Psicanalisi e femminismo

Nel documento “Pratica dell’inconscio e movimento delle donne” di Alcune femministe milanesi del 1975 si legge:

“…nella lotta per la nostra liberazione troviamo un nodo problematico, la sessualità, il corpo. Se si decide di non passare oltre con trovate ideologiche, è inevitabile fare i conti con la psicanalisi.”

Di questa importante intuizione iniziale del femminismo poco è rimasto. Oggi, di fronte alla sequenza di stupri e femminicidi, e più in generale al dibattito che finalmente si è aperto sulle questioni di genere, sessismo e razzismo, dovremmo sentirla ancora più necessaria.
Punire gli aggressori, tutelare le vittime, sostenere i centri antiviolenza, manifestare non basta, se contemporaneamente non si continuano a indagare le ragioni profonde di un dominio che passa attraverso i corpi e la vita intima.

Riletture per frammenti:

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi. La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.

“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato. L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”

“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui.

La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche.

In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto. Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, che si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali. E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”

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“La verità, vi prego, sulla psicoanalisi”

“La verità, vi prego, sulla psicoanalisi” è un saggio di Vittorio Lingiardi pubblicato nel libro a cura di Nicole Janigro, “Della vocazione della psiche. Undici terapeuti si raccontano”, Einaudi 2015.
Psichiatra, psicoanalista e poeta, Lingiardi scrive:
“Pensare poeticamente mi sostiene e spesso mi governa. Ho iniziato a scrivere poesie intorno ai vent’anni. Mia madre si era ammalata e morì di li a poco. Poi ho capito che la poesia era un modo per dare una forma al dolore. Quindi per contenerlo, e anche conoscerlo. Con il tempo ho scoperto che ogni grande affetto ha una sua forma, e così ho iniziato a scrivere anche per l’amore e non solo per la morte.
La poesia, la costruzione del verso, è diventata il mio modo di osservare il mondo.”
Vittorio Lingiardi, “Alterazioni del ritmo”, Nottetempo 2015
“Non c’è più precisione in questo amore.
La confusione ha vinto ed al poeta
non è stato risparmiato il disonore.”
“La maggior parte del tempo
era passato
nel desiderio di sentirsi amato”
“Non so spiegarti come
ma il corpo mi ossessiona:
nella sua forma astratta
lo guardo e mi appassiona,
è come una bestiola
che piange e mi consola.”
“Vogliamo bene alle cose
per la loro pazienza di restare.
Vicino a noi, per anni
senza mai cambiare.”
“Soavemente lappone
poi duramente egea
non era il mimetismo
ma il viso del paesaggio
che ti faceva dea.”
Nota biografica:
Vittorio Lingiardi è psichiatra e psicoanalista. Insegna alla Sapienza,
Università di Roma. La sua precedente raccolta si intitola “La confusione è precisa in amore” (Nottetempo 2012)

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Psicanalisi e femminismo: alla ricerca di nessi

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi.
La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.
“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato.
L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”
“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui.
La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche. In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto.
Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, che si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali.
E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”
(da L.M., “Una visceralità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne”, Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2000)

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FREUD, JUNG E LA CLASSE DOMINANTE

Scrive Nicola Ghezzani:

‘Quando si parla di Freud e di Jung il più delle volte si dimentica che si tratta di due sconfitti. Ci si concentra sul conflitto fra loro, che in effetti li accompagnò tutta la vita, ma si dimentica che essi sono stati degli esclusi.
Per tutto l’arco della sua vita professionale, Freud ha anelato alla cattedra universitaria, il che avrebbe voluto dire far parte della potente classe degli psichiatri (Freud era un neurologo, ma ciò non costituiva un ostacolo: all’epoca psichiatria e neurologia erano discipline affini). Quando Freud accolse Jung nella sua cerchia psicoanalitica, lo fece anche in vista del fatto che il giovane svizzero era già uno psichiatra molto famoso e che, essendo il vice di Eugen Bleuler presso il Burghölzli (il celebre ospedale psichiatrico di Zurigo, di cui Bleuler era direttore), era destinato a diventare uno dei dieci psichiatri più potenti del mondo. Inoltre Freud era un ebreo e Jung invece poteva non solo vantare natali ariani, ma anche uno spirito di intraprendenza e un attivismo rari anche ai suoi tempi.
Come si sa, l’avance di Freud andò male. Dopo pochi anni i due litigarono a morte e si separarono con reciproca acrimonia. Freud non aveva saputo valutare il carattere di Jung. Stupisce che il padre della psicoanalisi non si fosse posto la domanda più semplice, nel loro caso: «Perché mai un superiore dovrebbe cercare un inferiore?» Freud era superiore a Jung quanto a età e a fama nel mondo culturale (artistico e letterario, non psichiatrico), ma era decisamente inferiore quanto a classe sociale. Freud era un escluso dal mondo accademico, che soffrì tutta la vita della sua esclusione; Jung invece era il pupillo della grande psichiatria internazionale. Ebbene, Jung (di classe superiore) cercò Freud (di classe inferiore) perché era un ribelle e stava per abbandonare tutti i suoi privilegi. Il suo carattere impetuoso e orgoglioso gli impediva di aderire ai mantra della psichiatria accademica. Infatti, Freud servì a Jung per maturare una sua fantasia da bohémien, dopo di che ruppe con Freud, ruppe sia con la psicoanalisi che con la psichiatria, abbandonò Bleuler, si dimise dall’incarico universitario e si dedicò alla professione privata. Divenne di fatto un “artista” della psicoterapia. Diede vita alla sua psicologia e alla sua scuola, che pian piano si diffusero nel mondo; mentre Freud ebbe largo successo grazie alla sua espansione soprattutto nel mondo anglosassone.
Il loro parrebbe dunque un percorso premiato dalla Storia. In realtà, sia Freud che Jung furono due sconfitti, ma per motivi diversi. Freud fu uno sconfitto perché escluso dalla neurologia e dalla psichiatria accademiche: avrebbe voluto colonizzarle e invece subì il rifiuto sprezzante da parte della grande e privilegiata classe degli accademici, che lo tennero a distanza. Jung, che odiava l’accademia, si autoescluse dal Gotha della psichiatria mondiale. Fu a sua volta uno sconfitto perché rinunciò a far parte della Storia della scienza per diventare quel mahatma che poi in effetti divenne.
Chi fu il vincitore? Ma è ovvio! Il vero vincitore fu la psichiatria organicista accademica, che infatti è anche oggi in testa alla classifica mondiale del potere di gestione delle coscienze umane. La psichiatria organicista ha il controllo del 90% della psicopatologia mondiale, è in stretta sorellanza di interessi con la potentissima industria farmaceutica, ha cooptato a sé la ricerca neuroscientifica e si appresta a sbarcare nel nuovo continente dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie. Il giro di affari è immenso. Solo per fare un piccolo esempio: l’Abilify, di Otsuka Holdings, è un antipsicotico, quindi uno psicofarmaco di uso piuttosto raro (indicato nel trattamento della schizofrenia negli adulti e negli adolescenti dai 15 anni in su, oltre che degli episodi maniacali del disturbo bipolare): ebbene, questo farmaco fattura da solo 6 miliardi di dollari l’anno. Un tale bilancio (parliamo di uno psicofarmaco raro, non di ansiolitici e antipressivi, che fatturano dieci volte tanto) sovrasta i profitti di qualsivoglia odierna corrente psicoterapeutica. Aggiungo: la formazione psichiatrica (in Italia e altrove) è fornita dallo Stato, quindi è istituzionale; quella psicoterapeutica è affidata a una miriade di piccole scuole in competizione e in perpetuo litigio fra loro (oltre che interamente a spese del candidato). Il mondo della psichiatria è un grigio monolite in cui non litiga mai nessuno; la psicoterapia è una Babele scontrosa e priva di solidarietà.
Intendiamoci, la vita e l’esperienza culturale di Freud e di Jung sono state comunque un successo, ed è bene rimarcarlo: essi hanno posto le basi della moderna psicoterapia, che rappresenta pur sempre l’alternativa elitaria alla psichiatria di massa. In tal senso hanno donato (a tutti noi che crediamo che la maturazione del pensiero sia lo strumento per la guarigione della psiche) una base di cui non possiamo più fare a meno. Ma in un certo senso essi si sono dovuti entrambi accontentare di poteri “locali”: Freud di una Società Psicoanalitica che ha prodotto ricerca relazionale e poi, nei paesi anglosassoni, anche sociale; Jung di aver posto il seme dell’antipsichiatria (essendo stato in fondo l’antesignano di tale corrente) e di aver contribuito allo sviluppo della controcultura europea e della new age americana.
Nella vita privata sia Freud che Jung furono benestanti (fra l’altro Jung sposò una donna ricchissima) e oggetto di un culto personale crescente. Ma anche questo in fondo può essere l’ambiguo segno di una sconfitta. La psichiatria organicista classificatoria fondò il suo statuto e il suo potere fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento coi nomi di Wilhelm Griesinger, Emil Kraepelin, Eugen Bleuler e Karl Jaspers, dopo di ché non ebbe mai più né scismi né innovazioni, quindi non ebbe più bisogno di idee e nomi nuovi (come appresero a loro spese i grandi antipsichiatri Franco Basaglia e Ronald D. Laing, morto l’uno di tumore a 56 anni, l’altro di infarto a 61 anni).
Un potere consolidato (come quello psichiatrico, alla stessa stregua di un potere religioso o politico) ha bisogno solo di una Bibbia (nel caso della psichiatria è il DSM): non ha più alcuna necessità di produrre innovazioni, né ha bisogno di elevare templi ai propri guru. Il vero potere cancella sempre gli individui che lo hanno creato. Al massimo ne fa delle icone da cartolina, non scava mai nelle loro vite. Il vero potere crea la propria casta, poi un sistema di caste sottomesse, infine cancella le tracce del proprio percorso. Fa della Storia una pagina bianca.’

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Psicanalisi e femminismo: alla ricerca di nessi

“Il femminile e il dualismo sessuale tendono a essere visti –negli studi di genere- solo come costruzione del pensiero e della volontà di potere dell’uomo, strumenti ideologici per giustificare il suo dominio, e non, come si potrebbe ipotizzare, prima di tutto rappresentazioni psichiche profonde dei desideri, delle paure, dei sogni che si formano intorno all’esperienza della nascita. Se oggi è difficile scindere interiorità e storia, ciò non significa che si possano appiattire l’una sull’altra, anziché coglierne i nessi. La riduzione al fattore culturale –storia, linguaggio, ec.- di un processo che tocca zone di inconsapevolezza (la vicenda originaria della specie e di ogni singolo), nell’uomo come nella donna, fa sparire l’interesse per la vita psichica, per il rapporto inconscio-coscienza, e quindi anche per il contributo dato dalla psicanalisi alla comprensione dei movimenti sotterranei che hanno dato forma allo sviluppo degli individui e della civiltà”.
“Altro effetto di riduzione e semplificazione è quello che vede il potere dell’uomo solo come potere del padre e, di riflesso, l’alleanza possibile tra la madre e il figlio, tra la donna e il giovane, entrambi vittime dell’autorità paterna. Si può pensare invece che la comunità storica degli uomini sia l’esito (e poi la causa) di quel processo di differenziazione che vede ogni volta il figlio staccarsi con sentimenti opposti, di amore e di odio, desiderio e paura, dal corpo che l’ha generato. L’immagine di un corpo femminile che dà la vita ma che può anche soffocarla, non è solo l’effetto della cultura dell’uomo; non è difficile ipotizzare che sia legata anche all’esperienza dell’inermità iniziale di ogni nato, e dell’essere stato tutt’uno con il corpo materno.”
“Per abbandonare l’identificazione con l’uomo (col suo desiderio, col suo piacere) è necessario analizzare la complessità della vita psichica, le fantasie, i sentimenti che hanno permesso la confusione tra piacere e sofferenza, tra piacere proprio e piacere dell’altro. Se si tiene conto che il dominio maschile emerge dalla zona di inconsapevolezza che avvolge vicende come la nascita e l’uscita da una condizione di animalità, che come tali riguardano entrambi i sessi, risulta semplificante liquidare come ‘schiavitù’ il ‘coinvolgimento emotivo’ della donna, la sua ‘capacità di accordarsi e favorire’ il desiderio altrui. La ricerca di ‘differenze’ già date e di ‘autenticità’ ha bisogno invece di spartire i campi in modo netto: nessuna confusione tra i sessi, nessuna ambivalenza, nessuna identificazione o integrazione reciproca. Il dualismo sessuale viene interpretato solo sulla base del dominio storico dell’uomo (imposizione di un privilegio), quindi liberato dalla contraddittorietà delle figure di genere (il maschile e il femminile parlano anche il linguaggio dell’amore, della seduzione, della tenerezza), o, viceversa, sulla base di differenze fisiologiche. In mezzo, tra biologia e storia, il vuoto. Tra una sponda e l’altra viene meno tutta la tessitura della vita psichica, ce si rivela invece quando andiamo a leggere dentro le storie personali. E’ nella vita dei singoli, infatti, che possiamo trovare questo intreccio, queste connessioni indistinguibili fra l’eredità biologica e la vita psichica, la cultura e la storia che vi sono cresciute sopra e che hanno ovviamente influito sull’interiorità.”
“Psicanalisi e femminismo sembrano dunque collocarsi su orizzonti paralleli e contrapposti, messi rispettivamente a rappresentare da una parte la ragione storica dell’uomo (la sua supremazia, il suo privilegio, ma, soprattutto, la giustificazione scientifica del suo dominio) e, dall’altra, la nascita della coscienza femminile. Per produrre un effetto radicale di differenziazione, viene messa totalmente in ombra la contraddittorietà della scoperta di Freud, l’aprirsi di un campo di ricerca che avrebbe consentito di guardare dentro il suo stesso impianto interpretativo -discorsivo, linguistico-, per coglierne le radici inconsce; che avrebbe permesso di rileggere lo stesso Freud mostrando, dentro la sua costruzione teorica ‘patriarcale’, il sogno dell’uomo-figlio, e quindi anche le spinte capaci di intaccare la supremazia maschile.”