Il corpo delle donne è ancora terreno di conquista per giudici e stupratori

Articolo pubblicato il 29 luglio 2016 su ‘L’Internazionale’

“Se si vogliono scalzare gli stereotipi di genere, che sono alla base dei rapporti di potere tra uomo e donna, ma anche del perverso legame tra amore e violenza, è alla cultura alta e alla sua presunta “neutralità” che bisogna guardare con coraggio e senso critico.”
(…)
“Un grande passo avanti è stato riconoscere che la violenza maschile contro le donne è un “fatto strutturale” e non un’emergenza, un caso di cronaca nera, o la patologia di un singolo. Ma su quali siano le “strutture”, i “fondamenti” a cui deve la sua durata, la tendenza a ripetersi nell’indifferenza di tempi, luoghi, generazioni, poco si è detto, se non che rimandano a una “normalità” ancora da indagare nei suoi risvolti “perturbanti”.
La manifestazione a Firenze, il 28 luglio 2015. (Aleandro Biagianti, Agf)

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Violenza contro le donne, quanto ha contato il silenzio della politica e della cultura maschile

Articolo pubblicato il 04.VII. 2016 su La27ora-corriere

La recente sequenza di femminicidi deve aver fatto cadere, da parte maschile, alcune delle resistenze più forti a interrogarsi come «genere», a chiedersi se la «follia omicida» di pochi non sia imparentata, nel profondo di «antiche e oscure emozioni» – come le chiama Virginia Woolf -, con l’idea di «virilità» di cui sono improntati sia la cultura alta che il senso comune.

«Viviamo ancora, noi maschi in Italia – scriveva Nicola Lagioia sulla prima pagina di Repubblica (il 10 giugno scorso – in un contesto che ci mette in una posizione di predominanza. Quanto ne siamo consapevoli? Quanto, consapevolmente o meno, cediamo alla tentazione di contribuire a cementare un modello che ci vede in differenti blocchi di partenza rispetto alle donne? E quanto siamo tentati di trasferire questo modello nel privato delle nostre relazioni sentimentali?».

Altalenando tra riflessioni più teoriche e testimonianze di vita personale, la parola degli uomini parla oggi con una coscienza di sé e della propria storia che il femminismo sollecitava da anni e che finora non era andata oltre la pratica politica di gruppi ristretti, come Maschile Plurale.

Sul Sole 24ore, un «intellettuale trentenne», Raffaele Alberto Ventura, descrive la nascita della figlia come una «piccola apocalisse»: la caduta di un intero edificio di valori e priorità, la scoperta che le «mutilazioni» che la paternità – e a maggiore ragione la maternità – avrebbe imposto a carriere, sogni di gloria, distrazioni, ecc., potevano non essere temute ma desiderate come tempo liberato dalle «promesse di un avvenire che non giungerà mai».

Si tratta di «legittimi dubbi su se stessi», sulle proprie fragilità, su logiche di potere interiorizzate inconsapevolmente e diventate «normalità», privilegio «naturale» maschile, che andrebbero però trasferite – come sottolineava giustamente Nicola Lagioia nel suo articolo – in un dibattito pubblico.

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Vorrei un figlio, ma con chi lo faccio?

Da ‘L’Internazionale’ del 20 giugno 2015

In tempi in cui tutto viene imputato alla crisi economica, alla disoccupazione, alla mancanza crescente di servizi sociali, leggere i dati dell’Istat sul calo delle nascite in Italia in chiave di relazione d’amore tra uomini e donne può sembrare un ripiegamento romantico, idealistico. Eppure basterebbe ascoltare i racconti, le domande che si pongono donne fra i trenta e i quarant’anni sulla scelta di avere o non avere figli, per capire che l’amore c’entra, e che se viene trascurato nell’ordine delle cause è perché nell’era del postmoderno – del “post” di tutto – nessuno fa più caso ai sentimenti.

Ci ha fatto caso invece Eleonora Cirant in un interessante libro corale, uscito un paio d’anni fa (Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte, Franco Angeli), risultato di incontri, conversazioni, interviste con quindici donne della generazione nata negli anni settanta, disposte a interrogarsi sulla scelta “sia di chi diventerebbe madre nel verificarsi di una eventuale circostanza, sia di quelle che non sentono alcun desiderio di maternità”.

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Sarantis Thanopulos sul rapporto tra amore e potere, amore e violenza.

Articolo de “Il Manifesto”, 18/6/2016 (clicca qui per leggerlo)
“L’amore è come la guerra: la ‘correttezza’ non è il suo luogo preferito. La sua etica è, tuttavia,molto forte. Più esattamente: l’unica etica possibile è quella dell’amore. Nessuna reale soddisfazione erotica è raggiungibile in assenza del rispetto del desiderio dell’altro e di una relazione paritaria sul piano dell’impegno amoroso. La passione deve rispettare, per persistere, ciò che più la contraddice: la libertà, l’autodeterminazione del suo oggetto.”
“Tutte le volte che l’uomo sfrutta il vantaggio, si stacca dal legame erotico tra soggetti vivi e liberi: si trova schiacciato nella posizione di un essere supposto superiore (un automa), dominante su un essere designato come inferiore, ma proprio per questo più sano e meno alienato dalla propria costruzione sociale.Più si identifica col potere, più si priva delle sue possibilità di godimento.”

Nascite e cambiamenti di vita, personale e sociale. Un modo interessante di guardare alla paternità.

Ringrazio Nicola Lagioia per la segnalazione a Radio Tre dell’articolo di Raffaele Alberto Ventura: “Mia figlia, una piccola Apocalisse“.
Un’osservazione: è importante che i cambiamenti non restino nell’ambito delle singole vite, delle loro scelte esistenziali, quotidiane, ma che aprano interrogativi e un nuovo agire politico capace di aggedire un modello di società, che ancora si regge sulla divisione patriarcale del lavoro e su logiche capitalistiche di profitto.
Era questo il significato di due slogan del femminismo ai suoi inizi:
“Il personale è politico”, “Modificazione di sé e modificazione del mondo “.
“Partire da se'” ha significato per le pratiche del femminismo uscire dalla separazione tra privato e pubblico, riconoscere che la vita personale appartiene da sempre alla storia, alla cultura, alla politica, che il cambiamento è prima di tutto prendere cpsv6 dei nessi che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro.
Qualche frammento:
“Molti di noi dividono la loro vita tra il lavoro ‘vero’ e l’esercizio di una vocazione intellettuale, artistica, sportiva o imprenditoriale; ma cosa succede quando nelle nostre vite irrompe un evento che mette in crisi questo equilibrio precario? Ci costringe a mettere ordine tra le nostre priorità”.
“E ora vi guardo con i miei occhi da morto. Ha ragione l’amico scrittore: sicuramente i genitori sono vittime di una mutilazione, come se un pezzo del loro corpo fosse asportato e ora vivesse di vita propria. Le donne più ancora degli uomini, in maniera concreta e sconvolgente: tant’è che al contrario della madre in questa prima settimana io riesco ancora a trovare il tempo, tra un acquisto dell’ultima ora e l’altro, per giocare all’autofiction (…). A nessuno viene in mente, tranne forse ai militanti dell’ISIS, che essere ‘mutilati’ è precisamente quello di cui noi borghesi occidentali abbiamo bisogno. Ecco perché la paternità ha smesso di farmi paura: tutto quello che avrei rischiato di perdere, di fatto, era proprio quello che ‘dovevo’ perdere.”

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L’immaginario della dualità

Virginia Woolf, Silvia Plath, Amelia Rosselli, Inge Muller…
Quanto è costata alle donne “la creatività di spirito invece che di carne”?
(Sibilla Aleramo)
“Ti dissi che tutto il poco che una donna riesce a realizzare nel campo della poesia è il risultato di una tensione infinitamente più tremenda della tensione virile; ti dissi quanto immolatrice sia colei che tenta creazioni di spirito invece che di sangue.”
(…)
“Questa mia sotterranea, seconda vita…Questa corrente tacita di pensieri e di sentimenti…è questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia, violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sè, ma lui è uomo, e non ne muore…”
(Paola Redaelli, “Tra Scilla e Cariddi”, in “Lapis” n.30, giugno 1996)
“Ma se lo scrittore è donna?Scoprirà, prima o poi, di sentirsi ombra, che quello di sentirsi ombra è uno dei suoi segreti. Dovrà scrutare in quest’ombra che può nascondere l’abisso, il vuoto oppure un magma, un crogiuolo di presenze spaventose e apparentemente inconoscibili. E scriverne.
(…)
Nell’ombra c’è dunque il corpo femminile, con tutte le connotazioni fantastiche e simboliche che questo nome e questo aggettivo portano su di sé. Queste connotazioni sono tali per cui noi spesso non sentiamo, non ci rappresentiamo il corpo femminile come nostro, ma come qualcosa che è in noi e costantemente ci minaccia di diventare noi stesse, tutta la nostra identità. Fuori dall’ombra c’è invece la parola scritta, quella che ci difende, perché ‘ci crea’, dalle fastidiose parole corpo femminile che per tradizione farebbero parte del novero di quelle che si possono anche soltanto dire.”
La poetessa americana Hilda Doolittle, nota come H.D., nelle sue Note sul pensiero e la visione , scrive:
“Dobbiamo ‘innamorarci ‘ prima di poter afferrare i misteri della visione […] Le menti dei due innamorati si compenetrano […] Il cervello, ispirato ed esaltato da questo interscambio di idee assume il carattere di super-mente… ”
La via d’accesso all'”estasi” o alla “visione” è anche qui il corpo, un corpo fecondato dall’unione d’amore, perché possa farsi luogo di una nascita spirituale che lo trascende e lo consuma.
“Il corpo appariva una forma di vita elementare, priva di bellezza e transitoria. Tuttavia ancora una volta mi avvidi di come il corpo avesse la sua funzione. L’ostrica produce la perla infatti. Così il corpo, con tutte le sue emozioni e paure e sofferenze consumate nel tempo produce lo spirito […]. Immagino, tuttavia, che il corpo, come un pezzo di carbone, adempia alla sua funzione più alta quando si consuma “.
Anche quando si tratta di realizzare “opere di anima” e non “di carne”, il riferimento obbligato sembra essere la maternità biologica, quel “pertinace naturalismo”, quella “aderenza alla vita” che Boccioni rimproverava all’Aleramo, e che l’uomo ha soltanto risolto altrimenti: separandosene, riducendola al silenzio a rigo immaginario su cui intonare la propria parola.
Ma per la donna, che con quella matrice è stata identificata, il processo creativo del pensiero rischia di trasformarsi in “pellegrinaggio mistico”: un corpo che “rappresenta”,mentre la agisce, la sua consunzione e la sua trasfigurazione.
Il dualismo in tutte le sue forme -a partire da quello che ha segnato il destino dell’uomo e della donna – è stato finora il fondamento di tutte le civiltà, inscritto nella vita sociale ma anche “nell’oscurità dei corpi”, come dice Pierre Bourdieu. Finché si resta dentro queste polarità complementari, è chiaro che si può solo tentare una ricomposizione, che, non a caso, avviene sempre sul popolo maschile. Tale è la “mente androgina”, come mente creativa, di cui parla Virginia Woolf. L’esempio che fa è, non a caso, è quello di Shakespeare. Per ritrovare mente e corpo nel loro naturale essere inscindibile, occorre pertanto uscire dell’immaginario della dualità, che abbiamo ereditato e che ancora condizionata il nostro modo di pensare e di sentire.13418898_1777695312466389_2152427091482708103_n

Teneri figli, feroci assassini

Il “perturbante” sta dietro a ciò che ci è “famigliare”.
Genealogie di uomini, di padre in figlio si trasmettono da secoli lo stesso pendolarismo fra casa, lavoro e svago, sicuri di poter legittimare entrate e uscite con la libertà che spetta al loro sesso per un “naturale” privilegio. E’ una delle tante, quotidiane “invarianti” del rapporto tra uomo e donna, una di quelle infinitesimali violenze che non arriveranno mai alla ribalta di un giornale e che nessuno andrà mai a rintracciare, anche quando dal litigio tra coniugi o conviventi si dovesse passare alle mani e dalle mani al coltello. Nell’epoca in cui i capisaldi del potere dei padri, per naturale decrepitezza o inevitabili discontinuità dovute alle nuove acquisizioni della coscienza, cominciano a declinare, e le passioni stesse perdendo il loro smalto si fanno “tristi”, sembra che solo la violenza tragga dal mutamento in atto nuovo vigore.
Nel venir meno di modelli virili socialmente autorevoli, nel declino delle istituzioni che dietro la maschera della neutralità hanno sedimentato valori, gerarchie, privilegi, divisione di ruoli, nel lento decadimento dei miti della forza e dell’onore, è come se si fosse prosciugato il terreno in cui scompariva ogni volta un tenero figlio, ancora in odore di madre, per far crescere un coraggioso guerriero. A uno strappo violento -come quello che separa e differenzia il maschio dal corpo femminile da cui è nato e con cui si è a lungo confuso- sono servite nel tempo svariate forme di iniziazione, addestramento e fedeltà a nuovi codici di appartenenza, per facilitare il passaggio dalla famiglia alle comunità sociali dei suoi simili, come l’esercito e la chiesa.
Il copione della virilità, destinato a ripetersi quasi senza variazioni nel corso di una vita, poteva contare in passato su attori e parti note già nell’ambito famigliare, figure parentali irrigidite da obblighi, doveri, rituali domestici, distribuzione di poteri, visibilmente in consonanza con le strutture portanti della vita pubblica. Patriarchi contadini, abbruttiti dall’alcolismo, non riscuotevano per questo minore obbedienza e rispetto. La violenza si confondeva con la legge, con la tradizione, con le norme comportamentali, con l’esercizio di un potere considerato “naturale”. Senza quel supporto, fatto di carne e passione, nessun ordine avrebbe potuto durare così a lungo, resistere alle discontinuità della storia, all’assalto delle nuove generazioni.
Quando le donne hanno cominciato a scostarsi dal posto in cui sono state messe -svilite o esaltate immaginariamente-, anche la collocazione dell’uomo ha perso i suoi contorni definiti e indiscutibili. La libertà, di cui ha creduto di godere la comunità storica maschile, svincolandosi dalle condizioni prime, materiali, della sua sopravvivenza, ha mostrato impietosamente la sua inconsistenza, portando allo scoperto un retroterra fatto di fragilità, paure e insicurezza.
(da L.Melandri, “Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà”, Bollati Boringhieri 2011)

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Una lucida follia

Stralci di un percorso personale e politico
La centralità che ha avuto il tema dell’amore nel mio percorso intellettuale e politico all’interno del movimento delle donne -in modo abbastanza solitario- è dovuta, almeno in parte, a un tratto romantico, sentimentale, che viene da qualche zona remota della mia storia personale. Più precisamente, si tratta di una singolare commistione di sogno e lucidità di analisi che ho ritrovato in Sibilla Aleramo e che ho cercato di analizzare nel mio libro Come nasce il sogno d’amore .
Ma c’è anche la spinta, radicata anch’essa nel mio passato, a tenere fermo lo sguardo su quella zona ancora oscura ed enigmatica che è l’origine, la preistoria dell’individuo e della specie.
Partire dalla memoria del corpo –dai sedimenti profondi della vita psichica- per interrogare il rapporto tra i sessi, vuol dire riconoscere che il dominio maschile non nasce da una volontà malvagia dell’uomo, o da una sua ‘naturale’ pulsione di morte, ma da passaggi inconsapevoli di necessità che riguardano lo sviluppo della specie umana, il passaggio dalla natura alla cultura.
Per tornare al percorso autobiografico che sta dietro ogni teorizzazione, anche la più astratta, devo dire che la centralità che ho dato alle tematiche del corpo è strettamente legata alla mia origine: figlia femmina di famiglia contadina che ha avuto il singolare privilegio di poter studiare. Il dualismo corpo-pensiero, natura-cultura, femminile-maschile, era nella mia condizione di partenza, e ha reso particolarmente lento, difficile, contrastato, il processo di emancipazione tradizionalmente inteso. Ho sentito a lungo estranea la vita pubblica, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le sue istituzioni, mentre è stato molto forte il legame con la cultura e i linguaggi dell’uomo-figlio: filosofia, religione, arte.
Nel momento in cui avrei potuto “emanciparmi”, dopo la fuga dal paese d’origine e l’arrivo a Milano, ho incontrato, per mia felice sorte, il movimento non autoritario del ’68 nella scuola e il femminismo, che partivano proprio dal corpo, dalla vita personale, dalla sessualità, per mettere in discussione l’ordine esistente, la divisione tra pubblico e privato, la relazione tra i sessi.
Ho cominciato allora a rendermi conto che quello che nei miei studi liceali era rimasto il “fuori tema” –una materia di esperienza dolorosa e intraducibile nelle lingue colte- poteva, nella prospettiva di una profonda rivoluzione culturale, diventare “il tema”. Nello stesso tempo, cominciavo a riflettere sui nessi, i legami che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro del dualismo, sulle implicazioni inconsapevoli che la dualità, come costruzione maschile, aveva con l’interiorizzazione da parte delle donne di un’unica visione del mondo.
Ricerca di nessi voleva dire per me, da un lato continuare a scavare a fondo nel vissuto corporeo, psichico, intellettuale del singolo -autocoscienza, scrittura di esperienza-, dall’altro, partendo da questo sguardo e da questa lenta modificazione di sé , intesa come autonomia da pregiudizi, habitus mentali, schemi cognitivi incorporati, affrontare i saperi e i poteri della vita pubblica.
Ho cominciato a farlo dagli anni ’70, individualmente e collettivamente -dal gruppo “sessualità e scrittura”, ai corsi della donne, alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”-, ma in modo ancora libresco o filtrato dai saperi disciplinari che mi erano famigliari, come la letteratura, la filosofia, la psicanalisi.
Gli anni ’80 hanno rappresentato, per quanto mi riguarda, l’inizio di una riflessione e di una scrittura più specificamente legata ai temi dell’immaginario amoroso: rubriche di “posta del cuore”, “scrittura di esperienza”, analisi del “sogno d’amore”.
Nel momento in cui prevaleva nel femminismo l’orgoglio dell’appartenenza di sesso, la voglia di “vivere con agio”, l’affermazione della fine del patriarcato, occuparsi del sogno d’amore -dal libro che stavo scrivendo alle rubriche di posta del cuore su “Ragazza In” e su “Noi donne”- fu visto da alcune come un tornare sulla “miseria femminile”. Per me ha voluto dire invece riprendere e approfondire l’intuizione originale del femminismo: il dualismo sessuale, la consapevolezza che le figure di genere non hanno dato forma solo a rapporti e gerarchie di potere tra uomini e donne, ma, come conseguenza della complementarità, anche all’amore tra i sessi, al sogno di ricongiungimento di “nature”diverse, e all’ideale di interezza dell’individuo.
Finché il maschile e il femminile sono visti come poli complementari, come se fossero le due metà di un intero, c’è nell’amore una “terribile necessità”.
Come spiegare altrimenti un’interiorizzazione della visione maschile del mondo così duratura? Come spiegare una subalternità così evidente delle donne nella vita pubblica, l’emancipazione come assimilazione al neutro? La difficoltà è pensare l’interezza del proprio essere fuori dall’ideale androgino, di cui parla Virginia Woolf.
La complementarità è ingannevole, ma esercita ancora una grande attrazione: basta pensare al protagonismo che hanno preso le due grandi attrattive delle femminilità nelle sfera pubblica: la maternità e la seduzione. Il processo di autonomia dai modelli interiorizzati ha ancora molta strada da fare. Ma, soprattutto, interessa uomini e donne, interroga la femminilità come la maschilità.

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Gli spettri dell’ambivalenza

Articolo pubblicato il 9 giugno 2016 su Il Manifesto

TEMPI PRESENTI. Il lavoro di cura e domestico, la centralità delle donne nella vita pubblica segnalano alcune contraddizioni delle teorie sull’emancipazione femminile. Una lettura sulla trasformazione delle relazioni tra i sessi

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Le donne sono state confinate sul versante che è parso più vicino alla loro «natura» di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia, l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: «come una stirpe – scrive Freud ne Il disagio della civiltà – o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo».
La critica a ogni forma di dualismo non poteva che partire da chi ne aveva portato per secoli il peso di maggiore alienazione e sofferenza, ma era chiaro che riguardava entrambi i sessi, i ruoli che erano stati chiamati a rivestire di generazione in generazione. Altrettanto chiare erano l’estensione e la complessità del cambiamento che si prospettava: una «modificazione di sé» che spingeva la politica fin dentro le zone più remote e misteriose della vita psichica, per venire a capo di una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e dalla donna «aprioristicamente ammessa» – per usare le parole di Sibilla Aleramo-, «compresa solo per virtù di analisi»; ma anche l’idea che si potesse partire da questa incursione nella storia personale, nel «sé» meno conosciuto, per modificare l’ordine sociale nel suo insieme.

Si potrebbe dire che il sogno d’amore, inteso come fusione di nature diverse, ricongiungimento degli opposti, oggi esce dalla sfera intima degli individui per diventare paradigma delle trasformazioni che interessano l’economia, la politica, l’organizzazione sociale nei suoi vari aspetti. Il lavoro di cura o il lavoro domestico, come qualcuna preferisce chiamarlo, elargito finora gratuitamente a bambini, malati, anziani e adulti perfettamente autonomi all’interno delle case, fa il suo ingresso senza soluzione di continuità nella sfera pubblica: un maternage senza fine che da «destino naturale» diventa per le donne il passaporto per la loro piena cittadinanza.
Se il femminismo degli anni ’70 nasceva come processo di «liberazione» da modelli imposti, divenuti habitus mentali, incorporati fino a confondere la lingua dell’oppressa e dell’oppressore, i decenni successivi hanno visto riemergere logiche emancipazioniste, sia pure in forme diverse da quelle del Novecento.

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L’apparente ‘reciprocità’ del sogno d’amore.

Figlia e/o madre. La “fissazione infantile del patriarcato” (V.Woolf)
L’apparente ‘reciprocità’ del sogno d’amore.

Nel sogno d’amore si mescolano: la nostalgia di una iniziale beatitudine perduta, ma anche la spinta a saldare la ferita che la storia, il dominio maschile ha aperto, oltre che tra l’uomo e la donna, tra il corpo e il linguaggio, la natura e la cultura, l’infanzia e la storia, la casa e la polis, l’individuo e la società. Identificando la donna con il corpo, la radice organica di ogni vivente, è come se l’uomo avesse prodotto anche su di sé una lacerazione, uno sdoppiamento, creando artificiosamente figure complementari, spinte di necessità a riunificarsi. Il sogno ‘fusionale’ mira a ricostituire un intero, ma, venendo dal versante della storia e del suo protagonista, l’unico che si è riservato per secoli un’anima, un Io morale, una coscienza, la ricomposizione non poteva che avvenire sull’uomo.

La seduzione che agisce nell’innamoramento risente di queste componenti, che mettono in ombra il rapporto di potere tra i sessi, rendendo tutt’oggi difficile distinguere la violenza dall’amore. Innanzi tutto, ricompaiono nell’abbraccio amoroso le figure della madre e del figlio, in un capovolgimento continuo delle parti, per cui a volte è una donna-madre che sembra accogliere e assorbire in sé un uomo-figlio; a volte, è l’uomo che dalla sua posizione di privilegio, di maggior forza, si pone come figura protettiva, materna, rispetto a una donna piccola figlia debole, affidata alle sue cure.
E’ questo aspetto apparente di ‘reciprocità’ che ha fatto pensare e vivere l’amore come “tregua” nella “guerra tra i sessi”. Sono, non a caso, gli adoratori delle madri, i teorici romantici del “matrimonio d’amore”, molto apprezzati dalle donne, a dare descrizioni esaltanti dell’ “estasi” amorosa.

Scrive Paolo Mantegazza nelle Estasi umane (1887):
“Siamo rapiti in estasi e speriamo di confonderci e sparire in quella donna…sparire e confondersi, non trovare più il nostro Io, non distinguere più qual differenza passi tra noi e lei, fra l’amare e l’essere, fra l’uno e il due. L’uomo e la donna disgiunti sulla terra, ricongiunti nel cielo.”
“Possedere ed essere posseduti, formula prima ed ultima, scheletro psicologico di ogni amore. E perché amiamo noi con tanta passione i piedi piccoli, le mani piccole, breve l’equatore che passa intorno al corpo delle nostre donne? Perché è là che noi prendiamo possesso dell’oggetto amato, e più si fonde e scompare nella nostra mano la mano di lei…l’assorbimento è completo.”

E, prima di lui, Jules Michelet, nel libro L’amore (1858):
“L’uomo, più anziano della donna, sovrasta la sua compagna per esperienza, e l’ama quasi come una figlia…quando però il mestiere e la fatica hanno curvato l’uomo, la donna, sobria e seria, vero genio della casa, è amata da lui come una madre.
“La donna entra intera nell’unione, per sempre. Vuol rinascere insieme con lui e per suo tramite. Bisogna prenderla in parola, rifarla, rinnovarla, crearla…Intuisce che l’amerai di più, sempre di più, se diventa tua e te stesso. Prendila dunque, in quel modo in cui si da, sopra il tuo cuore e nelle tue braccia, come un piccolo tenero bimbo.”
Ma la ‘reciprocità’ è solo apparente, la bella favola costruisce castelli sulla sabbia. Dietro, infatti, traspare immediatamente l’ordine patriarcale che subordina la donna agli interessi e al bene dell’uomo. Se, agli occhi dell’uomo-figlio la madre è la donna potente che lo ha generato, accudito, e che ancora lo accoglie tra le sue braccia, per l’uomo-padre, che la storia ha visto trionfare e prendere distanza dalle sue radici biologiche, è colei che è chiamata, restando sempre madre, anche quando è diventata moglie, compagna dell’uomo, a “rigenerarlo” fisicamente, psicologicamente, moralmente, dalle fatiche del lavoro, sostenerlo e confortarlo nel suo impegno sociale e pubblico.
Anzi, di più: a trasferire su di lui tutte le sue energie, la sua vita stessa, fino a “diventare lui”.
Nella pedagogia dell’amore di autori come Michelet e Mantegazza, alla donna, che in passato era stata vista solo come corpo, viene riconosciuta un’ “anima”, ma è un’anima che deve nutrirsi e vivere dei pensieri degli uomini, assecondare, anzi “prevenire” i loro bisogni e desideri, a “compenetrarsi” dell’amato, fino a essere tutt’uno con lui.
La “servitù della donna –dice Michelet- viene dalla natura”, che la consegna all’uomo “debole, amorosa, dipendente”, bisognosa di essere amata e protetta. La storia si è limitata a rafforzare con le sue istituzioni e le sue leggi il privilegio naturale dell’uomo, e ora chiede alla coscienza maschile “moderna” di mettere in campo la sua “magnanimità”: accogliere la donna, moglie e madre, come fonte di sussistenza, ma anche di rinnovamento morale per la sua famiglia e la sua civiltà.

(L.Melandri, “Il dominio e l’amore”, in “La biblioteca dei maschi e delle femminine”, a cura di Vincenzo Campo, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2009)

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