Nicole Blanch

Nicoletta Buonapace (Nicole Blanch) poeta e amica carissima, presenza importante nella storia della Lud.

Nota biografica
Nata nel 1960 a Livorno, Nicoletta Buonapace, vive e lavora a Milano, dove si occupa di scrittura e politica delle donne all’interno della Libera Università delle Donne.
S’impegna in contesti a orientamento sessuale e di genere specifici, per la costruzone di una cultura del rispetto e della valorizzazione di tutte le diversità.
Suoi versi, riflessioni e racconti, sono presenti in antologie e riviste.
Ha pubblicato una silloge di poesie, “Icara” con Castalia Edizioni, e un poemetto “Come l’ombra di una nuvola“, Quaderni della Fondazione Sandro Penna.
I testi qui raccolti sono inediti, tranne alcune poesie pubblicate in Il monte Analogo, rivista di poesia e ricerca, n. 7 del maggio 2008.

A volte le parole
cadono nel nero
un dolore stranito
una vecchia luna
incrostata d’inchiostro
profilo celato
nell’ombra
delle cose
pallido
lume
a consolare
questa notte
di ferro e muri
un dramma
di giorni sgranati
un canovaccio
scritto nel sangue
poesia
voce di canapa
lanciata
dalla prua
di un battello
ancora una bracciata
sussurra
ancora una
sopra il vuoto nero
del mare

n.b.

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Pasqua in poesia

Ricevo e pubblico con piacere il poemetto “più pasoliniano” di Sotirios Pastakas a detta di alcuni -a ragione- il suo “canto del cigno”: “RAPSANI”. “Alla mamma”.

A Sotirios gli auguri dagli amichi e dalle amiche che in Italia lo leggono con interesse ed emozione, soprattutto dopo la pubblicazione della raccolta di poesie “Corpo a corpo” (Multimedia Edizioni, Salerno 2016).

Sotirios PASTAKAS
RAPSANI
Alla mamma
Una kawasaki nera
inchiodata sui suoi pedali
all’ombra di un olmo,
mille cento cc
seduti per terra,
una mosca sulla faccia
della mamma a sinistra
della mascherina di ossigeno,
a destra della mano sinistra
con l’ago a farfalla
della quadrupla infusione intravena
poco più in su
del catetere.
Adesso si sbarazza delle lenzuola
come si spogliava in nostra presenza
nel capanno di paglia
a Tsàghesi: poichè
aveva visto il sole
starsene immobile
sopra la città di
Làrissa esattamente
alle dodici del mezzodì,
e noi per la prima volta
vedemmo per la prima volta
il culo ignudo
di nostra madre
e odorava di umida sabbia
quella fessura
tra le sue cosce,
sentor di canne
e paglia secca,
una fetta di melone
in mezzo alle sue cosce,
sentor di neve giovinetta,
come odora la campagna
le felci, gli escrementi,
le mosche cavalline, la fresca
pagnotta, il pomodoro
addentato a piena bocca
quando ci imbeccava
con le sue stesse mani.
E come teniamo in mano
stretta la pesca
un attimo prima di morderla,
tutta la notte la mano
le stringevo che voleva
strappare i tubicini
dell’ossigeno dal naso,
il catetere dalla fica,
la fica di nostra madre:
sapor di melomakàrono
e kurabiès al burro,
una fetta di pane spolverata
di zucchero e olio, talvolta
di cacao, uova strapazzate
rosse di pomodoro,
col materasso sul pavimento
in mezzo agli odori delle piote
non lavate e dei calzini frusti,
odor di focaccia al formaggio,
quando la prima volta vedemmo
il culo di nostra madre,
burek e sàmali,
turdilli e ravanì,
gombi e carciofi,
le sue due chiappe
con l’odor del mare
marcio e della stella marina
prosciugata sotto il sole,
pane ammuffito
e formaggio feta inverdito.
Ed erano una volta verdi
le acque e azzurre
a Tsàghesi, poi,
quando divenne Stòmio
papà ci trasferì
ad una stanza in affitto.
Quel capanno accanto all’onda
rivendicarono quelli che
non avevano ancora una radio,
non andavano a prendere
pile all’edicola
insieme ai topolino e romanzo,
il commissario Maigret,
i primi Asterix
e Al Bano –
ormai diventava cosa corrente
costruire alloggi abusivi
da Ajòkambos
a Velìka, Xinò Nerò
fino a Messàgala,
Nei Pòri,
Platamonas
e, più oltre: Skotìna,
Leptokarià, Litòchoro
e il litorale di Katerini.
Dovunque io volga lo sguardo
oggi che la mamma sta morendo
tutte le case sono aperte,
tutte le spiagge occupate,
il popolino abbandonato
al divino mese di luglio,
dopo aver vissuto l’epopea
della casa di campagna,
dal capanno di paglia
alle camere in affitto,
e edificato senza corrente
elettrica, senza acqua, fuori piano
regolatore, sì, e fuori da Làrissa città,
all’ombra delle buganvillee
dei gelsomini e degli alberi da frutta,
le unghie rosse dei piedi,
e aggiustato un po’ la cellulite
alle cosce e al pancino,
madri che si portavano le pettinatrici
da una casa all’altra, si smagliavano
(facilmente si smagliavano i primi)
i collant, si aprivan le maglie
le accomodavano coi rammendi.
Preparavano la dote
con le Singer a pedale,
cucivano, scucivano, ricamavano,
aprivano una finestra
all’iniziale pianta della “villa”,
vi aggiungevano un terrazzino,
una piccola veranda, una scala a corda
(eran testoni i loro mariti,
ma obbedienti: compravano dal macellaio
e portavano sempre una scatola
di pasticcini la domenica e le feste).
Ci crescevano a furia di botte al sedere,
ci punivano, ci smerdavano
ed era instancabile la nostra mamma:
erano lucide le sue ginocchiere
lungo i tornanti
guidando la millecento
che la portava a Rapsani
a gustarsi poi un’ anisetta
con noi in dolce compagnia sulla piazza,
sotto i platani che stormivano
e l’Orologio Comunale, prima di
prender da sola la strada per Sant’Attanasio,
la salita, su sedie di vimini
aveva sistemato il culo ,
quello che mi aveva svelato
quando avevo otto anni
a Tsàghesi e quello che adesso
mi mostra all’Ospedale Generale
di Làrissa, e ancora mi ubbriaca,
col flusso dell’acqua
chiara che scorre nel solco,
quell’odore preciso
della sacca per urine,
l’esalazione della carne
febbricitante, lo strazio
degli intestini, le feci,
le salive, le secrezioni,
il fetore del fico
che spinge i suoi rami
attraverso le finestre
della casa sventrata,
un insistente ronzio di mosche,
innumerevoli mosche
che hanno invaso all’improvviso
la corsia a quattro letti
dei moribondi. Così,
come la nostra mamma
e le mamme degli altri
abbandonano la vita,
ognuna nel proprio letto
con una bracciata di aghi di pino,
un fascio di paglia nelle mani,
un ciuffo di foglie di tabacco,
con gli aghi delle querce
a bruciar loro ancora le dita,
la teglia uscita dal forno
per il pranzo della domenica,
le ferite aperte
per le parole che talora nella rabbia
pronunciammo, tutti noi,
un mazzetto di origano,
un grembiule pieno di arance,
nella mano un solo, orgoglioso
melograno per il Capodanno,
e un cero per la Pasqua
per sempre acceso nella nostra memoria.
Mamma, smettila di giocare a nascondino.
Sei la mosca
immobile sopra il nostro naso
ogni volta che ci svegliamo
a mezzogiorno inoltrato la domenica
a Rapsani.

Traduzione Crescenzio Sangiglio

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Istantanee

Risveglia nere cortecce rinsecchite
smarrisce i piedi di una città
infagottata nelle ultime insidie
dell’inverno
sorprende i pensieri
di chi ha sepolto
insieme ai parenti
le sue radici di terra.
È il primo verde milanese.

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Se poesia e politica parlano la stessa lingua.

Il 12 aprile 1987 usciva su “L’Espresso” questo articolo di Elvio Fachinelli. A distanza di circa trent’anni, e pensando alle manifestazioni imprevedibili e sorprendenti (soprattutto dopo gli attentati terroristici di questi mesi) che stanno avvenendo in Francia, ho deciso di riproporlo per la sua profetica lucidità.

Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli*
1987
Il mutamento dei costumi sessuali in Occidente (per favore, non la
«rivoluzione») comincia molto tempo fa, forse all’epoca di Abelardo
ed Eloisa. Ma per limitarci agli ultimi vent’anni in Italia, sentiamo e
sappiamo che ci sono notevoli differenze fra i settanta e gli ottanta.
Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto
a tentativi di uscire dalla famiglia, di far fuori la famiglia, l’esecrata
famiglia. C’è una specie di diffusa fobia per questa istituzione,
vista come luogo chiuso, coatto, defecatorio.
Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche
soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi
si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in
là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi, una bella
contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi, eppure aguzzi, e taglienti
per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la
pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti,
svaniti, introvabili.
Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella
che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non
c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì
andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto
enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà (chi ha
mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che
è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove
* «L’Espresso», n. 14, 12 aprile 1987.
chissà quando. Anche con l’Aids, nuova cintura di castità, ombrello
sanitario, castigo degli infedeli. «Va’, va’, povero untorello, non sarai
tu che schianterai Metropoli».1 E anche nella reintegrata famiglia reaganiana,
che si vuole a guscio pieno, non vuoto, muro solido, non friabile,
e che a guardarla da vicino è invece piuttosto spesso una riunione
di single che stanno lì soprattutto per i figli.
Ed ecco i single, appunto, parola abbastanza nuova, però quasi un
emblema, che contrassegna tanti tipi strani, diversi, spesso infelici (ma
chi ha mai detto che la felicità del sesso stia in quell’idiota sorriso di
redenzione che aleggia sui volti dei «liberati sessuali»?). Tanti tipi
diversi uniti forse dall’essere eredi non testamentari, o continuatori
casuali, ricercatori extrafamiliari degli anni settanta che scoprivano
amori fantastici, irregolari, anche un po’ impossibili. Amori abbastanza
vicini a quelli che albeggiano oggi dalle videocassette nelle camere
dei single, prima di dormire o di vegliare; amori di sogno, o d’occasione,
o di crociera immaginaria, insomma amori di solitudini comuni,
come quelli delle comunità solitarie sparite nel vuoto verso la fine
degli anni settanta.
Che bella «rivoluzione»: oggi siamo tutti soli 1219
1 [Allusione alla battuta del monatto che scambia Renzo per untore e gli dice appunto: «Va’,
va’, povero untorello […] non sarai tu quello che spianti Milano» (A. Manzoni, I promessi sposi,
a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1964, cap. 34, p. 831)].

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“La verità, vi prego, sulla psicoanalisi”

“La verità, vi prego, sulla psicoanalisi” è un saggio di Vittorio Lingiardi pubblicato nel libro a cura di Nicole Janigro, “Della vocazione della psiche. Undici terapeuti si raccontano”, Einaudi 2015.
Psichiatra, psicoanalista e poeta, Lingiardi scrive:
“Pensare poeticamente mi sostiene e spesso mi governa. Ho iniziato a scrivere poesie intorno ai vent’anni. Mia madre si era ammalata e morì di li a poco. Poi ho capito che la poesia era un modo per dare una forma al dolore. Quindi per contenerlo, e anche conoscerlo. Con il tempo ho scoperto che ogni grande affetto ha una sua forma, e così ho iniziato a scrivere anche per l’amore e non solo per la morte.
La poesia, la costruzione del verso, è diventata il mio modo di osservare il mondo.”
Vittorio Lingiardi, “Alterazioni del ritmo”, Nottetempo 2015
“Non c’è più precisione in questo amore.
La confusione ha vinto ed al poeta
non è stato risparmiato il disonore.”
“La maggior parte del tempo
era passato
nel desiderio di sentirsi amato”
“Non so spiegarti come
ma il corpo mi ossessiona:
nella sua forma astratta
lo guardo e mi appassiona,
è come una bestiola
che piange e mi consola.”
“Vogliamo bene alle cose
per la loro pazienza di restare.
Vicino a noi, per anni
senza mai cambiare.”
“Soavemente lappone
poi duramente egea
non era il mimetismo
ma il viso del paesaggio
che ti faceva dea.”
Nota biografica:
Vittorio Lingiardi è psichiatra e psicoanalista. Insegna alla Sapienza,
Università di Roma. La sua precedente raccolta si intitola “La confusione è precisa in amore” (Nottetempo 2012)

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Dal discorso di Wislawa Szymborska

“L’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato, e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so”. ”

(da “il discorso di Wislawa Szymborska tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel”, 7 dicembre 1996)

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