Il circolo degli uomini – ‘L’ultimo paradosso’ di Alberto Asor Rosa

In attesa che qualcosa cambi…qualche consapevolezza in più sulla comunità storica degli uomini.

IL CIRCOLO DEGLI UOMINI

Nel libro, “L’ultimo Paradosso” (Einaudi 1986), presentato come “un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”, ALBERTO ASOR ROSA scrive:

“Uomini. Sediamo da secoli in gruppo intorno ad una tavola -non importa se rotonda o quadrata- impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incutere timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti solamente perché c’è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo,
alla nostra dignità: al nostro essere-per-sé, custodito da un simulacro d’acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni: e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo di piacere e di dar piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione a uscire a respirare aria pura. Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo dei nostri compagni, attraverso la fessura della celata…e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia – non appena sguardo con sguardo di nuovo s’incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano-, e scopriamo che non potremo mai lasciarli…L’unico
passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo della maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno.”

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Un’adorazione vorace

Grazie Marco Dotti
” Si può parlare dell’amore per i bambini anche per il pedofilo”?
-“tali disastri possono essere generati dall’amore stesso?”
-“come è possibile che gli adulti, che sicuramente amano i bambini, siano in grado di infliggere loro anche tanti supplizi?”.
In altre parole: che cosa lega l’amore alla violenza, l’attrazione per ciò che il bambino rappresenta -la vita che si rigenera, la nostalgia della beatitudine infantile, il corpo a corpo con la madre, l’immortalità, ecc.- e le pulsioni distruttive? Un interrogativo che potremmo porci anche per i rapporti di coppia, per le relazioni amorose adulte: non si uccide una donna per amore, ma l’amore c’entra, se è vero che a uccidere sono mariti, fidanzati, amanti, cioè persone legate sentimentalmente alla vittima.

Articolo pubblicato l’8.II.2017 “Tysm”. Last accessed 8 febbraio 2017. Per leggerlo tutto, clicca qui

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Eredi di una libertà controversa

“La violenza più insidiosa e più lenta da sradicare si capi’ allora che era l’aver forzatamente fatta propria la rappresentazione del mondo dettata dal sesso vincente, la collusione involontaria tra la vittima e l’aggressore. Si prospettava un processo di liberazione e di autonomia che abbracciava territori di esperienza fino allora separati e contrapposti –la famiglia e la società, la sessualità e la politica, l’individuo e la collettività, la biologia e la storia- per il quale non sarebbe bastata certo una generazione.”

Da un articolo pubblicato su tysm il 21.I.2016, per leggerlo clicca qui

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“UN AMICO E’ UN LUOGO DI TRANQUILLO DEPOSITO DI SÉ'”

(Rossana Rossanda)
La gratuità dell’amicizia – come dice Rossanda- sta nel dare senza togliere, nel lasciare che uno si ponga di fronte all’altro per quello che è, senza infingimenti, senza ricatti silenziosi o aspettative nascoste. Dove non c’è aggrappamento, indispensabilità reciproca, non c’è tentazione di fuga né ansia di possesso. L’amico si incontra senza risentimento per la lunga assenza, e dal silenzio che è calato in mezzo il discorso riprende come se non fosse mai stato interrotto. Difficile darne una definizione più precisa e suggestiva: “un tranquillo deposito di sé”.
Aggiungo: c’è da sperare che un giorno si possa dire lo stesso dell’amore.

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La ”risorsa dell’intimità”

Francois Jullien, “Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’Amore”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013
Un libro insolito, che apre alla speranza di poter portare l’ amore “oltre le frontiere del narcisismo”, dentro cui sembra sia rimasto impigliato finora, col suo carico di tenerezza e violenza.
Alcuni frammenti:
“Ma affrontare una cosa così singolare come l’intimità non comporterà forse ‘filosofare in altro modo’? L’intimità non indica, infatti, proprio ciò che più resiste all’astrazione e, quindi, al concetto?”
“Ma insisterò soprattutto sulla necessità in cui ci troviamo, oggi, in un’Europa che si disgrega, ma le cui categorie mentali, più che unificare, standardizzano il mondo intero: la necessità di ripensare l’originalità della cultura europea e di misurarne anzitutto la storicità. A questo proposito l’emergere dell’intimità servirà da rivelatore (…) In particolare, tornare su ciò che, nel nostro pensiero, abbiamo a tal punto assimilato e di cui abbiamo a tal punto occultato i pregiudizi da prenderli come un’evidenza: non li pensiamo più –non ci pensiamo più a pensarli.
E’ proprio il caso dell’ “Amore”, uno dei grandi miti dell’Occidente. Ma da questo mito, come uscirne? Più che “liberararsene”, come svincolarsene?
“…l’intimità è legata al pensiero che si lascia andare, che è più portato a raccogliere che non a cogliere –in altri termini, la necessità di abbandonarsi la rende più difficile da catturare. In quanto pregnante e non distinguibile, è la cosa più fugace ma al tempo stesso più aperta; è evasiva e perciò in appropriabile, ma è anche la più personale; si associa a un luogo, a un’ora, s’impregna d’un paesaggio, si afferra in modo circostanziato e ambientale. Più che studiarla la si ricorda; o meglio, più che ricordarsela torna in mente in modo incidentale; e quando succede, vorremmo più ‘confidarla’ che non confessarla. Da qui il fatto che tende più a essere condivisa che non a farsi ‘conoscere’”.
“L’intimità usa attivamente il silenzio, fa parlare i gesti, gli sguardi, un sorriso, un tono di voce. I gesti, più delle parole, sono vettori e staffette dell’intimità e la rendono effettiva, al cui confronto la parola è ciarliera e limitata; frena nel momento stesso in cui enuncia, crea un blocco e una resistenza, invece di lasciar passare (…) è la sfida più alta portata all’impero del logos; non si lascia andare alla facilità di dire e anche di ‘dire tutto’, di determinare e credere di controllare, ma insinua, stringe tacitamente un accordo, lo propaga e lo fa progredire.”
“Guardandola che mi guarda è come se l’accompagnassi in me stesso: sono passato ‘dall’altra parte’, al tempo stesso che la mia si apre (…) attraverso il suo sguardo incomincio a percepirmi da fuori. L’ho chiamata ‘dolcezza’, la dolcezza dello sguardo dell’Altro su di me, ma non ha niente di affettivo o di psicologico, prende una piega metafisica, diventando una categoria innata: dice che la frontiera è caduta, libera dall’iniziativa del soggetto, sostituisce l’ambiente, il complice, all’eterna frontalità. Come ci si guarda, ci si racconta: come ci si può guardare per ore, ci si può raccontare senza annoiarsi. Raccontar-si non significa tanto, d’altronde, raccontare un ‘sé’ prendendosi oggetto del dire, perché non è la forma riflessiva del verbo, ma esprime la relazione reciproca. Ci si racconta, cioè dall’uno all’altro, come ci si parla: ‘raccontarsi’ l’un l’altro è anche un modo di attivare la riflessività e reciprocità dell’intimità e non ha altro fine.”

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Gli amori degli uomini e delle donne

Un augurio per il Nuovo Anno

“C’è nell’amore una terribile necessità” (Agnese Seranis).
Quando gli uomini riusciranno a svelare, come ha fatto Sibilla Aleramo, per sé e per le donne che sono venute dopo, quale “terribile necessità” si cela nel loro modo di amare , avremo sicuramente un’umanità migliore, meno sofferenza nelle relazioni amorose per entrambi i sessi.

SIBILLA ALERAMO .Frammenti di lucida intuizione
o piuttosto: una ‘lectio magistralis’ sul sogno d’amore come la suprema, perché la più invisibile delle violenze simboliche.

“Indicibile metamorfosi dell’amore in tenerezza, passaggio incalcolato dalla libertà alla schiavitù, volere in ombra, ticchettio dell’orologio, ticchettio uguale dell’orologio.”

“Come era così passato dalla sua cupa negazione umana a tanta ferma fede? Non per la bellezza dell’anima mia, ch’egli non la sentiva, come sentiva invece ogni sera ed ogni mattina il mio corpo, ché gli era, questo sì davvero, simile al pezzo di terra che ci sostenta…”

“Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria. 1908”.

“Nessuna di quelle che voi ritenete leggi morali è stata scoperta, creata dalla donna.”

“Senso interiore di disprezzo per se stessi e di considerazione esagerata per gli oppressori, amore e odio insieme.”

“Il bisogno di esaltazione e d’adorazione dell’uomo amato, e la gelosia e il terrore folle che quest’uomo così innalzatosi la trascuri.”

“Ma ecco, questo me, col suo istinto d’amore, di bellezza, di armonia, è infinitamente tirannico, ed esige, per sé solo, i più folli sforzi (…) Io sono la schiava del mio istinto di grandezza.”

“Era necessario ch’io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi, come tu mi hai scritto, a costruire su sabbie mobili: cercavo unicamente me stessa.”

“Ero schiava della mia forza: della mia creatrice immaginazione ormai (…) Il mio potere era questo: far trovare buona la vita (..) La mia forza era di conservare tal potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché. Senza soggetto quasi.”

“Non hai bisogno della mia anima…gli dicevo guardandolo dormire…e perché dovresti accorgerti che soffre? Hai la tua da alimentare, da conservare, da difendere. Ci credi uno e siamo due. Sei tu al centro del mondo, tu con la tua visione ormai immobile nella casa ben salda della tua mente. Ti mancava solo questo, povero bimbo grande, l’equilibrio organico,e con me l’hai ottenuto (…) Tale è il tuo amore, senza struggente sete di dedizione, senza voluttà di sconfinamento. Non sai la vertigine di me che son pronta a sparire se tu lo voglia, se debbo farlo, se lo esige la tua missione, il tuo maggior bene. Questo annegare lucido del mio essere…”

“E se tu fossi una creazione del mio desiderio? (…) Scrivo d’essi, vedi, come fossero invenzioni della fantasia. Personaggi irreali, foggiati, come la bambola di Villiers de l’Isle Adam, dalla mia scienza e dal mio gusto, per me sola (…) E invero c’è un elemento misterioso negli incontri da me fatti, non so qual mia collaborazione alla sorte.”

“Perché domandavo follemente a lui tutto l’amore che mancava alla mia vita?”

“Sforzo di ricerca di se stesse, lungi da tutto ciò che esse hanno amato e in cui hanno creduto: tragicamente autonome.”

“La donna non è mai stata una vera e propria individualità: o si è adattata a piacere all’uomo, non solo fisicamente ma anche moralmente, senza ascoltare i comandi del suo organismo e della sua psiche; o gli si è ribellata copiandolo, allontanandosi ancor di più dalla conquista suo io.”

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Per capire la violenza bisogna interrogare l’amore

Intervista realizzata da Anna Spena del 05 febbraio 2016 (per leggerla clicca qui)
Sopportano in silenzio la violenza sia fisica che psicologica degli uomini con cui vivono. Poi, molto spesso finiscono per fare il maternage anche nei luoghi di lavoro. Ma perché lo fanno?
Che rapporto ha avuto lei con la sua famiglia d’origine?
Sono figlia unica. I miei genitori erano contadini molto poveri che lavoravano in un paesino di provincia della Romagna. Vivevamo però in una cascina con altri tre famiglie. Mio nonno era il patriarca. Quando c’è molta povertà c’è sempre tanta violenza. Ho visto donne forti, vitali che lavoravano in campagna, curavano i loro mariti, la casa, sottomettersi. Erano donne che sottostavano al comando degli uomini e ne subivano la violenza. Quando a 25 anni sono uscita da quella famiglia avevo un’idea delle donne e del femminile molto ambigua: da un lato una figura potente e importante; sostegno materiale e indispensabile, dall’altro persone sottomesse e maltrattate.
Poi è andata via?
Nonostante la povertà, ho avuto modo di studiare. Sono stata fortunata. A 25 anni ero già entrata di ruolo in un liceo. Per compiacere la mia famiglia ho sposato un ragazzo. Avevo questo strano senso di colpa e riconoscenza per i miei genitori che avevo timore a contraddirli. Ma il vedermi fissata già in quel ruolo di moglie e madre in quella casa non poteva andare bene per me. Dopo tre mesi l’ho lasciato “mio marito” e mi sono trasferita a Milano. Era il 1966.
I ruoli di moglie e madre…
Arrivata a Milano ho incontrato il movimento delle donne. È stato il femminismo dell’inizio che ha posto degli interrogativi radicali. Quelli che io chiamo del corpo, della sessualità, della maternità. Gli interrogativi sul rapporto tra i sessi. È così che ho iniziato a capire quanto la storia e la cultura avessero inciso a dare una forma precisa alla vita delle donna sia nella sfera pubblica, immobilizzata in una sorta di innaturalità, che in quella privata dove la donna viene cancellata come persona, come individuo: “sono le mogli di…”, le “madri di…”.
Qual è il punto di inizio di questa “rivoluzione” femminile?
Mettere a tema tutto quello che era fuori tema. La vita personale, la donna, non era più un residuo della storia consegnato alla cultura. La storia non scritta, quella della vita personale delle donne, doveva essere restituita e scardinare l’ordine esistente.
Perché ancora oggi è così marcato questo confine tra “quello che è maschile” e “quello che è femminile”?
Ci portiamo dietro un’eredità pesantissima. Sedimenti profondi che vengono da secoli di storia. Lo assorbiamo fin da bambine attraverso l’educazione, la famiglia, la scuola. Così hanno insegnato alla vittima a parlare la stesse lingua dell’aggressore.
Il problema principale è che sono prima le donne ad aver interiorizzato un modello sbagliato?
Assolutamente. In che altro modo si potrebbe spiegare tutta questa “sopportazione” rispetto alla violenza degli uomini. Fisica, psicologica. C’è una copertura forte, è inutile negarlo.
Che cos’è questa copertura?
È questo legame tra uomo e donna che tiene intrecciati e confonde ancora amore e violenza. Per capire che cos’è la violenza, banalmente, a volte, bisogna interrogare l’amore. Non sentite spesso dire “l’ho fatto per amore”?.
Questo nel privato. Ma nella vita pubblica?
Le donne nella vita pubblica per un verso cercano di far valere le loro doti, le loro capacità. Ma poi spesso si ritrovano in una posizione quasi ancillare con gli uomini. Finiscono a fare il maternage anche nei luoghi di lavoro. Li sostengono, se ne prendono cura. Quindi quello che io vedo è ancora questa difficoltà nell’andare fino in fondo, nel provare a capire dov’è nata questa “capacità di sopportazione” della violenza sia manifesta che più sottile. Con violenza manifesta intendo proprio il maltrattamento fisico in tutte le sue forme più vistose e selvagge.
Che intende, invece, quando parla di “forme più sottili”?
È la violenza invisibile, quella che c’è anche nell’amore. È questa idea di dedizione, questa forma di appartenenza intima ad un altro essere, questa idea di essere “due in uno” che ti vincola. E lo fa perché in qualche modo ricrea il legame che c’è nell’infanzia tra una madre ed un figlio che non può essere prolungato anche nelle relazioni della vita adulta. Perché questo sogno di “fusione” non può che scatenare violenza. Non vedete come l’uomo si accanisce contro il corpo che l’ha generato? Che poi è lo stesso corpo che gli ha dato le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali. Ed è lo stesso corpo che poi l’uomo adulto incontra nella vita amorosa e di nuovo torna a sognare “il sogno d’amore e l’illusione del due in uno”. Dell’essere quindi intimamente appartenenti ad un altro essere.
“Una donna deve stare nel mondo. Deve fare le cose che ama per legittimare la sua intelligenza. Fare tutto quello che “non è stato pensato per loro”
Perché le donne sopportano?
Siamo chiamate, fin da piccole, a dare amore. Ogni donna si porta dietro dall’infanzia questa forma di dedizione verso l’altro. Non siamo l’oggetto dell’amore, noi quello dobbiamo solo darlo. Quando ad una bambina metti in mano una bambola, le stai dicendo “prenditi cura di, dai amore all’altro”. Quindi c’è una cesura profonda sul desiderio e bisogno d’amore della donna fin dall’inizio. La donna è stata confinata per secoli in questo ruolo di madre ed oggetto sessuale. Questo ha fissato l’amore nella sua forma originaria.
Qual è il potere che le donne inconsciamente cercano?
Quello di essere indispensabili. Ad un figlio, ad un marito, ad un amante. Rendersi indispensabili è il potere sostitutivo di altri poteri che le donne non hanno avuto. Quando le hanno confinate all’interno delle case è lì che hanno cercato di “strappare” qualcosa per sé. Si cerca di creare un debito nell’altro. Debito che, tra l’altro, diventa inestinguibile. Banalmente quando si mette sulle spalle di un figlio il sacrificio della tua vita e gli si dice “ho dedicato la mia vita a te”, gli si mette anche una croce sulle spalle da cui non si libererà più.
La vita pubblica del marito, ha stabilito anche il ruolo privato della donna. Le donne hanno assunto questa “visione dell’altro” come se fosse la loro…
L’idea di essere indispensabili per il marito o per un figlio è uno dei nodi più difficili da sciogliere nelle donne. Ed è questa funzione di indispensabilità che lega per molto tempo le donne a questi uomini. Anche a quelli che si giocano tutto e mettono a rischio la famiglia. Si considera il compagno come un figlio scapestrato che si deve recuperare, aiutare.
Di solito giocano anche i soldi delle compagne o delle mogli…I soldi dell’uomo sono dell’uomo. Quelli della donna pure sono dell’uomo. Il patrimonio, nell’immaginario collettivo, è maschile…
C’è sempre questa strana presunzione, nelle donne, di poter essere “la salvezza o la dannazione” di quell’uomo…
È idea antica questa. Si trova nell’antologia del maschilismo. Ma ce l’hanno anche le donne dentro. “Io lo posso salvare”, “io lo posso aiutare”. Quindi se sopportano a lungo è perché dietro c’è sempre questa idea di “una possibilità di riscatto”, di un “cambiamento possibile da parte dell’uomo”.
L’interrogativo vero è, ma come vivono le dipendenze dei mariti, come il gioco d’azzardo ad esempio, la vivono come violenza oppure ancora come debolezza?
Il dato di fatto, anche se triste, è che la posizione delle donne non è ancora radicalmente cambiata nella società. Dove ha sbagliato il femminismo?
Quantitativamente sono tantissime le donne nella sfera pubblica. Si trovano anche in contesti di potere ad un livello discreto. Il problema è che non sono presenti in una funzione che ha cambiato molto l’identità e il ruolo femminile. Non si esce da millenni in cui le donne sono state educate in funzione dell’altro con tanta facilità. Quello che il femminismo deve continuare è questo processo non tanto di emancipazione ma di liberazione rispetto ai modelli profondi che ci portiamo dietro. La pratica dell’autocoscienza bisognava portarla avanti. Dove? In tutti i luoghi possibili dove siamo presenti: nei giornali, nelle università, nei partiti. Dobbiamo ragionare su come stiamo dentro quel luogo. E soprattutto dobbiamo chiederci: perché stiamo in un luogo che ha creato linguaggi che non ci contemplano.
I ruoli di potere sono ancora solo maschili?
Non c’è dubbio. I rapporti di potere vanno avanti da millenni, non si scalzano in una o due generazioni. E le donne nel tempo hanno fatto propria quella immagine di sé. E gli uomini difficilmente mollano il loro potere…

(verso il 26 novembre…)

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Perché oggi possiamo pensare di cambiare i ruoli di potere

“Che altro sono il populismo, la “normalità”, il risentimento verso la “politica” tradizionalmente intesa, da cui viene il consenso a una figura “impresentabile” come Trump, se non quel retroterra che la civiltà ha creduto di poter controllare, tenere fuori dalla scena pubblica, dalle sue istituzioni, dai suoi “valori”, identificato per secoli col destino femminile? Se Bill Clinton dovette umilmente piegarsi a processo mediatico planetario senza precedenti, Trump può esibire con arroganza e vanteria la sua prestanza virile perché il capovolgimento temuto e tenuto a bada per secoli tra il corpo e la polis, la sessualità e la politica, oggi è sotto gli occhi di tutti. È passato quasi mezzo secolo da quando una generazione di donne “imprevista” sulla scena del mondo ha preso parola per dire “il personale è politico”. Oggi finalmente è chiaro – è quello che si legge nell’articolo di Mauro Magatti- che «quanto sta accadendo negli Stati Uniti ci riguarda tutti, uomini e donne».

Articolo pubblicato su La27Ora il 17 ottobre 2016, clicca qui per leggerlo

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Emancipazione e/o liberazione: il dilemma che attraversa il femminismo è sempre quello da oltre un secolo.

Sibilla Aleramo, coscienza femminile anticipatrice, ha visto lontano: la fretta, l’incapacità di sostare a lungo e interrogarci sulla storia che è passata su di noi e dentro di noi, ci avrebbe portato a essere un “inutile duplicato dell’uomo”.
Guardando all’oggi, non si può dire che avesse tutti torti.

“Non è nella gara materiale con l’uomo che deve consistere il progresso delle donna: o almeno non è soltanto in ciò. Essa può provare, e lo prova, di saper resistere come l’uomo alle fatiche manuali e intellettuali, ed è operaia, maestra, professionista, artista, quasi sempre oltre che moglie e madre. Ch’ella chieda un uguale compenso e un uguale rispetto è logico e giusto, com’è naturale che pretenda gli stessi diritti civili e politici. Ma tutto questo avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna: è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica, nata dalla rivoluzione: non è un fenomeno morale, un moto di spiriti..” (Sibilla Aleramo, La donna e il femminismo, Editori Riuniti 1978)

“Finora l’uomo ha creato, la donna no… La donna s’è accontentata di questa rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile. E di tutto ciò che parallelamente intuiva, nulla, o quasi, ha mai detto agli altri, perché, purtroppo, nulla o quasi ha mai detto a se stessa… La donna da un secolo in qua ha vagamente sentito che poteva muoversi con più agio, ma non ha sentito che poteva anche sostare prima alquanto, e interrogarsi. Così, invece che accordare alla vita e all’arte la sua autentica anima, è entrata nell’azione come un misero inutile duplicato dell’uomo.”
(S.Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942)

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