La costruzione patriarcale della ‘razza’

LA COSTRUZIONE PATRIARCALE DELLA “RAZZA”

(Dal profilo di Gianluca Carmosino)
Il “diverso” è sempre il frutto della reificazione di relazioni sociali nelle quali il dominio di alcuni viene cancellato per generare vite di scarto. Accade nei rapporti che creano povertà e razzismo, ma prima di tutto sessismo. Scrive Lea Melandri: «Oggi, “vite di scarto” sono quelle del povero, del vagabondo, del migrante visto come miserabile e spesso come delinquente, una presenza “selvaggia” che semina paura, fastidio, odio, per le strade della “civile” Europa. In questa schiera di indesiderati, da cui molti vorrebbero vedere ripulite le nostre città, entrano di tanto in tanto gli stupratori, soprattutto se stranieri…»

Articolo pubblicato il 6 settembre 2017 su Comune.info, clicca qui

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‘Il patriarca lascia il posto all’uomo femmina…

…ma è una partita tra maschi’

Dalle testimonianze e dalle inchieste che si vanno moltiplicando sulle esperienze di leadership femminile, emerge con chiarezza che è proprio la convergenza tra una crisi di sistema alla ricerca di nuove “risorse” e la tentazione mai tramontata nell’aspettativa di cittadinanza completa delle donne di vedere riconosciuto il “valore imprescindibile” della loro differenza, a ricomporre fuori dall’ambito domestico il sogno di armonia che è stato finora della coppia degli innamorati. Viene il sospetto che la civiltà che abbiamo ereditato non abbia mai smesso di attingere, materialmente e simbolicamente, alle “risorse” che ha confinato fuori dalla polis, perché restassero immobili, eternamente uguali come le leggi di natura. 

Troppo spesso si dimentica che le figure della differenza di genere, nella loro gerarchia e complementarità, strutturano rapporti di potere ma conservano anche il desiderio primordiale di un ideale ricongiungimento, la promessa del ritorno all’unità a due della nascita: fare di due nature diverse un solo essere armonioso. È questa “essenza di Eros”, l’amore nella sua forma originaria, che attraverso l’oblatività femminile, la dedizione alla cura dell’altro, mantiene la famiglia e per estensione la società stessa dentro vincoli di un’infantilizzazione tenera e violenta, dipendenze e prestazioni “ancillari” coperte da illusioni salvifiche?

Articolo pubblicato il 24 aprile 2016 su Corriere.it

La lingua dell’amore è quella del dominio

”Se invece di stupirci ogni volta delle donne che non denunciano la violenza maschile, o che difendono il loro aggressore, ci interrogassimo più a fondo su che cosa è stato finora l’amore?
Non smetterò mai di ripetere quanto amore e violenza siano intrecciati, e quanto ci sia ancora da indagare sulle tante ambiguità e contraddizioni di un dominio che si è innestato e confuso con la vita intima.”

Per leggere tutto il testo, con tutti i riferimenti alle fonti primarie, clicca qui

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Lea, perché?

“Chi pensa che il privato da non toccare siano solo “panni sporchi” della famiglia o “i sanitari del cesso”, è perfettamente in linea con la visione classica, storicamente accreditata, della politica che ha creduto di poter rinchiudere nelle case gli aspetti meno presentabili dell’umano, perché più vicini alla natura animale: i corpi, le donne, la sessualità, la malattia, la vecchiaia, la morte. Lo stesso si può dire di quanti, a destra e a sinistra, si affannano a ricordare che ci si sta dimenticando dei bisogni sociali “veri”, come se la volgarità, il voyeurismo, la bigotteria, non fossero il risvolto violento e deformante dell’insignificanza in cui sono tenuti da secoli di patriarcato la relazione tra i sessi, l’amore, la sessualità, la conservazione della vita, cioè quella parte enorme, insondata, della storia che ha al centro la persona nella sua interezza, e che solo la difesa del privilegio maschile ha potuto confinare in un immobile ordine di natura.”

Da ”Perché ‘il personale è politico’ resta solo uno slogan”, su Università delle Donne

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Sul patriarcato

Patriarcato:
un dominio lungo quanto la storia della specie umana, conosciuta finora, e forse per questo così radicato nell’inconscio collettivo da sembrare “naturale”.
Non permettiamo che le gravi ‘emergenze’ in cui ci troviamo finiscano per mettere in ombra ancora una volta la questione uomo-donna, che è alla radice di tante guerre di ieri e di oggi.
Cerchiamo i legami che ci sono sempre stati tra realtà sociali, economiche e politiche di ogni tempo e il dominio millenario di un sesso sull’altro.
Non lasciamoci spaventare dalla precocità degli stereotipi di genere, non rassegnamoci
alla loro presunta ‘normalità ‘.
Impariamo dai bambini a scoprire quello che resta così tenacemente sepolto nei nostri pregiudizi di adulti.


4 settembre 2015

Cosa dicono le foto dei bambini?

Dicono di guerre tra uomini e tra popoli che portano morte, povertà e distruzione.
Ma dicono anche della guerra mai dichiarata che ha sottomesso le donne agli uomini e che compare già inscritta precocemente (innocentemente) nei loro corpi.
Come si vede in una bella foto di Liliana Barchiesi.

Cosa si nasconde dietro la difesa della famiglia tradizionale

Articolo pubblicato su ‘L’Internazionale’ il 24 giugno 2015

La piazza piena di San Giovanni, in occasione della manifestazione del 20 giugno in difesa della famiglia tradizionale, non deve trarci in inganno: il cambiamento è già avvenuto e saranno proprio i figli, per la difesa dei quali padri e madri hanno deciso di manifestare, a viverlo con minori traumi e incertezze.

Dietro le proteste per l’apertura della scuola alle tematiche riguardanti la sessualità e le differenze di genere, non c’è solo il timore di veder crollare quelli che sono stati finora i fondamenti della genitorialità e dei ruoli familiari. Ben più profonda, radicata nell’atto fondativo delle civiltà a cui ha dato vita una comunità storica di soli uomini, è l’incertezza di una posizione “virile” perennemente minacciata dallo stesso impianto sociale che dovrebbe sostenerla: un legame di interessi, amicizie, amori, ideali condivisi tra simili. L’esclusione delle donne dalla scena pubblica non ha impedito che il “femminile” continuasse ad abitare questo impianto sociale, in quanto allo stesso tempo cemento indispensabile e mina vagante all’interno di una collettività omosociale.

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L’immaginario della dualità

Virginia Woolf, Silvia Plath, Amelia Rosselli, Inge Muller…
Quanto è costata alle donne “la creatività di spirito invece che di carne”?
(Sibilla Aleramo)
“Ti dissi che tutto il poco che una donna riesce a realizzare nel campo della poesia è il risultato di una tensione infinitamente più tremenda della tensione virile; ti dissi quanto immolatrice sia colei che tenta creazioni di spirito invece che di sangue.”
(…)
“Questa mia sotterranea, seconda vita…Questa corrente tacita di pensieri e di sentimenti…è questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia, violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sè, ma lui è uomo, e non ne muore…”
(Paola Redaelli, “Tra Scilla e Cariddi”, in “Lapis” n.30, giugno 1996)
“Ma se lo scrittore è donna?Scoprirà, prima o poi, di sentirsi ombra, che quello di sentirsi ombra è uno dei suoi segreti. Dovrà scrutare in quest’ombra che può nascondere l’abisso, il vuoto oppure un magma, un crogiuolo di presenze spaventose e apparentemente inconoscibili. E scriverne.
(…)
Nell’ombra c’è dunque il corpo femminile, con tutte le connotazioni fantastiche e simboliche che questo nome e questo aggettivo portano su di sé. Queste connotazioni sono tali per cui noi spesso non sentiamo, non ci rappresentiamo il corpo femminile come nostro, ma come qualcosa che è in noi e costantemente ci minaccia di diventare noi stesse, tutta la nostra identità. Fuori dall’ombra c’è invece la parola scritta, quella che ci difende, perché ‘ci crea’, dalle fastidiose parole corpo femminile che per tradizione farebbero parte del novero di quelle che si possono anche soltanto dire.”
La poetessa americana Hilda Doolittle, nota come H.D., nelle sue Note sul pensiero e la visione , scrive:
“Dobbiamo ‘innamorarci ‘ prima di poter afferrare i misteri della visione […] Le menti dei due innamorati si compenetrano […] Il cervello, ispirato ed esaltato da questo interscambio di idee assume il carattere di super-mente… ”
La via d’accesso all'”estasi” o alla “visione” è anche qui il corpo, un corpo fecondato dall’unione d’amore, perché possa farsi luogo di una nascita spirituale che lo trascende e lo consuma.
“Il corpo appariva una forma di vita elementare, priva di bellezza e transitoria. Tuttavia ancora una volta mi avvidi di come il corpo avesse la sua funzione. L’ostrica produce la perla infatti. Così il corpo, con tutte le sue emozioni e paure e sofferenze consumate nel tempo produce lo spirito […]. Immagino, tuttavia, che il corpo, come un pezzo di carbone, adempia alla sua funzione più alta quando si consuma “.
Anche quando si tratta di realizzare “opere di anima” e non “di carne”, il riferimento obbligato sembra essere la maternità biologica, quel “pertinace naturalismo”, quella “aderenza alla vita” che Boccioni rimproverava all’Aleramo, e che l’uomo ha soltanto risolto altrimenti: separandosene, riducendola al silenzio a rigo immaginario su cui intonare la propria parola.
Ma per la donna, che con quella matrice è stata identificata, il processo creativo del pensiero rischia di trasformarsi in “pellegrinaggio mistico”: un corpo che “rappresenta”,mentre la agisce, la sua consunzione e la sua trasfigurazione.
Il dualismo in tutte le sue forme -a partire da quello che ha segnato il destino dell’uomo e della donna – è stato finora il fondamento di tutte le civiltà, inscritto nella vita sociale ma anche “nell’oscurità dei corpi”, come dice Pierre Bourdieu. Finché si resta dentro queste polarità complementari, è chiaro che si può solo tentare una ricomposizione, che, non a caso, avviene sempre sul popolo maschile. Tale è la “mente androgina”, come mente creativa, di cui parla Virginia Woolf. L’esempio che fa è, non a caso, è quello di Shakespeare. Per ritrovare mente e corpo nel loro naturale essere inscindibile, occorre pertanto uscire dell’immaginario della dualità, che abbiamo ereditato e che ancora condizionata il nostro modo di pensare e di sentire.13418898_1777695312466389_2152427091482708103_n

Teneri figli, feroci assassini

Il “perturbante” sta dietro a ciò che ci è “famigliare”.
Genealogie di uomini, di padre in figlio si trasmettono da secoli lo stesso pendolarismo fra casa, lavoro e svago, sicuri di poter legittimare entrate e uscite con la libertà che spetta al loro sesso per un “naturale” privilegio. E’ una delle tante, quotidiane “invarianti” del rapporto tra uomo e donna, una di quelle infinitesimali violenze che non arriveranno mai alla ribalta di un giornale e che nessuno andrà mai a rintracciare, anche quando dal litigio tra coniugi o conviventi si dovesse passare alle mani e dalle mani al coltello. Nell’epoca in cui i capisaldi del potere dei padri, per naturale decrepitezza o inevitabili discontinuità dovute alle nuove acquisizioni della coscienza, cominciano a declinare, e le passioni stesse perdendo il loro smalto si fanno “tristi”, sembra che solo la violenza tragga dal mutamento in atto nuovo vigore.
Nel venir meno di modelli virili socialmente autorevoli, nel declino delle istituzioni che dietro la maschera della neutralità hanno sedimentato valori, gerarchie, privilegi, divisione di ruoli, nel lento decadimento dei miti della forza e dell’onore, è come se si fosse prosciugato il terreno in cui scompariva ogni volta un tenero figlio, ancora in odore di madre, per far crescere un coraggioso guerriero. A uno strappo violento -come quello che separa e differenzia il maschio dal corpo femminile da cui è nato e con cui si è a lungo confuso- sono servite nel tempo svariate forme di iniziazione, addestramento e fedeltà a nuovi codici di appartenenza, per facilitare il passaggio dalla famiglia alle comunità sociali dei suoi simili, come l’esercito e la chiesa.
Il copione della virilità, destinato a ripetersi quasi senza variazioni nel corso di una vita, poteva contare in passato su attori e parti note già nell’ambito famigliare, figure parentali irrigidite da obblighi, doveri, rituali domestici, distribuzione di poteri, visibilmente in consonanza con le strutture portanti della vita pubblica. Patriarchi contadini, abbruttiti dall’alcolismo, non riscuotevano per questo minore obbedienza e rispetto. La violenza si confondeva con la legge, con la tradizione, con le norme comportamentali, con l’esercizio di un potere considerato “naturale”. Senza quel supporto, fatto di carne e passione, nessun ordine avrebbe potuto durare così a lungo, resistere alle discontinuità della storia, all’assalto delle nuove generazioni.
Quando le donne hanno cominciato a scostarsi dal posto in cui sono state messe -svilite o esaltate immaginariamente-, anche la collocazione dell’uomo ha perso i suoi contorni definiti e indiscutibili. La libertà, di cui ha creduto di godere la comunità storica maschile, svincolandosi dalle condizioni prime, materiali, della sua sopravvivenza, ha mostrato impietosamente la sua inconsistenza, portando allo scoperto un retroterra fatto di fragilità, paure e insicurezza.
(da L.Melandri, “Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà”, Bollati Boringhieri 2011)

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Cara Laura Boldrini

Cara Laura Boldrini,
Leggo oggi su Repubblica (10 giugno 2016), a proposito della impressionante sequenza di omicidi di donne, la sua indignazione e il suo giusto richiamo perché “Dai politici alla Tv, ognuno faccia la sua parte”.
Mi permetta di obiettare.
In questo Paese, che lei chiama a mobilitarsi in tutte le sue componenti, politici e tv -ma io aggiungo intellettuali, opinionisti, scrittori, professionisti,ecc.- la loro ‘parte” , riguardo alla barbarie perdurante nella relazione tra i sessi, l’hanno sempre fatta, ed è stata quella di passare sotto silenzio per non dire di osteggiare apertamente, il pensiero, le pratiche, l’impegno volontario, nati da quasi mezzo secolo di femminismo.
All’occorrenza si è parlato di “silenzio del femminismo”, quando serviva per una qualsiasi causa politica che le donne scendessero in piazza. Ma per il resto si è preferito decidere che fosse “muto” o “defunto”, pur di non aprire uno spazio e dare voce all’ unica cultura che in Italia ha scavato e continua a scavare a fondo in un dominio del tutto particolare, come quello maschile, che passa attraverso le vicende più intime, come la maternità e la sessualità, e che forse proprio per questo vede perversamente intrecciati amore e potere, amore e violenza.
Non parliamo poi della marginalizzazione a cui vanno incontro i centri antiviolenza, come conseguenza del “Piano straordinario d’azione”, appena approvato, che li nomina a malapena, come servizi sociali, Terzi settore, e non come i luoghi che hanno esteso da decenni all’accoglienza e alla tutela delle vittime la pratica di ascolto che è stata dell’autocoscienza, la difesa dell’autonomia e delle consapevolezze nuove venute d movimento delle donne degli anni ’70.
E infine: se vogliamo che siano gli uomini a rendersi conto che questa violenza “li riguarda”, in quanto legata alla storia e alla cultura del maschile come “genere”, perché non dare la visibilità che meritano alle associazioni come “‘Maschile Plurale” che da decenni si interrogano sulla “virilità”, su ciò che gli uomini hanno da guadagnare e non solo da perdere dalla libertà delle donne?
Questa è la “parte”, l’assunzione di responsabilità che molte di noi, femministe di diverse generazioni, pazientemente rabbiosamente aspettiamo da tempo.
Lea Melandri