‘Ho altro da fare’

‘Nel 1976 trenta donne del quartiere Affori di Milano, quasi tutte casalinghe, rivendicarono il diritto di poter anche loro accedere ai corsi di formazione per la licenza media delle “150 ore”, grande e faticosa conquista ottenuta dalla lotta operaia di quegli anni.’

‘La seconda è stato un workshop di sartoria organizzato dal collettivo artistico di attivazione urbana Landscape Choreography: nel fine settimana della “fashion week” milanese, sarà presentata l’etichetta di moda nata da questa esperienza, Senza peli sulla lingua. Un’occasione per le donne coinvolte di esprimere sui capi d’abbigliamento le proprie esigenze e ribellioni, troppo spesso represse: “Comprati un paio di mani”, “Amare non è un lavoro”, “Ho altro da fare”, si legge, in arabo e in italiano, sulle magliette.’

‘Da queste connessioni nasce una riflessione che allarga lo sguardo verso tutta la comunità, partendo dal “lavoro di cura come spazio dove ripensare la produzione e la riproduzione sociale“, tema al centro del dibattito che aprirà la due giorni di incontri venerdì 22 settembre e a cui parteciperà anche Lea Melandri, testimone della esperienza femminista delle “150 ore”.’

Articolo pubblicato su Pasionaria il 21 settembre 2017, clicca qui

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Dedicato alla LUD

Questo post è dedicato alla LUD la cui durata trentennale molto deve alla capacità di “riprendersi”, “rileggere” la propria storia, aprirsi verso il possibile di ciò che appare in un dato momento “impossibile”.

“La ripresa non è né sottomessa e passiva come il ricordo ne’ ignorante e casuale come la speranza. Non è bloccata, gravata dal peso del passato, e nemmeno inconsistente e versatile in quanto proiettata a piacere nel futuro (…) la ripresa deve essere colta come un ‘ricordare in avanti’.
(…)
Si può dispiegare passo dopo passo la propria libertà -che non è concessa in un sol colpo- attraverso inflessioni sempre più risolute, riflesse a partire dalla vita passata; oppure ci si può compiacere ingenuamente nell’illusione di scegliere senza essersi dotati della capacità di farlo.
(…)
Le nostre vite, infatti, si misurano in base alla capacità non tanto di sopportare le disgrazie che le colpiscono dal di fuori, in conformità al noto modello stoico, quanto di tenere gli occhi il più possibile aperti sul negativo interno alla vita stessa attivando contestualmente la vita. E senza compensazioni e sostituzioni. Da qui discende la lucidità, che costituisce il punto di appoggio per il rilancio della vita e la ‘possibilità’ di una seconda vita.

Per potere una mattina, finalmente, quando scosto la tenda dalla finestra, quando guardo la finestra di fronte e la strada, cominciare a vedere levarsi, dal fondo della notte, ciò che può essere un mattino. Un mattino ‘in più’, ma che emerge dal mondo, pur procedendo dal mondo, tale come non l’avevo mai visto”.

(Francois Jullien, “Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero”, Feltrinelli 2017)

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Perché Macao

Con Macao oggi alle 18 all’ Arco della Pace.

Emanuele Braga:
“Quello che conta è il corpo, le relazioni, quanto decidiamo di fare un salto nello sconosciuto, e dimostrare che l’attivazione collettiva non segue sempre i soliti schemi prestabiliti. E parlare di schemi prestabiliti in questo caso per me significa: avere portato avanti un progetto importante in un luogo per 5 anni, ed ora che arriva il mercato immobiliare, farsi sgomberare con un po di insulti e conflitti e spostarsi un pò bastonato da una altra parte… questo è lo schema prestabilito, il simbolico da spezzare, e visto che la vita non è poi cosi lunga, tanto vale tentare di spezzare, di fare la differenza, piuttosto che reiterare considerazioni ciniche, e frasi di circostanza…”

Articolo di Emanuele Braga pubblicato su Effimera

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IL femminismo a Milano Anni ‘70 Quinta puntata

Anno 1975: il ’68 delle donne.

Il 1975, nonostante la gravità di quanto avveniva attorno –crisi economica, licenziamenti, scioperi, scontri tra militanti di opposte fazioni, sortita dei Nap e delle Brigate rosse- rappresenta per il femminismo un anno di particolare rilievo. Furono i giornali stessi a riconoscere che “non si era mai visto nulla di simile dalle grandi manifestazioni per il voto alle donne”. Qualcuno si azzardò a scrivere: “E’ il ’68 delle donne”.
L’anno era cominciato in febbraio con il convegno al Circolo de Amicis, che aveva messo al centro i temi della sessualità, maternità, aborto e omosessualità. La relazione tra donne si approfondisce. All’interno del collettivo di via Cherubini sorge l’esigenza di concretizzare materialmente, e non solo enunciare teoricamente, una pratica di vita comune. Dopo tanti gruppi di parola, si fa avanti il desiderio di un “fare insieme”, una progettualità che implicasse anche il denaro e il lavoro. Se ne discute nel documento “I luoghi e i tempi”. Questa aspirazione è portata avanti in particolare dal gruppo di donne che, fin dall’autunno 1974, avevano deciso di costituirsi in cooperativa per aprire a Milano una libreria sul modello della Librerie des Femmes di Parigi. Il gruppo comincia a cercare fondi, alcune pittrici offrono i loro quadri, altre l’assistenza gratuita per le pratiche legali. Dal Comune otterranno l’affitto di un locale nel centro cittadino, in via Dogana. I primi libri arrivano dai magazzini delle case editrici. La conduzione viene affidata a turno alle donne che ne fanno parte, per non fare divisioni del lavoro. Alla base dell’iniziativa c’è l’idea di “dare un luogo alla parola delle donne”, farne una specie di vetrina del movimento.
La Libreria apre nell’ottobre 1975 e diventerà nel corso degli anni un riferimento culturale e politico per tutte.
L’altro progetto, di cui si discute in via Cherubini, è la “casa delle donne”, un luogo più spazioso dove far confluire pratiche politiche diverse, ma anche dover poter mangiare insieme, fare feste. Il desiderio è di sperimentare in uno spazio adeguato modalità di diverse del vivere tra donne. La nuova sede sarà in via Col di Lana 8, dove ci si trasferisce agli inizi del 1976.
Intanto sono avvenuti altri fatti importanti: il passaggio dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio. Il documento “Pratica dell’inconscio e movimento delle donne”, pubblicato sul n.18-19 della rivista “L’erba voglio”, porta il femminismo milanese al centro dell’attenzione nazionale e della stampa. Diventerà l’argomento principale di due convegni: uno in primavera a San Vincenzo, sulla costa toscana, l’altro a Pinarella di Cervia in novembre (uno precedente c’era stato negli stessi giorni, l’anno prima).
Nell’estate, nei mesi di luglio e agosto, donne provenienti da varie città italiane invadono l’isola di San Pietro (Carloforte) per quella che resterà una memorabile vacanza femminista. L’idea era nata in occasione di un mio viaggio in Sardegna, invitata a tenere un incontro all’Università di Cagliari, insieme ad altre studiose femministe. E’ lì che ho sentito parlare della bellezza dell’isola e della possibilità di andarvi in vacanza –mi dissero- “con alcune amiche”. Nel pieno del movimento, “alcune amiche”, una volta sparsa voce, diventarono duecento. Fu un’esperienza destinata a lasciare un segno, fatta di bagni, sole, ma anche assemblee, discussioni animate e balli, cene, una quotidianità insolita.
Un giovane assessore di sinistra lo definì “un trauma benefico”. Con mia grande meraviglia, non ci fu nessun segno di intolleranza e tanto meno di violenza da parte della popolazione locale. Per me, cresciuta in campagna, fu la scoperta del mare, di un luogo di elezione, dove torno da allora ogni estate e di cui sono diventata da poco, per grande amore e fedeltà, “cittadina onoraria”. Della vacanza di Carloforte si discuterà in un convegno a Firenze in settembre.
Nello stesso mese cala sul movimento l’ombra della violenza, coi fatti del Circeo. E’ il 30 settembre: da quel momento, la violenza contro le donne –stupri e omicidi- diventa tema di riflessione, di interventi sui giornali, apertura del dibattito sulla legge che avrebbe dovuto trasformare lo stupro da “reato contro la morale”a
“reato contro la persona.
Sull’interpretazione che si diede allora del massacro del Circeo in chiave antifascista, intervenne anche il collettivo di via Cherubini con una lettera al “Manifesto” in cui si precisava che il grave episodio di violenza carnale era diventato un “fatto politico” solo per la provenienza sociale degli assassini, figli della borghesia romana, mentre “la violenza della donna è di per sé un fatto politico”.
A fine novembre, dopo il secondo convegno nazionale a Pinarella di Cervia, parte del femminismo milanese contesterà il convegno organizzato dallo psicanalista Armando Verdiglione, per essersi appropriato delle tematiche del corpo, della sessualità, e averle spostate dai movimenti e dai protagonisti reali, alle cattedre e agli accademici.
Ne risentirà anche il mio rapporto con Elvio Fachinelli e con la rivista “L’erba voglio”.
Negli anni che seguirono anche in Col di Lana –dove si tenevano affollatissime assemblee di duecento e più persone- cominciano a farsi sentire spinte al cambiamento. A segnare un termine a quello che era stato fino ad allora un percorso comune, pur tra diversità e conflitti, fu il terzo convegno nazionale a Paestum nel dicembre 1976.
L’analisi portata sulla sessualità parve poter essere riconosciuta come prioritaria da tutte, anche quelle che fino allora avevano privilegiato gli aspetti economici e sociali della questione del sessi. A quel punto, si chiedeva di farla diventare politica a tutti gli effetti, con una leadership, una ideologia, un’organizzazione. Era la contraddizione massima. Le femministe milanesi arrivarono a Paestum con un numero speciale di “Sottosopra” noto, per il colore, come “Sottosopra rosa”. Gli scritti che vi comparivano facevano già riferimento alla differenziazione che era avvenuta all’interno tra gruppi e pratiche diverse. C’erano i gruppi di medicina delle donne, gruppi di fotografia, donne che volevano fare un Bar, e i due gruppi che segneranno negli anni ’80 la prima evidente divaricazione teorica e pratica all’interno del movimento: il Gruppo n.4, legato alla Libreria delle donne, che porterà alla elaborazione del “pensiero della differenza” e il gruppo “Sessualità e scrittura”, nato per iniziativa mia e di altre donne che si riconoscevano nel comune interesse per la scrittura. Fu uno dei più seguiti. La necessità di interrogare la scrittura – e quindi i linguaggi disciplinari, la produzione simbolica in generale- veniva dal fatto che la pratica più originale del femminismo –l’autocoscienza- sembrava che si potesse trasmettere solo “praticandola”, inadatta quindi a comunicare fuori dal piccolo gruppo. La scrittura era consistita fino a quel momento o in documenti -spacciati per collettivi ma frutto invece di della elaborazione scritta di donne che avevano acquisito quella capacità fuori dal femminismo-, o racconti di storie individuali, interpretazioni del proprio sentire. Si voleva rompere con l’anonimato, ma anche col silenzio sulle differenze tra donne che scrivevano e quelle che non scrivevano. Eravamo consapevoli di “usare parole d’altri”, di aver “saccheggiato i cento ordini del discorso della cultura dell’uomo”. La riflessione sugli scritti che ognuna portava al gruppo permetteva di aprire la strada a saperi e linguaggi, forme del pensiero più vicini alle consapevolezze nuove portate in noi dall’autocoscienza. Dell’attività del gruppo verrà dato conto in un “fascicolo speciale”: A zig zag (1978)
Alcune partecipanti al gruppo si ritroveranno nei “corsi 150 ore” delle donne, in particolare quello che si aprì in via Gabbro 6, in zona Affori Comasina, il primo richiesto espressamente da un gruppo di donne, casalinghe, in cui mi trovai a insegnare nel 1976, dopo il trasferimento da Melegnano.
Verso la fine degli anni ’70 cominciano a comparire i primi Centri di documentazione delle donne, per impedire che andasse perduto il patrimonio di idee e pratiche del decennio. A Milano si aprirà nel 1979 il Centro studi storici sul Movimento di liberazione della donna, presso la Fondazione Feltrinelli in via Romagnosi 3, con l’intento di raccogliere documenti e testimonianze, organizzare seminari e incontri a livello nazionale e internazionale. Sarà il Centro a curare la prima importante storia del femminismo a Milano e in Lombardia: il libro, Dal movimento femminista al femminismo diffuso, edito da Franco Angeli, esce nel 1985.

Le foto del convegno di Pinarella di Cervia del 1974 sono prese dal libro di Daniela Pellegrini, “Una donna di troppo”, Fodazione Badaracco. Francoa Angeli 2012.

La foto del mare: Isola di Carloforte

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I corsi 150 ore…

Per non dimenticare quella straordinaria esperienza che sono stati per me i “corsi 150 ore” ad Affori Comasina, , le donne coraggiose che fecero aprire un “modulo” presso la Scuola Media di via Gabbro 6, e che poi non vollero più tornare a chiudersi tra le mura domestiche.
Ne seguirono corsi monografici, bienni sperimentali e una cooperativa di indirizzo grafico, “Gervasia Broxon”.
Correva l’anno 1976 quando per felice sorte fui nominata nel primo corso per adulti e incontrai le ‘pioniere’ di Affori, insieme alle quali avrei trascorso dieci intensissimi anni, come insegnante, come donna, come femmista…e ballerina di liscio.

http://www.memomi.it/it/00007/13/il-femminismo-a-milano.html

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Il femminismo a Milano Anni ‘70 Settima puntata L’esperienza dei corsi delle donne. Il corso “150” di via Gabbro 6. La Cooperativa “Gervasia Broxon”. 1976-1986.

Quando ho chiesto il trasferimento dalla scuola media di Melegnano ai “corsi 150 ore” per adulti –grande conquista delle lotte operaie per chi non aveva la licenza media- ero nel pieno del mio coinvolgimento femminista, profondamente convinta che la relazione uomo-donna fosse una questione centrale per ripensare la politica e le sue istituzioni, ma anche la storia, la cultura, i saperi e i linguaggi disciplinari, e decisa a portare nel mio ruolo di insegnante le consapevolezze nuove che mi venivano dal movimento delle donne. Sapevo che avrei trovato meno burocrazia e meno vincoli riguardo ai programmi, per cui mi sarebbe stato più facile introdurre nelle mie lezioni le tematiche che mi stavano a cuore e che erano sempre rimaste fuori dalla scuola. Nonostante sapessi che si trattava di una scuola prevalentemente operaia, il desiderio era di trovarvi presenze femminili.
Nominata molto tardi, ai primi di dicembre 1976, mi presentai alla scuola media di via Gabbro 6, in zona Affori-Bovisasca, senza illusioni e la mia grande sorpresa fu quando, aperta la porta, mi trovai di fronte a una trentina di donne, più qualche uomo. L’emozione fu tale che mi sedetti sulla prima sedia vuota, tanto che la mia vicina, prendendomi per una corsista, mi rassicurò dicendo che c’era stata una supplente e che “non avevano fatto ancora niente”. E’ cominciato così un’altra di quelle svolte che avrebbero segnato durevolmente –potrei fino ad oggi- la mia vita, i miei interessi, la mie scelte.
Le trenta ‘allieve’, non più giovani, erano quasi tutte casalinghe e avevano dovuto faticare non poco a farsi aprire un “modulo” nella loro zona. I sindacalisti, fermi all’idea di una scuola operaia, non capivano perché donne che erano state fino ad allora mogli e madri, impegnate nella cura della famiglia, volessero tornare a scuola, prendere una licenza media che non avrebbero probabilmente usato. Non appena abbiamo cominciato ad affrontare i temi che le rendevano più consapevoli di quella che era stata fino a quel momento la loro vita, è stato come se si fosse spalancata una porta, varcata la quale – come disse una di loro- non sarebbe stato più possibile tornare indietro. La felicità delle scoperte che venivano facendo si è espressa da subito con manifesti, volantini, dispense che preparavamo col ciclostile, i cui titoli erano già rivelatori del cambiamento che era avvenuto in loro e che avrebbe contagiato in breve tempo altre donne, altri quartieri di Milano. Ne ricordo alcuni: Più polvere in casa meno polvere nel cervello (nel disegno del manifesto una donnina che si spolverava la testa), L’uovo terremotato (un grande uovo spalancato da cui uscivano file di donne), E’ sparita la donna pallida e tutta casalinga, Acrobate, La Traversata.
Il corso di via Gabbro è diventato, fin dal 1976, un esempio e le donne che lo hanno frequentato si può dire che sono state delle ‘pioniere’dimostrando le potenzialità che hanno la scuola e la cultura di modificare i ruoli tradizionali della donna. L’esperienza di Affori ha attirato subito l’attenzione dei giornali e della televisione, tanto che si è pensato, con un’amica regista, di darne noi stesse notizia in modo più creativo. Il film-documentario di Adriana Monti, Scuola senza fine, in cui sono ricostruite le storie di alcune corsiste e l’incontro con me, sarà proiettato alla New York University in occasione di un convegno su “Donne e cinema in Italia”(1985). Molto apprezzato dalle femministe americane fu poi riportato quasi per intero nel libro Off Schreen, stampato a NY e Londra.
Per le corsiste era la riscoperta di una vita trascorsa all’interno della famiglia alla luce di una consapevolezza nuova. I loro scritti, nati spontaneamente sotto la spinta del desiderio di raccontarsi con una libertà fino allora sconosciuta, non avevano niente di retorico, di scolastico, andavano dritti alla verità che affiorava man mano dal pensare e confrontarsi con altre. Per me era, ancora una volta, ritrovare figure del mio passato, donne che somigliavano a quelle della mia famiglia, del mio paese; ricucire in qualche modo lo strappo che si era prodotto fra me e loro dal momento che io avevo potuto studiare, avere finalmente una lingua comune con cui parlarci, riflettere sulle nostre diverse esperienze. Ricordo in particolare Amalia Molinelli, contadina emiliana che, migrata con la famiglia in città, aveva fatto i mestieri più duri coltivando in modo silenzioso e solitario pensieri profondi, che trovarono immediatamente espressione nella scrittura. Era una lingua molto creativa, una commistione di dialetto e italiano, che entrava senza soggezione nei saperi specialistici – la matematica, la filosofica, la fisica- scombinandoli, costringendoli a confrontarsi con la vita personale, con la quotidianità, con il diverso destino toccato al maschio e alla femmina. Ne uscirà, anni dopo, un libro: I pensieri vagabondi di Amalia.
Finito il corso che avrebbe dato loro la licenza media, nel giugno 1976, come era prevedibile, le donne che l’avevano frequentato con tanto entusiasmo non vollero più rientrare a casa. Così dovetti inventarmi “corsi monografici” –inizialmente senza alcun riconoscimento istituzionale-, “bienni sperimentali”, usando aule messe a disposizione dalla scuola e invitando a tenere corsi, gruppi, lezioni, le amiche femministe che avevano saperi e pratiche da trasmettere. Per la maggior parte venivano dal gruppo, nato nel 1977 nella sede di Col di Lana, “sessualità e scrittura”.
Nel 1980, con un finanziamento europeo, nascerà in un locale del quartiere Bovisasca, la Cooperativa Gervasia Broxon. Il nome era inventato ma nessuno ha mai chiesto chi fosse. Le partecipanti era le stesse che avevano aperto il corso nel 1976, più altre che si erano via via aggiunte. Il fine della cooperativa era di prepararle a diventare delle grafiche, ma dietro c’era l’idea di interrogare i saperi disciplinari e il lavoro alla luce di una cultura che aveva escluso le donne, considerandole custodi ‘naturali’ della famiglia. Altrettanto importante era l’analisi dei rapporti che si venivano creando tra di noi, insegnanti e allieve, l’occasione che avevamo di ripensare la nostra formazione scolastica alla luce delle esperienze di vita che ne erano rimaste fuori.
Negli anni della “Milano da bere”, della “voglia di vincere”, che contagiò anche una parte del femminismo –in particolare la Libreria delle donne- la “scuola senza fine di Affori” per la complessità dei problemi che aveva scelto di affrontare, non poteva avere la risonanza che meritava, ma fu comunque un laboratorio unico e originale nel tentativo di mettere a confronto intellettuali e donne comuni. Le teorie elaborate dai gruppi femministi erano costrette ad esporsi agli interrogativi che venivano ancora una volta dalla vite concrete, oltre che a confrontarsi con discipline e linguaggi specialistici tradizionalmente ‘neutri’.
Nel quartiere di Affori Bovisasca ho trascorso, dal 1976 al 1986, quando si chiuderà la Cooperativa, i dieci anni più intensi del mio insegnamento e del mio impegno femminista. Pur senza vivere nel quartiere, trascorrevo lì la maggior parte del mio tempo, come se stessi effettivamente dando corpo a un altro ‘paese’, simile per tanti aspetti a quello che avevo lasciato in Romagna. In particolare, penso all’occasione che ho avuto di condividere con le mie corsiste e corsisti la passione per il ballo liscio. Nel seminterrato dove si svolgevano i corsi ogni ricorrenza era buona per organizzare feste e balli, a cui partecipavano talvolta anche gli ex-pazienti delle comunità legate al Paolo Pini.

Tutte le puntate in video:

http://www.memomi.it/it/00007/13/il-femminismo-a-milano.html

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Istantanee

Risveglia nere cortecce rinsecchite
smarrisce i piedi di una città
infagottata nelle ultime insidie
dell’inverno
sorprende i pensieri
di chi ha sepolto
insieme ai parenti
le sue radici di terra.
È il primo verde milanese.

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Obiezione – Milano

Al presidio partecipa Non Una di Meno- Milano
con un volantino in cui si dice, tra l’altro:
“…. Il 68,2% di medici è obiettore di coscienza e in 6 ospedali lombardi tutti i medici sono obiettori
• L’aborto farmacologico viene effettuato nel 5,1% dei casi e nel 52% delle strutture non viene neanche praticato. Inoltre, a differenza che in altre regioni, le donne vengono obbligate a tre giorni di ricovero ospedaliero (in Francia può essere fatto in consultorio seguite da un’ostetrica)
• nel 2016 sono stati spesi 153.414,00 euro per pagare a gettone il personale esterno che garantisce la possibilità di abortire negli ospedali con alti tassi di obiezione
• una legge regionale prevede l’obiezione di struttura nei consultori, rendendo difficile per le donne esercitare il loro diritto ad abortire.
Tutto questo si inserisce in un quadro in cui i consultori vengono depotenziati fino a tagliare i servizi per le donne in menopausa costringendole a rivolgersi agli ospedali, in cui l’educazione sessuale è praticamente inesistente o parziale e inefficace, in cui la prevenzione scompare in favore di una logica aziendale che poco ha a che vedere con la salute.
Per questo il 7 aprile dalle 11 alle 14 saremo in piazza sotto Regione Lombardia nella giornata europea in difesa del servizio sanitario pubblico, a ricordare che la salute sessuale non può essere slegata dal benessere, dal piacere e dalla libertà di scelta, che deve essere possibile sempre.
Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi.”

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