Alfabeto d’origine – frammenti

Il dialetto

“La fedeltà al dialetto, che mi ha consentito di imparare come unica lingua straniera l’italiano, anziché estendere la geografia del pensiero e indurla a rivisitare i luoghi da cui è nata, ha congelato i piedi e le gambe nel ricordo di strade oggi irriconoscibili, e ha costretto un tempi lunghissimo della vita a nascondersi dietro segnali di difficile traduzione”.

Corrispondenze amorose

“Corpi di altre scritture, sottratte ai loro tempi e luoghi e frammentate quanto basta per fartele amiche, parenti, amanti.”

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Riconoscere le proprie radici e l’impronta duratura che lasciano dentro di noi, e’ importante. Ma non e’ detto che sia quello per tutti il luogo della nostalgia e del ritorno, soprattutto se si e’ conosciuta la liberta’ di sentirsi a casa dovunque.

(Per l’immagine di copertina – un dipinto di Vanessa Bell- ringrazio Susanna e Marina Avitabile, che me l’hanno suggerita.)

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Elogio della scrittura

(…e promo per il mio libro, “Alfabeto d’origine” in uscita da Neri Pozza, da cui è tratto questo frammento)

“Nell’esperienza femminile la scrittura prende un rilievo particolare, messa all’incrocio di vita e di morte, di solitudine e di possibilità di incontro, di perdita, lutto e rinascita. Si ha l’impressione di scrivere ‘contro’, contro il mondo e contro se stesse, di ‘farsi violenza’, di togliersi l’aria, le stagioni, i corpi dei bambini, lo scorrere del tempo, gli odori, i ritmi naturali, di costringersi all’isolamento in quella ‘caverna’ che è la parte segreta di sé. In questa alternativa drammatica, la scrittura diventa un impedimento a vivere.
Ma la vita, l’amore di una donna, finché è, soprattutto, amore per gli altri, per i figli (…) finisce per ‘sgretolarsi’ e ‘inasprirsi’. Occorre perciò ‘essere dentro’ la propria vita e nello stesso tempo ‘a fianco’, sapersene scostare quanto basta per entrare in quelle regioni nascoste, dove è ancora possibile ritrovare la compagnia di se stesse, dare tregua al ‘timore di non essere amate’ e, nel silenzio di altre lingue, ‘lavorare alla propria resurrezione’.
Non c’è da meravigliarsi allora se, quello che era sembrato un ritiro dal mondo, una volta che ha pescato parole da fondali così segreti, si rivela capace, per quelle stesse strade, di incontri, commozioni imprevedibili.”

Laboratorio di scrittura d’esperienza

Dalla pagina ufficiale del Festival delle donne e dei saperi di genere: 

Scritture d’esperienza, per interrogare modelli di pensiero e produrre liberazione. Laboratorio con Lea Melandri.
“Il laboratorio di scrittura d’esperienza” tenuto da Lea Melandri, si compone di tre segmenti: la prima lezione aperta sul tema: “Scrittura d’esperienza e linguaggio non sessista” di venerdì 31 marzo, ore 16:30, che si svolgerà presso l’Ex PalaPoste in compagnia della docente e nota linguista Cecilia Robustelli, a questo incontro parteciperanno inoltre: Mimmo D’Oria (Alliance française de Bari) e Lorena Saracino (giornalista). L’incontro è organizzato in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti di Puglia.
Seguiranno le due giornate di laboratorio pratico: “Laboratorio di scrittura d’esperienza” che si svolgeranno sabato 1 aprile, ore 9:30/16:30, e domenica 2 aprile, ore 9:30/13:00, presso la Casa delle Donne del Mediterraneo in Piazza Balenzano; queste due giornate di formazione si svolgono in collaborazione con gli Stati Generali delle Donne e con l’associazione culturale “Donne in corriera” di Bari.
I posti per seguire il laboratorio sono limitati, è necessario prenotarsi entro il 27 marzo scrivendo a info@festivaldonnesaperidigenere.it oppure chiamando al 339.620.18.62 dal lunedì al venerdì, dalle 9:30 alle 14:30.

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Articolo su Ilikepuglia.it qui

Laboratorio di scrittura di esperienza, Roma, 20-22 gennaio 2017

Rimandato rispetto alla data prevista dei primi di novembre, causa ponte, il mio Laboratorio di scrittura di esperienza si terrà quest’anno dal 20 al 22 gennaio presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma, che ringrazio.

Scritti/Prescritti/Postscritti/Trascritti/Riscritti.
Riprendono i Laboratori di scrittura di esperienza. Casa internazionale delle donne. Roma

(da “A zig zag”, Gruppo sessualità e scrittura, Milano 1978)

“Che cos’è la scrittura?
Una costrizione, un modo per eludere la sofferenza, il sostituto di una passeggiata, di un rapporto amoroso, il sogno onnipotente di esistere per molti e in più luoghi contemporaneamente, oppure il piacere di tentare l’immaginazione, la libertà di nascondersi dietro un travestimento?”

“Ma io, perché scrivo?
Ho scritto, nella mia infanzia, per non sentire i rumori della casa, il crepacuore delle liti violente tra familiari, per non vedere i cambiamenti sempre uguali della campagna, per sopportare la malinconia dei giorni festivi quando non viene mai sera; da adulta, per sopportare gli abbandoni o per avere il pretesto di crearli; altra volte, di domenica, perché avrei avuto voglia di ballare, fare all’amore, fare una passeggiata.
Dietro ogni tipo di scrittura, sentimentale o teorica, privata o pubblica, si cerca affannosamente una persona che non c’è (“ma tu dove sei?”). Sarà che il pensiero e la scrittura sono stati troppo a lungo usati contro il corpo, e sarà anche il fatto che il corpo che la scrittura lascia intravvedere, non possiamo riconoscerlo come nostro.
L’importante è uscire dalla dicotomia: che il corpo è qui e il pensiero altrove, la sessualità una cosa, la scrittura un’altra, per scoprire, semplicemente, che la sessualità è dovunque, e che ha portato finora un segno di violenza.”

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Alfabeto d’origine

Quasi un’autobiografia

Quei pochi libri in cui di volta in volta ho creduto di riscontrare la ‘spudoratezza’ necessaria per nominare “il mondo delle cose che non siamo stati capaci fino a questo punto di dire” (Alberto Asor Rosa), sono diventati, nel lento e ripetuto vaglio a cui li ho sottoposti, accompagnatori e guide di un viaggio verso un passato pervicacemente muto, avaro di ricordi, sepolto nella memoria del corpo. È come se ognuno di quei ‘reperti’, strappati al loro contesto, e persino alla mano da cui erano usciti, potesse parlare per me, e l’intimità che è mancata nelle mie relazioni reali avvalersi del sostegno di parole, sentimenti, sogni in cui riconosceva parentele sorprendenti.

(Dalla Prefazione al mio libro “Alfabeto d’origine”, in preparazione presso l’editore Neri Pozza per il 2016)

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Le orme della scrittura

(Frammenti da un’intervista di Giovanni Zaccherini, pubblicata su “La voce di Romagna”, 14/12/2012)
Quando penso ai 25 anni che ho trascorso in Romagna, alla condizione di povertà, fatica e violenza in cui vivevano allora le famiglie contadine, mi sembra di aver vissuto un’altra vita, fatta di un tempo infinito e di orizzonti lontani solo presentiti, oltre la riva di un canale o un filare di viti. Non posso dire di averne riportato solo dolore e ferite profonde. Quando parlo di “memoria del corpo”, di sedimenti emotivi, immaginari, che non riescono neppure a diventare ricordi, ma che ci sono e muovono pensieri, stati d’animo, sbalzi inaspettati di umore, penso a quella radice di terra, temprata da donne e uomini di straordinaria vitalità, pur costretti a lavori servili, capaci di passare dalla zappa al ballo, dall’ira alla battuta di spirito. Delle donne conosciute allora ho portato con me un’idea contraddittoria, confusa, su cui ho avuto modo di riflettere solo in seguito alla luce della consapevolezza nuova che mi veniva dal femminismo. Le sentivo forti più dei loro mariti e padri, per certi versi emancipate, nel lavoro, nella sessualità, eppure sottomesse, sottoposte a maltrattamenti, lucide e impietose nel mettere allo scoperto le debolezze e la violenza maschile, ma sentimentalmente inclini a perdonarli e a sostenerli, come si fa coi bambini.
(…)
Non c’è dubbio: il passaggio dal dialetto, la lingua parlata in famiglia, all’italiano imparato a scuola, ha provocato fin dalle elementari una separazione destinata a durare tra la fisicità dominante, per la classe sociale e il sesso “senza storia” a cui appartenevo, e un pensiero che non poteva raccoglierla, tradurla nei linguaggi colti della letteratura, dell’arte, della filosofia. Il dualismo, corpo-mente, natura-cultura, è diventato non a caso il filo conduttore di tutta la mia formazione intellettuale. Il mondo emotivo, legato alla mia infanzia e adolescenza è rimasto in gran parte consegnato al dialetto, e ho invidiato il mio amico, compaesano, Giuseppe Bellosi, che di quella nostra prima lingua è riuscito a fare opera poetica. E’ come se avesse scritto anche per me.
Non posso dire tuttavia che il corpo, le passioni non siano entrate nella mia scrittura. Avvicinare la parola al vissuto corporeo è stato un desiderio costante del mio percorso intellettuale, un po’ come ritrovare radici di terra troppo violentemente strappate, e ha comportato una lunga riflessione su me stessa, una ricerca di anni. E’ stato solo nel corso della terapia analitica che ho fatto negli anni ’80, che ho sentito la mia scrittura cambiare, il pensiero teorico lasciarsi contaminare da spinte emotive, la chiarezza del ragionamento dalla densità sentimentale dei ricordi. E’ stato in quegli anni che ho scritto il mio libro più “lirico”, anche se si trattava di una scrittura saggistica: Come nasce il sogno d’amore. Del resto, l’idea di uscire dai dualismi che ci hanno tenuto divisi in noi stessi, è la lezione più originale del femminismo. Il desiderio di ritrovare l’interezza del proprio essere non poteva che partire dalle donne, che col corpo sono state identificate, ma di cui hanno subito al medesimo tempo una violenta espropriazione.
(…)
Ho detto spesso che i miei libri nascono “strada facendo”. Non so cosa vuole dire mettersi a tavolino, avere un’idea in mente articolata in capitoli, comporre le argomentazioni secondo un ordine prestabilito. Forse questo fanno gli studiosi. Io ho avuto la fortuna di non avere una formazione accademica, anche se ha fatto l’università, e di aver cominciato la mia scrittura pubblica con un movimento antiautoritario che mi permetteva di fare della vita, dell’esperienza personale, non più il “fuori tema”, come era stato al liceo, ma “il tema”. Mi considero una pensatrice libera, solitaria e socievole tanto da poter tenere insieme una pratica politica fatta di incontri, riflessione collettiva, e momenti in cui il pensiero torna sui propri passi, e ritrova il silenzio necessario per scavare nel profondo della vita personale, inseguendo quei tracciati remoti che accompagnano l’individuo come un destino. Se per un verso il mio impegno nel movimento delle donne mi ha portato ad allargare sempre di più il cerchio delle amicizie, degli interessi, delle conoscenze, gli scritti –relazioni, articoli, saggi-,
per quanto all’apparenza occasionali, a guardare bene rientrano sempre in qualche modo nel loro “solco” antico. Sono rimasta la figlia del contadino, che aiutava i famigliari nella semina, che sognava le strade del mondo ma poi si rintanava dentro le braccia protettive degli alberi.

Foto di Cesare Ballardini

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Gertrud Kolmar

Alcune poesie e una interessante lettura di Marina Zancan
“Totalmente lontana da ogni forma di ambizione mondana, così le sue carte sembrano segnate da un destino parallelo di incontri quasi privati. Stampate, la prima volta, per la cura affettuosa del padre, apprezzate da Walter Benjamin, il cugino con cui Gertrud discute in carte private di cultura e di poesia, le sue poesie raggiungono la scena del pubblico nel ’38, subito cancellate dalle leggi razziali; consegnate da quella data in poi a familiari emigrati, perché le conservassero, le sue scritture, sommessamente riproposte in Germania dopo la guerra, solo negli ultimi anni hanno iniziato ad acquisire visibilità e valore”.

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Corpi e scritture

La mia scrittura si è fatta agile per seguirmi dovunque
e si è diradata per lasciarmi vivere.

A volte mi chiedo se quel velo, che la cultura ha solo impreziosito e legittimato come distacco necessario alle funzioni prioritarie del pensiero, si sia mai aperto per lasciare entrare l’aria dei campi e le sagome tanto amate degli alberi, da cui mi divideva una siepe fitta di riferimenti letterari.

Si può scrivere anche per strada
quando i pensieri non sono più lacci che stringono i piedi e le mani.
Ma se il cuore è una bestia impazzita e non basta una stanza a tenerlo,
io i pensieri li annodo e gli faccio una gabbia.

Corpi di altre scritture, sottratte ai loro tempi e luoghi
e frammentate quanto basta per farsele amiche, parenti, amanti.

Ho sempre preferito, tra le scritture degli uomini, voci della nostalgia
-fanciulli, poeti, sognatori- o quelle che, pur ancorate a rigorosi ambiti teorici,
non si vergognavano di chiedere insistentemente che si dissacrassero i recinti di ogni tempio privato, di ogni più intimo e personale pudore.

Non ho mai potuto nascondermi che la scrittura veniva ad occupare il posto contraddittorio di una presenza-assenza,
di un calore raggelante,
di una compagnia rivelatrice di più profonde solitudini.
Ho scritto per essere raggiunta, ma anche per marcare una distanza,
per aprire un varco alla memoria e per consolarmi di averla perduta,
per segnalare il bisogno d’amore
e per ritenermi paga di averlo trovato per altre vie.

Lea Melandri

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