Una grande serata alla Casa delle donne di Milano. Verso l’appuntamento dell’8 marzo si incontrano numerosissime donne di generazioni e percorsi diversi di femminismo.
Una conduzione impeccabile delle ragazze di Ri-Make, GRRRAmigna, Cantiere e altri gruppi.
Nessun leaderismo, la parola a tutte, e tempi di intervento rigorosamente contingentati.
La generazione di internet da’ lezione al femminismo storico.
Evviva!
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Se le viscere della storia occupano la sfera pubblica
Il pericolo che molti vedono incombere sulla democrazia nel nostro Paese raramente viene associato alla crisi, più generale e più datata della politica: la modificazione lenta ma inarrestabile dei confini che per secoli hanno circoscritto e confuso lo spazio pubblico con il suo governo, le sue istituzioni, le sue leggi, i suoi linguaggi, e, prima ancora, con il dominio di un sesso solo.
Se la nostra cultura non si fosse dimostrata finora così ottusamente refrattaria ad accogliere analisi attente ai nessi tra corpo e politica, tra virilità e costruzione storica della sfera pubblica, risulterebbe evidente che la norma e la trasgressione, l’ordine e la perdita di controllo, la legge e la sua sistematica violazione, il bene collettivo e l’egoismo individuale, la civiltà e la barbarie, non hanno mai smesso di affrontarsi e confondersi nello spazio pubblico, sotto la spinta di contesti economici e politici mutevoli, ma ubbidendo nel medesimo tempo a quella ‘invariante’ della storia che è l’identificazione dell’umano perfetto con la maschilità, e tutte le contrapposizioni che ha prodotto –tra l’amico e il nemico, il cittadino e lo straniero.
L’irruzione del ‘femminile’ nella vita pubblica –inteso non solo come presenza quantitativa delle donne nel luogo da cui sono state tradizionalmente escluse, ma come protagonismo e rivalsa di tutto ciò che è stato identificato col ‘sesso debole’- non poteva non intaccare i fondamenti della politica, mettere in discussione i concetti di libertà, democrazia, uguaglianza, fraternità, diritto, ridefinire in modo meno astratto la figura del cittadino.
Se l’occasione di portare al centro della responsabilità collettiva la vita nella sua interezza si sta trasformando in ‘antipolitica’ -rovesciamento dei rapporti tra ordine e caos, realtà e immaginario, ragione e sentimenti- è perché si continuano ad ignorare i percorsi di liberazione e di allargamento dell’impegno politico aperti dalle culture alternative degli anni ’70, in particolare dal femminismo, e oggi dalle associazioni di uomini che si interrogano sulla storia dal punto di vista del sesso che ne è stato protagonista.
Quello che molti di noi scoprirono allora, come insegnanti, operatori sociali, studenti, operai, nel momento in cui si abbandonavano gli strumenti tradizionali del controllo e della repressione, avrebbe dovuto allarmare molto più delle forze conservatrici che ci fecero guerra.
Le pratiche non autoritarie nella scuola, negli asili autogestiti, nelle assemblee autonome sorte all’interno delle fabbriche, che generalmente vengono additate da destra e da sinistra come la causa remota del degrado attuale, sono state, al contrario, il primo svelamento della massificazione precoce, la denuncia del caos che si cela dietro i sistemi istituzionali di controllo e sicurezza.
“Eludendo la figura dell’adulto -annotava Elvio Fachinelli in Masse a tre anni ( L’erba voglio, Einaudi, 1971)-, astrattamente considerata ‘autoritaria’, si vede sorgere una gerarchia di ferro, basata sulla forza e la prepotenza, che impronta di sé i rapporti dei bambini tra loro (…) sembra di trovarsi in una società violenta, tra il fascista e il mafioso”. Erano segnali piccoli ma inequivocabili, portati allo scoperto dalla consapevolezza delle mutilazioni che si era inflitta la politica, e dall’idea che bisognasse partire da lì, da quei corpi che arrivano all’asilo “già rattrappiti e coartati”, per trovare nuove forme d’amore e di convivenza umana.
La crisi dell’autorità paterna nell’ambito famigliare, e il declino delle istituzioni della vita pubblica, avrebbero poi subìto un’accelerazione imprevista sotto l’urto della società dei consumi, della sua potenza invasiva e divorante, della sua indifferenza per norme e limiti di ogni specie. Così è accaduto che, quando ancora le donne muovevano i primi passi da cittadine sotto tutti gli effetti, a farla da vincitore fosse il ‘femminile’ costruito dall’uomo, la visceralità che la storia si è portata dietro e che insidia da sempre il suo processo di incivilimento.
Nella foto: Escher
L’irruzione del femminile
L’IRRUZIONE DEL “FEMMINILE”
“Si continuano ad ignorare i percorsi di liberazione e di allargamento dell’impegno politico aperti dalle culture alternative degli anni Settanta, in particolare dal femminismo… Le pratiche non autoritarie nella scuola, negli asili autogestiti, nelle assemblee autonome sorte all’interno delle fabbriche… sono state il primo svelamento della massificazione precoce, la denuncia del caos che si cela dietro i sistemi istituzionali di controllo e sicurezza… ”
Articolo pubblicato il 9.X.2016 su Comune-info.net, per leggerlo clicca qui
Il femminismo in una grande manifestazione a Roma
26.XI.2016
Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come spinta a uscire dalla carsicità.
Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è piazza San Giovanni a Roma, è sicuramente il modo più felice per rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è. Una manifestazione come quella di oggi, come quelle che si sono succedute da quarant’anni a questa parte, devono darci il coraggio di dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc –o forse proprio per questa varietà- è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.
Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto analizzato, sia sulle sue forme manifeste -stupri, omicidi, maltrattamenti- sia su quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano nella “normalità”, nel senso comune, nei gesti e nelle parole della quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso finora. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.
Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno. E’ il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza maschile in tutte le sue forme,a partire da quei segni profondi che ha lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate con la natura, il corpo, la conservazione della specie. Abbiamo scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e disuguaglianze che la storia ha conosciuto.
Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più disposte a tollerare:
-che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che qualcuno ancora si permetta dire che il femminismo è morto o silenzioso;
-che quando interviene una “parola pubblica” a istituzionalizzare pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati. Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il Terzo settore, i servizi sociali.
-che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la certezza di finanziamenti al riguardo.
Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono “vittime” della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella, inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice “Io decido” della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere figli.
Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan –“Io decido”, “Non una in meno”- per dire che continueremo a batterci contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e forse riusciremo a trovare quei “nessi” che legano la specificità dei nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.
Facciamo sinistra. Mi interessa, ma a certe condizioni.
“…La cultura politica nata dal femminismo è stata ostacolata o cancellata proprio da chi più aveva più interesse a farla propria per un impegno che non volesse mutilarsi di alcune delle ragioni essenziali dell’agire politico: la vita personale, la relazione tra i sessi, le problematiche del corpo e delle passioni che lo hanno come parte in causa. Oggi, questa materia considerata solo un ingombro della politica, è quella di cui si alimenta l’antipolitica. Si poteva evitare? Forse sì, se qualcuno dei tanti movimenti che hanno riempito le piazze in questi ultimi decenni, avessero fatto attenzione alla portata rivoluzionaria dello slogan “il personale è politico”, che è stata l’intuizione più radicale del movimento delle donne degli anni Settanta. La condizione per uscire dal senso di estraneità che per me è venuta crescendo in questi ultimi tempi, e tornare a immaginare che sia possibile “fare sinistra” insieme, uomini e donne, è che siano proprio quei principi su cui è mossa finora la sinistra, riformista o radicale, partitica o non partitica, a essere interrogati dal punto di vista dell’appartenenza di sesso e di un’idea di rivoluzione che è rimasta finora mutilata dell’unico cambiamento che potrebbe terremotare separazioni note -tra corpo e pensiero, sessualità e politica, natura e cultura, individuo e società-, e aprire la strada alla scoperta dei nessi che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro.”
Articolo pubblicato il 18 ottobre 2016 su facciamosinistra.blogspot.com, per leggerlo clicca qui
Psicanalisi e femminismo: alla ricerca di nessi
“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi. La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.
“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato. L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”
“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui. La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche. In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto. Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, ce si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali. E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”
“Psicanalisi e femminismo sembrano dunque collocarsi su orizzonti paralleli e contrapposti, messi rispettivamente a rappresentare da una parte la ragione storica dell’uomo (la sua supremazia, il suo privilegio, ma, soprattutto, la giustificazione scientifica del suo dominio) e, dall’altra, la nascita della coscienza femminile. Per produrre un effetto radicale di differenziazione, viene messa totalmente in ombra la contraddittorietà della scoperta di Freud, l’aprirsi di un campo di ricerca che avrebbe consentito di guardare dentro il suo stesso impianto interpretativo -discorsivo, linguistico-, per coglierne le radici inconsce; che avrebbe permesso di rileggere lo stesso Freud mostrando, dentro la sua costruzione teorica ‘patriarcale’, il sogno dell’uomo-figlio, e quindi anche le spinte capaci di intaccare la supremazia maschile.”
Crisi della politica
Un rinnovamento è possibile, ma a certe condizioni.
A proposito dell’appello ‘Insieme possiamo’
(12 Luglio 2015)
La crisi della politica, delle sue istituzioni e, più in generale del modello di rappresentanza che l’ha separata sempre di più dalla vita e dalla partecipazione attiva di tutte e di tutti, è stata al centro dei movimenti nati negli anni ’70, in particolare del movimento non autoriario nella scuola e del femminismo. Non aver raccolto e dato seguito a quella che allora chiamammo “una politica radicale” -capace di “andare alle radici dell’umano”, di sottrarre alla “naturalizzazione” tutto ciò che è stato considerato “non politico” (il femminile, il corpo, la sessualità, la maternità, i sogni, le relazioni famigliari, la divisione sessuale del lavoro, ecc.)-, ha favorito, a seguito del progressivo venire meno dei confini tra privato e pubblico, la crescita dell’antipolitica e di forme deteriori di populismo.
Sono queste oggi, purtroppo, le tendenze che godono di ampio, anche se non sempre manifesto, consenso.
Non si può dire che siano mancati in Italia, già a partire dal 1977, movimenti nati dal basso con contenuti e pratiche innovative, animati da una forte “dissidenza” rispetto all’ordine economico e politico esistente: dal “popolo viola” a Genova 2001, Dal Molin, No Tav, associazioni ambientaliste e per i beni comuni, ecc. Ma sempre hanno avuto durata breve, osteggiati dai partiti, indeboliti dalla loro stessa frammentarietà e, soprattutto, incapaci di mettere in discussione la falsa “neutralità” di cui si sono fatte scudo finora tutte le culture maschili, di destra e di sinistra.
Ogni volta, con un misto di speranza e di diffidenza, le mie attese hanno oscillato tra il desiderio di vedere nominato, tra altri, il movimento delle donne -l’unico peraltro sopravvissuto agli anni ’70-, e il piacere che non lo fosse.
Contraddizione comprensibile, dal momento che se è importante riconoscere che è stato il femminismo a portare alla coscienza il rapporto tra i sessi, nel suo ambiguo annodamento di amore e violenza, dall’altro dovrebbe essere anche chiaro che le sue intuizioni e le sue pratiche -il partire da sè, l’autocoscienza, l’attenzione ai sedimenti inconsci del sessismo, del razzismo, di ogni forma di potere- attraversano tutti i movimenti.
La virilità e la femminilità sono tutt’ora le strutture più arcaiche e perciò più durature sia della vita personale che delle relazioni sociali, prodotte da una comunità storica di soli uomini, ma fatte proprie, forzatamente, dalle donne stesse. Il silenzio, l’indifferenza, per non dire l’ostilità che il femminismo ha incontrato nel suo percorso ormai quarantennale, anche da parte di una sinistra che si voleva “radicale”, hanno prodotto, come era prevedibile, ripiegamenti, chiusure reciproche.
Per aderire al progetto di “cantieri” impegnati, a livello nazionale e cittadino, a promuovere – come si legge nell’appello “Insieme possiamo”- “una ricomposizione della rete di associazioni, movimenti, partiti”, non mi basta perciò che ad accomunarli sia “il giudizio critico sul governo e sul renzismo”, e nemmeno il richiamo a quei “principi sociali e politici” a cui si è ispirata finora la sinistra.
La condizione per un impegno mio, ma potrei dire anche di molte donne con cui condivido da anni idee e pratiche nate dal femminismo, è che siano proprio quei “principi” su cui è mossa finora la sinistra, riformista o radicale, partitica o non partitica, a essere interrogati dal punto di vista dell’appartenenza di sesso e di un’idea di “rivoluzione” che è rimasta finora mutilata dell’unico cambiamento che potrebbe terremotare separazioni note -tra corpo e pensiero, sessualità e politica, natura e cultura, individuo e società-, e aprire la strada alla scoperta dei “nessi” che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro.
Una lucida follia
Stralci di un percorso personale e politico
La centralità che ha avuto il tema dell’amore nel mio percorso intellettuale e politico all’interno del movimento delle donne -in modo abbastanza solitario- è dovuta, almeno in parte, a un tratto romantico, sentimentale, che viene da qualche zona remota della mia storia personale. Più precisamente, si tratta di una singolare commistione di sogno e lucidità di analisi che ho ritrovato in Sibilla Aleramo e che ho cercato di analizzare nel mio libro Come nasce il sogno d’amore .
Ma c’è anche la spinta, radicata anch’essa nel mio passato, a tenere fermo lo sguardo su quella zona ancora oscura ed enigmatica che è l’origine, la preistoria dell’individuo e della specie.
Partire dalla memoria del corpo –dai sedimenti profondi della vita psichica- per interrogare il rapporto tra i sessi, vuol dire riconoscere che il dominio maschile non nasce da una volontà malvagia dell’uomo, o da una sua ‘naturale’ pulsione di morte, ma da passaggi inconsapevoli di necessità che riguardano lo sviluppo della specie umana, il passaggio dalla natura alla cultura.
Per tornare al percorso autobiografico che sta dietro ogni teorizzazione, anche la più astratta, devo dire che la centralità che ho dato alle tematiche del corpo è strettamente legata alla mia origine: figlia femmina di famiglia contadina che ha avuto il singolare privilegio di poter studiare. Il dualismo corpo-pensiero, natura-cultura, femminile-maschile, era nella mia condizione di partenza, e ha reso particolarmente lento, difficile, contrastato, il processo di emancipazione tradizionalmente inteso. Ho sentito a lungo estranea la vita pubblica, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le sue istituzioni, mentre è stato molto forte il legame con la cultura e i linguaggi dell’uomo-figlio: filosofia, religione, arte.
Nel momento in cui avrei potuto “emanciparmi”, dopo la fuga dal paese d’origine e l’arrivo a Milano, ho incontrato, per mia felice sorte, il movimento non autoritario del ’68 nella scuola e il femminismo, che partivano proprio dal corpo, dalla vita personale, dalla sessualità, per mettere in discussione l’ordine esistente, la divisione tra pubblico e privato, la relazione tra i sessi.
Ho cominciato allora a rendermi conto che quello che nei miei studi liceali era rimasto il “fuori tema” –una materia di esperienza dolorosa e intraducibile nelle lingue colte- poteva, nella prospettiva di una profonda rivoluzione culturale, diventare “il tema”. Nello stesso tempo, cominciavo a riflettere sui nessi, i legami che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro del dualismo, sulle implicazioni inconsapevoli che la dualità, come costruzione maschile, aveva con l’interiorizzazione da parte delle donne di un’unica visione del mondo.
Ricerca di nessi voleva dire per me, da un lato continuare a scavare a fondo nel vissuto corporeo, psichico, intellettuale del singolo -autocoscienza, scrittura di esperienza-, dall’altro, partendo da questo sguardo e da questa lenta modificazione di sé , intesa come autonomia da pregiudizi, habitus mentali, schemi cognitivi incorporati, affrontare i saperi e i poteri della vita pubblica.
Ho cominciato a farlo dagli anni ’70, individualmente e collettivamente -dal gruppo “sessualità e scrittura”, ai corsi della donne, alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”-, ma in modo ancora libresco o filtrato dai saperi disciplinari che mi erano famigliari, come la letteratura, la filosofia, la psicanalisi.
Gli anni ’80 hanno rappresentato, per quanto mi riguarda, l’inizio di una riflessione e di una scrittura più specificamente legata ai temi dell’immaginario amoroso: rubriche di “posta del cuore”, “scrittura di esperienza”, analisi del “sogno d’amore”.
Nel momento in cui prevaleva nel femminismo l’orgoglio dell’appartenenza di sesso, la voglia di “vivere con agio”, l’affermazione della fine del patriarcato, occuparsi del sogno d’amore -dal libro che stavo scrivendo alle rubriche di posta del cuore su “Ragazza In” e su “Noi donne”- fu visto da alcune come un tornare sulla “miseria femminile”. Per me ha voluto dire invece riprendere e approfondire l’intuizione originale del femminismo: il dualismo sessuale, la consapevolezza che le figure di genere non hanno dato forma solo a rapporti e gerarchie di potere tra uomini e donne, ma, come conseguenza della complementarità, anche all’amore tra i sessi, al sogno di ricongiungimento di “nature”diverse, e all’ideale di interezza dell’individuo.
Finché il maschile e il femminile sono visti come poli complementari, come se fossero le due metà di un intero, c’è nell’amore una “terribile necessità”.
Come spiegare altrimenti un’interiorizzazione della visione maschile del mondo così duratura? Come spiegare una subalternità così evidente delle donne nella vita pubblica, l’emancipazione come assimilazione al neutro? La difficoltà è pensare l’interezza del proprio essere fuori dall’ideale androgino, di cui parla Virginia Woolf.
La complementarità è ingannevole, ma esercita ancora una grande attrazione: basta pensare al protagonismo che hanno preso le due grandi attrattive delle femminilità nelle sfera pubblica: la maternità e la seduzione. Il processo di autonomia dai modelli interiorizzati ha ancora molta strada da fare. Ma, soprattutto, interessa uomini e donne, interroga la femminilità come la maschilità.