Prima che sia troppo tardi

Viviamo tempi in cui cadono consolidate costruzioni di senso. Così, spiega Lea Melandri, è la natura ferita, sono le donne, i bambini, gli impoveriti a dire il dolore e la distruttività nascosti dietro la facciata di un mondo che si è creduto “civile”. Abbiamo bisogno, per dirla con Elvio Facchinelli, di una nuova e profonda “capacità di immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremmo madre di creature ferite”, abbiamo bisogno di “una caduta, simile alla pioggia che cade su terra scura a primavera…”

Articolo pubblicato il 23.XII.2017 su comune-info.net, clicca qui

Screen Shot 2017-12-25 at 6.48.13 PM

Chi ha paura della cultura femminista?

Perché, mi chiedeva Rossana Rossanda, in uno degli ultimi incontri che abbiamo avuto in Italia, le donne oggi presenti in gran numero nella vita pubblica non riescono a cambiarla, perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura? E’ la stessa domanda che ci fece alla fine degli anni ’70 e che torna ancora oggi di sconfortante attualità.

Sono tentata di elencare, come faccio ormai da tempo, le difficoltà e gli ostacoli, esterni ed interni, che ha incontrato il movimento delle donne: la resistenza degli uomini ad abbandonare poteri e ruoli che considerano “connaturati” al loro sesso, e a cui fa da copertura più o meno consapevole la “neutralità”; l’intuizione, sia pure oscura e tenuta timorosamente a bada dalla sinistra, che mettere a tema la questione uomo-donna, come ricordava Pietro Ingrao già trent’anni fa, “comporta affrontare punti di fondo dell’origine della società in generale, investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro; incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, forme e natura dell’assistenza” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989).

E’ questa “rivoluzione” dell’ordine esistente – e quindi non solo la lotta contro governi conservatori, politici corrotti e antidemocratici- che spaventa? Sono le angosce profonde, le insicurezze insopportabili di chi vede comparire nell’autonomia di pensiero delle donne lo spettro di una rimossa inermità e dipendenza infantile dal corpo che l’ha generato?
Qualunque siano le ragioni e le forme che ha preso nel tempo la misoginia maschile, diffusa a destra come a sinistra, tra politici e intellettuali, capitalisti e lavoratori, nativi e migranti, l’interrogativo che più inquieta resta quello che riguarda le donne stesse, la loro rabbiosa acquiescenza, l’adattamento a ruoli tradizionali di ancelle o cortigiane, il profluvio di discorsi lamentosi sui famigliari da accudire, sulle carriere interrotte, sui meriti calpestati, sul doppio e triplo fardello di chi si trova oggi a far da ponte tra privato e pubblico.

Se la bontà come virtù ha perso smalto, non si può dire lo stesso per l’imperativo che vuole le donne “brave e belle”. Non è forse questa l’immagine femminile che ci viene offerta indistintamente dagli schermi televisivi e dalla scena politica? Se non sono corpi-sfondo- cornice, esposti come specchi per le allodole anche in trasmissioni di carattere culturale, sono le diligenti segretarie che filtrano le mail e a cui il conduttore rivolge di tanto in tanto paterni sguardi, chiamandole confidenzialmente per nome. Oppure sono loro stesse conduttrici, preferibilmente di bella presenza, preparate, impeccabili, attente e pazienti nell’ascolto come nella mediazione, in quell’arena di oratori scalmanati che sono ormai i dibattiti televisivi.

A quarant’anni dalla nascita del neofemminismo, che ha messo in discussione in modo radicale il modello maschile di società -a partire dalla divisione tra privato e pubblico, identificata col diverso destino di un sesso e dell’altro-, non si può dire che manchino una cultura e pratiche politiche portatrici di questa consapevolezza e responsabilità nuove. Quello che qualcuno ha chiamato sprezzantemente “piccoli cenacoli autoreferenziali”, residui di una “vecchia guardia” femminista preoccupata di mantenere la propria “egemonia, sono le centinaia di associazioni, gruppi, centri di documentazioni, biblioteche, librerie, case editrici, collettivi, case delle donne, centri antiviolenza, riviste, ecc., che hanno resistito finora all’arrogante messa sotto silenzio e marginalizzazione da parte della cultura dominante, custodi di un patrimonio di sapere che potrebbe dare risposte adeguate agli interrogativi del presente: personalizzazione della politica, populismo, razzismo, omofobia, trionfo della merce, esaurimento delle risorse naturali, crisi di un modello di sviluppo.

L’indignazione per le donne-oggetto, per lo scambio sesso-carriere, per la prostituzione trattata come opportunità di emancipazione femminile, ha portato anni fa un milione di donne e uomini nelle piazze. Come mai allora tanto silenzio sulla cancellazione dell’intelligenza che ha saputo negli anni costruire un’immagine del maschile e del femminile fuori dagli stereotipi di genere, un’idea di individuo “intero”, né solo corpo né solo mente, la prospettiva di una collettività responsabile della conservazione della vita, di quello che è rimasto finora destino di un sesso solo?
Non c’è bisogno di richiamare l’attenzione, come abbiamo fatto tante volte, sui grandi eventi culturali -la Fiera del libro di Torino, il convegno annuale dei filosofi di Modena, ecc.- dove i libri e le riviste del femminismo sono pressoché assenti.

Nel suo delirante ma lucidissimo sessismo, Otto Weininger ebbe almeno il coraggio di scrivere che “si può ben pretendere l’equiparazione giuridica dell’uomo e della
donna senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale”.
Non mi sembra che, a oltre un secolo di distanza, si sia andati molto oltre.

Screen Shot 2017-03-30 at 8.22.16 PMScreen Shot 2017-03-30 at 8.22.25 PM

Dalla Polonia all’Argentina: qualcosa si muove

Non c’è dubbio: qualcosa si muove, dalla Polonia all’ Argentina…e si spera anche in Italia.
Forse le donne sono davvero stanche di essere “un corpo a disposizione di altri”, sottoposto al controllo del sesso finora dominante.
“Siamo cattive -dicevano i loro slogan a Rosario- possiamo fare molto peggio “.
Il peggio non è la violenza, ma smettere di dare tutte le loro energie per sostenere la debolezza di un patriarcato, che non si è mai retto in piedi da solo -come ha ripetuto più volte l’economista femminista Antonella Picchio.

Rosario: gigantesco corteo di più di 100 mila donne e dura repressione di fronte alla Cattedrale.

screen-shot-2016-10-13-at-1-13-58-pm

 

La rivoluzione che viene dagli archivi

Un documento scritto dal gruppo femminista “Il cerchio spezzato” dell’Università di Trento, nel 1971, portava come titolo “Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna”, e si apriva con una lucida messa in discussione del movimento studentesco e dei successivi gruppi politici, cominciando dalla modalità con cui si tenevano le assemblee.
“I gruppi di lavoro politici hanno riverificato la nostra sistematica subordinazione…L’analisi delle assemblee ci ha portato a vedere una élite di leaders, una serie di quadri intermedi maschili e una massa amorfa composta dal resto maschile e da tutte le donne”.
“L’attribuzione alla donna e all’uomo di un determinato ruolo è del tutto essenziale, sia al funzionamento materiale del meccanismo capitalistico (proprietà privata) sia al suo sistema di valori. Questo sistema di valori è cresciuto come esaltazione dello spirito di impresa, come gusto e culto della violenza e della forza, come supremazia del ‘maschile’ che ha bisogno, come si è visto di trovare in una concezione del ‘femminile’ la sua legittimità e la sua fondazione stessa. Un’azione nella sfera privata, a nostro avviso, è dunque strategicamente fondamentale per dare concretezza alla rivoluzione culturale, per cambiare cioè profondamente l’uomo. La famiglia è uno dei primi obiettivi di lotta. La personalità dell’individuo è infatti innanzitutto la storia dei suo adattamento ai modelli e ai valori culturali della società in cui vive. Fin dalla nascita l’esempio, le credenze, le abitudini degli altri membri della comunità plasmano la sua esperienza ed il suo comportamento. E la famiglia in particolare è organizzata in modo da rendere possibile la socializzazione attraverso l’esempio e la coercizione dei membri in ruoli ben definiti…La nostra cultura basa tutti i suoi ruoli sociali sul rapporto di potere perpetuato dalla famiglia e fa dell’appartenenza a un sesso piuttosto che all’altro il simbolo primario, esemplificativo, di tale rapporto.” (Manifesto del Gruppo Demau, Milano 1966/67).
. E’ vero che recentemente si è tornato a parlare di famiglia, ma lo si è fatto a proposito delle ‘unioni di fatto’, come richiesta di leggi, riconoscimento di diritti civili, e solo marginalmente come messa in discussione di quel concetto di ‘naturalità’del matrimonio che cristallizza, nella nostra Costituzione, sia il compito primario di riproduttrice della donna -e quindi la divisione sessuale del lavoro-, sia la normatività della coppia eterosessuale.
Politiche sociali e politiche famigliari ancora si muovono sull’equivoco che la ‘conciliazione’ di casa e lavoro extradomestico sia un problema ‘femminile’, come se la maternità fosse una malattia particolare che ha bisogno di tutela, e il lavoro domestico, il lavoro di cura prestato a bambini, anziani, ma anche mariti, padri, fratelli in perfetta salute, la ‘naturale’ disposizione femminile, a cui si richiama insistentemente la Chiesa.
“E’ dalla famiglia, in particolare dal lavoro gratuito delle donne, che i detentori di potere economico ricavano enormi profitti risparmiando servizi sociali e sfruttando due lavoratori con un solo salario: l’operaio e sua moglie…le ore lavorative per le donne, oltre alle prestazioni domestiche, hanno anche il ‘privilegio’ del lavoro extradomestico. Nessun operaio lavora altrettanto. Inoltre, l’operaio è pagato, la casalinga no. L’operaio può scioperare, la casalinga no…Ma soprattutto, questa famiglia nucleare è la cinghia di trasmissione dell’oppressione sociale da una generazione all’altra. La condizione subalterna della donna si perpetua infatti attraverso la famiglia che prima inculca nelle bambine la pseudo-vocazione di casalinghe e di madri, e poi sospinge le ragazze alla ricerca di un marito e infine inchioda le donne adulte al ruolo di fornitrici non retribuite di servizi…La famiglia è in realtà il centro dove le frustrazioni dei coniugi si scontrano e si proiettano sui figli, produce individui prepotenti con i deboli e remissivi con i forti, incapaci di ribellioni razionali…Questo tipo di famiglia va demolito.” (Fronte Italiano di Liberazione Femminile, 1970).
(Stralci da un articolo pubblicato su “Liberazione”, 5/12/2007)