano a un dramma quotidiano la misteriosita’ di un evento fatale, la romanza conosceva la strada dei campi come la canzonetta, e se i bar del paese straboccavano per il Festival di San Remo, nelle case isolate dei dintorni un religioso gruppo infreddolito si stringeva intorno alla radio che trasmetteva l’opera, il sabato sera.

Personaggi famigliari a chi non aveva trovato posto nella famiglia della storia, la Traviata, il Trovatore, Aida e Madama Butterfly, venivano a coprire un vuoto di memoria, e a un ascoltatore rassegnato al silenzio parlavano la lingua tragica dell’origine.

Preziosa eredità per l’esule di una patria troppo ricca e troppo avara, la voce della lirica conforta una memoria lenta e ricalcitrante, e dissuade la corsa di un pensiero ostile agli umori caldi del corpo”

*da L.M. “Alfabeto d’origine” Neri Pozza (di prossima pubblicazione)

Le orme della scrittura

(Frammenti da un’intervista di Giovanni Zaccherini, pubblicata su “La voce di Romagna”, 14/12/2012)
Quando penso ai 25 anni che ho trascorso in Romagna, alla condizione di povertà, fatica e violenza in cui vivevano allora le famiglie contadine, mi sembra di aver vissuto un’altra vita, fatta di un tempo infinito e di orizzonti lontani solo presentiti, oltre la riva di un canale o un filare di viti. Non posso dire di averne riportato solo dolore e ferite profonde. Quando parlo di “memoria del corpo”, di sedimenti emotivi, immaginari, che non riescono neppure a diventare ricordi, ma che ci sono e muovono pensieri, stati d’animo, sbalzi inaspettati di umore, penso a quella radice di terra, temprata da donne e uomini di straordinaria vitalità, pur costretti a lavori servili, capaci di passare dalla zappa al ballo, dall’ira alla battuta di spirito. Delle donne conosciute allora ho portato con me un’idea contraddittoria, confusa, su cui ho avuto modo di riflettere solo in seguito alla luce della consapevolezza nuova che mi veniva dal femminismo. Le sentivo forti più dei loro mariti e padri, per certi versi emancipate, nel lavoro, nella sessualità, eppure sottomesse, sottoposte a maltrattamenti, lucide e impietose nel mettere allo scoperto le debolezze e la violenza maschile, ma sentimentalmente inclini a perdonarli e a sostenerli, come si fa coi bambini.
(…)
Non c’è dubbio: il passaggio dal dialetto, la lingua parlata in famiglia, all’italiano imparato a scuola, ha provocato fin dalle elementari una separazione destinata a durare tra la fisicità dominante, per la classe sociale e il sesso “senza storia” a cui appartenevo, e un pensiero che non poteva raccoglierla, tradurla nei linguaggi colti della letteratura, dell’arte, della filosofia. Il dualismo, corpo-mente, natura-cultura, è diventato non a caso il filo conduttore di tutta la mia formazione intellettuale. Il mondo emotivo, legato alla mia infanzia e adolescenza è rimasto in gran parte consegnato al dialetto, e ho invidiato il mio amico, compaesano, Giuseppe Bellosi, che di quella nostra prima lingua è riuscito a fare opera poetica. E’ come se avesse scritto anche per me.
Non posso dire tuttavia che il corpo, le passioni non siano entrate nella mia scrittura. Avvicinare la parola al vissuto corporeo è stato un desiderio costante del mio percorso intellettuale, un po’ come ritrovare radici di terra troppo violentemente strappate, e ha comportato una lunga riflessione su me stessa, una ricerca di anni. E’ stato solo nel corso della terapia analitica che ho fatto negli anni ’80, che ho sentito la mia scrittura cambiare, il pensiero teorico lasciarsi contaminare da spinte emotive, la chiarezza del ragionamento dalla densità sentimentale dei ricordi. E’ stato in quegli anni che ho scritto il mio libro più “lirico”, anche se si trattava di una scrittura saggistica: Come nasce il sogno d’amore. Del resto, l’idea di uscire dai dualismi che ci hanno tenuto divisi in noi stessi, è la lezione più originale del femminismo. Il desiderio di ritrovare l’interezza del proprio essere non poteva che partire dalle donne, che col corpo sono state identificate, ma di cui hanno subito al medesimo tempo una violenta espropriazione.
(…)
Ho detto spesso che i miei libri nascono “strada facendo”. Non so cosa vuole dire mettersi a tavolino, avere un’idea in mente articolata in capitoli, comporre le argomentazioni secondo un ordine prestabilito. Forse questo fanno gli studiosi. Io ho avuto la fortuna di non avere una formazione accademica, anche se ha fatto l’università, e di aver cominciato la mia scrittura pubblica con un movimento antiautoritario che mi permetteva di fare della vita, dell’esperienza personale, non più il “fuori tema”, come era stato al liceo, ma “il tema”. Mi considero una pensatrice libera, solitaria e socievole tanto da poter tenere insieme una pratica politica fatta di incontri, riflessione collettiva, e momenti in cui il pensiero torna sui propri passi, e ritrova il silenzio necessario per scavare nel profondo della vita personale, inseguendo quei tracciati remoti che accompagnano l’individuo come un destino. Se per un verso il mio impegno nel movimento delle donne mi ha portato ad allargare sempre di più il cerchio delle amicizie, degli interessi, delle conoscenze, gli scritti –relazioni, articoli, saggi-,
per quanto all’apparenza occasionali, a guardare bene rientrano sempre in qualche modo nel loro “solco” antico. Sono rimasta la figlia del contadino, che aiutava i famigliari nella semina, che sognava le strade del mondo ma poi si rintanava dentro le braccia protettive degli alberi.

Foto di Cesare Ballardini

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Ad Anna Maria Fabbrichesi

A una donna a cui va la mia gratitudine e il mio ricordo duraturo – Anna Maria Fabbrichesi-. con cui ho fatto una lunga analisi negli anni ’80 e che ci ha lasciato alcuni anni fa.
Era il giorno del mio compleanno e non ho potuto fare a meno di pensare a quella coincidenza con particolare emozione: la lunga analisi che ho fatto con lei è stata una nuova nascita, alla vita e alla scrittura.
Un frammento, a lei dedicato, è contenuto nel libro Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1988) scritto mentre ero in analisi.
“Alla mia analista
Pensieri duri come sassi e teneri come fiori, anni di gelo che si sciolgono nel tempo di un’ora sotto il calore di una coperta.
Si può sognare il caldo e avere freddo ai piedi.
Ma il caldo che ho sentito oggi è reale come il denaro che pago per non dover solo sognare.
Soffriamo per aver riservato il piacere alle madri.
Ma non sappiamo di aver invidiato il dolore.
Tra due letti vicini c’è un muro di tosse e catarro che si vomita in mezzo.
Io vedo lontano, all’indietro, lei guarda al presente, o più avanti.
Ma se allungo una mano la posso toccare.”
( 25. 2. 1982)
Nella foto: le scritture di Lisetta Carmi

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Prove di memoria

(da “Il gallo silvestre”, n.4, edizioni barbablu, 1992)

Ho piantato fiori nel deserto e come un contadino impazzito ho aspettato che i sassi mettessero radici e gli alberi generassero frutti senza terra.

Parole rade come piedi esitanti nella nebbia ridisegnano il sentiero che porta fuori da uno smarrimento.

Per una ferita leggera che ha sollevato il velo di un male antico
non bastano le cure delle lacrime né il calore di un letto
se non torna benevola a fasciarla l’abbraccio del pensiero.

(Milano, 8/1/1989)

Foto di Cesare Ballardini

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I regali di internet: ‘Pur che tutti ridano’ di Gastone Monari

Ho trovato su Internet, non senza emozione, la segnalazione del libro di Gastone Monari, “Pur che tutti ridano”, il titolo che suggerii io alla casa editrice Feltrinelli, a cui avevo fatto avere il manoscritto dopo la sua morte.

Gastone Monari è stata una presenza decisiva nella mia vita. Senza di lui forse non sarei riuscita a fuggire dal paese, dove entrambi siamo nati, a raggiungerlo a Milano, dove era approdato dopo il primo tentato suicidio e dove era appena morta la madre. Omosessuale, in tempi in cui si doveva ancora nasconderlo, Gastone ha vissuto insieme a me l’inseguimento dei parenti, per poi condividere la casa dove, due anni dopo, nel febbraio del 1969, l’avrei trovato morto, tornando come ogni giorno da scuola. Due vite che si sono sorrette a vicenda in un passaggio esistenziale tragico ed esaltante al medesimo tempo, di cui resta testimonianza nelle quaranta lettere che ci siamo scritti, prima che io riuscissi a prendere un treno per Milano, la mattina che decisi di lasciare due famiglie e il liceo in cui ero appena entrata di ruolo.
Ringrazio chi mi ha riportato a una memoria, che ho considerato finora indicibile, e ha dato a Gastone Monari il riconoscimento poetico che merita.

La segnalazione è sul blog blanc de ta nuque in data 31 gennaio 2007, ma visto che nel blog il testo risulta illeggibile, lo riporto qui per intero.

“Pur che tutti ridano” uscì per le edizioni Feltrinelli nel 1973. Scriveva Aldo Tagliaferri nella prefazione:

“L’esistenza (come concretezza e complessità irriducibili cui la letteratura può solo asintotticamente approssimarsi) e la rivoluzione marxista (come unica autentica ragion d’essere per l’arte) costituiscono per la nuovissima poesia italiana due riferimenti necessari, esterni e, tuttavia, costitutivi. Da questa reale contraddizione ci sembra discendere l’opportunità di proporre una presentazione critica di un poeta come Monari con almeno qualche significativo cenno agli obbligatori rinvii: il tragico individuale, e la sua collocazione nella prospettiva politico-culturale. […]
Gastone Monari si è ucciso a 27 anni, nel 1969. Attento lettore di alcuni dei poeti novissimi (in particolare di Nanni Balestrini, del quale si può in parte considerare un discepolo), ammiratore di alcuni musicisti contemporanei (Cage, Chiari, Bortolotto, Donatoni) e compositore musicale egli stesso, ha respirato a fondo l’atmosfera dell’estrema avanguardia, con tutte le sue contraddizioni e lacerazioni.
Non sembra tuttavia che il suo suicidio possa essere interpretato a partire dalla pur drammatica problematica di arte e rivoluzione. Il segreto di quell’estrema scelta giace senza dubbio infondo a quell’analisi psicoanalitica che aveva intrapresa per chiarificare e arricchire la sua personalità. Non è ovviamente questa la sede opportuna per avanzare una interpretazione clinicamente attendibile. Tuttavia riteniamo che qualche elemento di essa, che ci appare più evidente, possa utilizzarsi per la comprensione di certe ricorrenze sintagmatiche presenti nelle composizioni che stiamo presentando, le uniche che egli abbia lasciato con autorizzazione alla pubblicazione, insieme a pochi altri scritti e a alcune lettere.
Il morboso attaccamento alla madre (due anni dopo la morte della quale egli si uccise) risaliva in Monari a una vera e propria identificazione con la figura di lei; e a questa identificazione è fin troppo facile addebitare quell’omosessualità che fu per lui origine di angoscia. Di questa identificazione, e del presagio di suicidio, sono reperibili nelle sue lettere diverse testimonianze. Poco prima della morte della madre egli scriveva: “Perché se non ci sarà più mia madre, quale sono ora certo non ci sarò più anch’io.” E, poco dopo: “Questa morte, questa morte mi è preziosa, l’ho interiorizzata.” […]
La raccolta, che si articola in 11 parti, per lo più segue rigorosamente un metodo combinatorio abbastanza vario e complesso, che certamente trae lo spunto da Come si agisce di Balestrini. Molte invenzioni grafiche e combinatorie sono tuttavia nuove e inedite, e altre si rifanno alle più lontane lezioni di Apollinaire, o del Surrealismo. Il metodo è abbastanza noto. Si tratta di partire da uno o più contesti più o meno referenziali, propri o altrui (la loro scelta costituendo un residuo di intervento soggettivo dell’autore), di frantumarli in sintagmi o serie di brevi gruppi di parole, e di costruire poi con questi frammenti o del tutto casualmente (con ricorso al cervello elettronico, per esempio, come nella poesia di Balestrini, o all’ I-Ching, come spesso nella poesia di Monari) o seguendo qualche norma o suggerimento del gusto, un nuovo contesto. […]”

FALLOFORIA 4.2

fuma la comparsa da nuda olivastra in frammenti ro-
sseggienti mangia in piedi del tabacco coi capelli
vortica se beve gli altri rifiutano il co-
ntatto con qualsiasi oggetto restano immobili per un tempo
più o meno lungo qui la dottoressa ne accende una
al paziente e cosi volute di farfalle dalle labbra
a punti verdognole dalla velina sulla punta olivas-
tra volute brune sfuggite alle labbra argentato ai
margini vortica mostrandosi olivastro prima che br-
uno ma prima ancora rosso umido quindi verdognolo
subito e nuovamente bruno come ballerino dalla cen-
ere si avvicina ai pazienti che mangiano sotto la
continua caduta delle farfalle rosse e bevono pure
oh se al bambino giallo di pipì e di pelle olivast-
ro la dottoressa umida e rossa per quel giallo acc-
omunàtasi alle violacee farfalle coi capelli al ba-
mbino prescrivesse una dieta così dimagrisce quel
brunetto prima il bambino e la dottoressa stanno a-
nche per un’ora senza parlare senza muoversi non è
un personaggio minore questo paziente così bambino
che col bambino giallo di pipì violaceo per lo sfo-
rzo inghiotte anche la cenere pur che tutti ridano

SOLUZIONE

o la fiamma o la tiara del papa con la croce che poggia sull
a bocca vicina alla rientranza dove c’è l’ano e che quindi è
la vagina rovesciata con i piedi della figura che toccano l’
altra faccia crociata col mento diviso in due e la bocca anc
ora più grande è una testa con la barba l’altro piede è nasc
osto dalla testa della bambola gli occhi tondi la bocca da b
ambino con la collana e col pendaglio senza breccia dà un se
nso di terrore perché è mostruosamente infantile e c’è un’os
cenità dolorosa buono e cattivo uniti nei contorni setolosi
cioè alla linea è sovrapposta una grata di peli di ferro com
e nei disegni che da bambini non abbiamo mai fatto.

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La rivoluzione che viene dagli archivi

Un documento scritto dal gruppo femminista “Il cerchio spezzato” dell’Università di Trento, nel 1971, portava come titolo “Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna”, e si apriva con una lucida messa in discussione del movimento studentesco e dei successivi gruppi politici, cominciando dalla modalità con cui si tenevano le assemblee.
“I gruppi di lavoro politici hanno riverificato la nostra sistematica subordinazione…L’analisi delle assemblee ci ha portato a vedere una élite di leaders, una serie di quadri intermedi maschili e una massa amorfa composta dal resto maschile e da tutte le donne”.
“L’attribuzione alla donna e all’uomo di un determinato ruolo è del tutto essenziale, sia al funzionamento materiale del meccanismo capitalistico (proprietà privata) sia al suo sistema di valori. Questo sistema di valori è cresciuto come esaltazione dello spirito di impresa, come gusto e culto della violenza e della forza, come supremazia del ‘maschile’ che ha bisogno, come si è visto di trovare in una concezione del ‘femminile’ la sua legittimità e la sua fondazione stessa. Un’azione nella sfera privata, a nostro avviso, è dunque strategicamente fondamentale per dare concretezza alla rivoluzione culturale, per cambiare cioè profondamente l’uomo. La famiglia è uno dei primi obiettivi di lotta. La personalità dell’individuo è infatti innanzitutto la storia dei suo adattamento ai modelli e ai valori culturali della società in cui vive. Fin dalla nascita l’esempio, le credenze, le abitudini degli altri membri della comunità plasmano la sua esperienza ed il suo comportamento. E la famiglia in particolare è organizzata in modo da rendere possibile la socializzazione attraverso l’esempio e la coercizione dei membri in ruoli ben definiti…La nostra cultura basa tutti i suoi ruoli sociali sul rapporto di potere perpetuato dalla famiglia e fa dell’appartenenza a un sesso piuttosto che all’altro il simbolo primario, esemplificativo, di tale rapporto.” (Manifesto del Gruppo Demau, Milano 1966/67).
. E’ vero che recentemente si è tornato a parlare di famiglia, ma lo si è fatto a proposito delle ‘unioni di fatto’, come richiesta di leggi, riconoscimento di diritti civili, e solo marginalmente come messa in discussione di quel concetto di ‘naturalità’del matrimonio che cristallizza, nella nostra Costituzione, sia il compito primario di riproduttrice della donna -e quindi la divisione sessuale del lavoro-, sia la normatività della coppia eterosessuale.
Politiche sociali e politiche famigliari ancora si muovono sull’equivoco che la ‘conciliazione’ di casa e lavoro extradomestico sia un problema ‘femminile’, come se la maternità fosse una malattia particolare che ha bisogno di tutela, e il lavoro domestico, il lavoro di cura prestato a bambini, anziani, ma anche mariti, padri, fratelli in perfetta salute, la ‘naturale’ disposizione femminile, a cui si richiama insistentemente la Chiesa.
“E’ dalla famiglia, in particolare dal lavoro gratuito delle donne, che i detentori di potere economico ricavano enormi profitti risparmiando servizi sociali e sfruttando due lavoratori con un solo salario: l’operaio e sua moglie…le ore lavorative per le donne, oltre alle prestazioni domestiche, hanno anche il ‘privilegio’ del lavoro extradomestico. Nessun operaio lavora altrettanto. Inoltre, l’operaio è pagato, la casalinga no. L’operaio può scioperare, la casalinga no…Ma soprattutto, questa famiglia nucleare è la cinghia di trasmissione dell’oppressione sociale da una generazione all’altra. La condizione subalterna della donna si perpetua infatti attraverso la famiglia che prima inculca nelle bambine la pseudo-vocazione di casalinghe e di madri, e poi sospinge le ragazze alla ricerca di un marito e infine inchioda le donne adulte al ruolo di fornitrici non retribuite di servizi…La famiglia è in realtà il centro dove le frustrazioni dei coniugi si scontrano e si proiettano sui figli, produce individui prepotenti con i deboli e remissivi con i forti, incapaci di ribellioni razionali…Questo tipo di famiglia va demolito.” (Fronte Italiano di Liberazione Femminile, 1970).
(Stralci da un articolo pubblicato su “Liberazione”, 5/12/2007)

Una lucida follia

Stralci di un percorso personale e politico
La centralità che ha avuto il tema dell’amore nel mio percorso intellettuale e politico all’interno del movimento delle donne -in modo abbastanza solitario- è dovuta, almeno in parte, a un tratto romantico, sentimentale, che viene da qualche zona remota della mia storia personale. Più precisamente, si tratta di una singolare commistione di sogno e lucidità di analisi che ho ritrovato in Sibilla Aleramo e che ho cercato di analizzare nel mio libro Come nasce il sogno d’amore .
Ma c’è anche la spinta, radicata anch’essa nel mio passato, a tenere fermo lo sguardo su quella zona ancora oscura ed enigmatica che è l’origine, la preistoria dell’individuo e della specie.
Partire dalla memoria del corpo –dai sedimenti profondi della vita psichica- per interrogare il rapporto tra i sessi, vuol dire riconoscere che il dominio maschile non nasce da una volontà malvagia dell’uomo, o da una sua ‘naturale’ pulsione di morte, ma da passaggi inconsapevoli di necessità che riguardano lo sviluppo della specie umana, il passaggio dalla natura alla cultura.
Per tornare al percorso autobiografico che sta dietro ogni teorizzazione, anche la più astratta, devo dire che la centralità che ho dato alle tematiche del corpo è strettamente legata alla mia origine: figlia femmina di famiglia contadina che ha avuto il singolare privilegio di poter studiare. Il dualismo corpo-pensiero, natura-cultura, femminile-maschile, era nella mia condizione di partenza, e ha reso particolarmente lento, difficile, contrastato, il processo di emancipazione tradizionalmente inteso. Ho sentito a lungo estranea la vita pubblica, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le sue istituzioni, mentre è stato molto forte il legame con la cultura e i linguaggi dell’uomo-figlio: filosofia, religione, arte.
Nel momento in cui avrei potuto “emanciparmi”, dopo la fuga dal paese d’origine e l’arrivo a Milano, ho incontrato, per mia felice sorte, il movimento non autoritario del ’68 nella scuola e il femminismo, che partivano proprio dal corpo, dalla vita personale, dalla sessualità, per mettere in discussione l’ordine esistente, la divisione tra pubblico e privato, la relazione tra i sessi.
Ho cominciato allora a rendermi conto che quello che nei miei studi liceali era rimasto il “fuori tema” –una materia di esperienza dolorosa e intraducibile nelle lingue colte- poteva, nella prospettiva di una profonda rivoluzione culturale, diventare “il tema”. Nello stesso tempo, cominciavo a riflettere sui nessi, i legami che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro del dualismo, sulle implicazioni inconsapevoli che la dualità, come costruzione maschile, aveva con l’interiorizzazione da parte delle donne di un’unica visione del mondo.
Ricerca di nessi voleva dire per me, da un lato continuare a scavare a fondo nel vissuto corporeo, psichico, intellettuale del singolo -autocoscienza, scrittura di esperienza-, dall’altro, partendo da questo sguardo e da questa lenta modificazione di sé , intesa come autonomia da pregiudizi, habitus mentali, schemi cognitivi incorporati, affrontare i saperi e i poteri della vita pubblica.
Ho cominciato a farlo dagli anni ’70, individualmente e collettivamente -dal gruppo “sessualità e scrittura”, ai corsi della donne, alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”-, ma in modo ancora libresco o filtrato dai saperi disciplinari che mi erano famigliari, come la letteratura, la filosofia, la psicanalisi.
Gli anni ’80 hanno rappresentato, per quanto mi riguarda, l’inizio di una riflessione e di una scrittura più specificamente legata ai temi dell’immaginario amoroso: rubriche di “posta del cuore”, “scrittura di esperienza”, analisi del “sogno d’amore”.
Nel momento in cui prevaleva nel femminismo l’orgoglio dell’appartenenza di sesso, la voglia di “vivere con agio”, l’affermazione della fine del patriarcato, occuparsi del sogno d’amore -dal libro che stavo scrivendo alle rubriche di posta del cuore su “Ragazza In” e su “Noi donne”- fu visto da alcune come un tornare sulla “miseria femminile”. Per me ha voluto dire invece riprendere e approfondire l’intuizione originale del femminismo: il dualismo sessuale, la consapevolezza che le figure di genere non hanno dato forma solo a rapporti e gerarchie di potere tra uomini e donne, ma, come conseguenza della complementarità, anche all’amore tra i sessi, al sogno di ricongiungimento di “nature”diverse, e all’ideale di interezza dell’individuo.
Finché il maschile e il femminile sono visti come poli complementari, come se fossero le due metà di un intero, c’è nell’amore una “terribile necessità”.
Come spiegare altrimenti un’interiorizzazione della visione maschile del mondo così duratura? Come spiegare una subalternità così evidente delle donne nella vita pubblica, l’emancipazione come assimilazione al neutro? La difficoltà è pensare l’interezza del proprio essere fuori dall’ideale androgino, di cui parla Virginia Woolf.
La complementarità è ingannevole, ma esercita ancora una grande attrazione: basta pensare al protagonismo che hanno preso le due grandi attrattive delle femminilità nelle sfera pubblica: la maternità e la seduzione. Il processo di autonomia dai modelli interiorizzati ha ancora molta strada da fare. Ma, soprattutto, interessa uomini e donne, interroga la femminilità come la maschilità.

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