Lo strabismo della memoria

“Memoria storica e memoria poetica, rami divisi del protagonista unico che ha preteso di regolare il tempo facendosi sordo ai ritmi del suo corpo, si contendono da sempre la scena sociale, e a un osservatore attento non può sfuggire che il sonno e la veglia, il rigore scientifico e la favola, la ricostruzione documentata e la seduzione del mito, si sono tenuti, a nostra insaputa, millenaria compagnia.
Quanto sia stata, e sia tuttora, pacifica o dibattuta, tenera o violenta, lo dicono ampiamente le scritture degli uomini. Alle donne spetta il triste privilegio dello smemorato, il quale non saprà mai se sta ricostruendo la sua vita o incontrando per la prima volta la sua nascita.”

“….quello che oggi mi appare, retrospettivamente, l’invenzione di un linguaggio capace dei suoi miti e delle sue pose eroiche, altro non è che l’alfabeto di una lingua comune a tutti gli esseri umani, modellata su sogni, desideri e paure che si accompagnano a ogni nascita e a ogni ingresso nella vita sociale. Ridisegnarne le forme e accoglierle dentro le maglie di complesse grammatiche colte, vuol dire scuotere il lungo sonno che ha tenuto l’umanità ancorata al ricordo della sua origine, ma significa anche restituire ai sogni l’incanto e la dolcezza che hanno solo quando si lasciano guardare alla luce del sole.”

“Non potendo rinunciare all’amore di una madre e non vedendo su di sé i segni di un autonomia, che si misura ancora soltanto a parole, la donna porta nei territori che le hanno fatto guerra la sua pretesa di infanzia.
Ma mentre si affanna a rafforzare le traballanti città dell’uomo, per trovarvi il calore di una casa, continua ad indicare, in lontananza, la terra natale che le è mancata.(…)
Intollerabile per chi aspetta ancora il calore di un gesto materno, l’adorazione che gli uomini riservano ai cieli invisibili delle loro madri muove invidie profonde e durature come l’odio di un popolo per un vincitore che ha invaso le sue terre, prima che egli stesso potesse riconoscerne i benefici.”

“Costretto a confrontarsi con una terra solida, il vuoto d’amore che fa dell’origine di ogni donna un luogo senza ritorno, rinuncia alla copertura malinconica del sogno, perché tutti riconoscano nella “preistoria” di una “piccola selvaggia” la stessa forza del desiderio e la stessa sensualità per le quali l’uomo si è attribuito il possesso esclusivo del corpo femminile. La “tenerezza”, che è nostalgia di unioni perfette, paradiso che compone in armonia gli opposti destini dei figli e delle madri, si spoglia del velo di una felicità ingannevole e mostra come insegne di morte e di follia siano state poste sul cammino che doveva avvicinare una donna a un’altra donna.
Là dove Freud può volgersi con sguardo dolce verso la dimora ideale che gli assicura continuità di affetti e di ritorni, Dora può solo contemplare nel volto stravolto della malattia le tracce si una passione antica, a cui non è stato permesso di vedere la luce del sole.”

(da L.M., “Lo strabismo della memoria”, La Tartaruga edizioni , Milano 1991. In via di ristampa con la Casa Editrice Smasher, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), di cui è fondatrice l’infaticabile Carmen Giulia Fasolo)

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Tramite lettera

Esperienze precedenti mi hanno insegnato che la lettera che si manda a una rubrica di posta ha il singolare privilegio di tenere insieme la ‘confidenza’, la consegna fiduciosa dei propri pensieri a un interlocutore attento, e l’estensione massima che può avere il sentire del singolo, fatto oggetto di riflessione collettiva. Scrivere a uno per parlare a molti. L’angolo della posta può ambire a disegnare strade che non portino a contrapporre il Cuore e la Politica, o a farne, come capita sempre più spesso, una poltiglia velenosa.
Cara Lea,
dopo aver letto la tua rubrica di posta sugli Altri del 12 marzo, ti scrivo per parlare di un altro tema su cui regna il silenzio, il tema dell’infanticidio. Dal 2004 al 2008 sono stati 133 i casi segnalati,di cui i più recenti ancora freschi di cronaca. Quello che colpisce è la scarsità di informazione con cui vengono trattate queste notizie. Che cosa c’è dietro? Quanta violenza privata? Così un paio di anni fa ho scritto sul tema un testo letto in pubblico. Alcune donne, non preparate, non hanno celato l’imbarazzo dopo l’ascolto. Poi è uscito il saggio di Elisabeth Badinter , Le conflit. La femme et la mére, che riapre la riflessione. Non ti sembra che dopo le conquiste del femminismo storico, la donna sia stata ricacciata nel ruolo nostalgico di madre, accompagnato e appesantito tuttavia dal desiderio di non dover rinunciare al lavoro fuori casa? In questo processo che ha investito il femminile, il maschile non è stato modificato nella sostanza per cui ora alla donna tocca un carico di lavoro sovrumano. Da dove altrimenti il numero crescente di donne che uccidono i figli? Sento una profonda comprensione per la solitudine in cui vivono queste donne, al di là di un troppo facile giudizio moralistico o pietistico.
Bianca Maria Neri
Cara Bianca Maria,
sulla donna che uccide il proprio figlio cade quasi sempre un giudizio impietoso. Se non si può addebitarle l’uso di droghe, come in uno dei casi più recenti, si lascia intendere che, a distoglierla da una doverosa dedizione materna, sono intervenute ‘velleità’ nascoste o malcelate -carriere, amori, successi- una distrazione imperdonabile rispetto a quella che resta, al di là dei cambiamenti, il ‘naturale destino’ femminile. Sulla ‘violenza privata’ che c’è dietro, nulla si dice perché della maternità, dell’oscuro travaglio di vita e di morte che esso comporta molto poco hanno detto le donne stesse. Nella Prefazione al romanzo Teresa, di Artur Schnitzler, Sibilla Aleramo commenta così il tentato infanticidio della protagonista: “quella feroce brama di annientamento, quell’attimo di coscienza, non sai se disumana o sovrumana, in cui la donna si ribella alla natura, si ribella a essere strumento di vita, poi quel trapasso dall’odio all’amore, quell’accettazione sommessa, quel rapimento e, infine, unica ma formidabile rivalsa, quel sentimento assoluto per tutta l’eternità, che il figlio è suo, soltanto suo”. Con una lucidità che neppure il femminismo sembra aver conservato, Sibilla sottolinea il legame perverso tra due violenze: quella che ha fatto della donna lo strumento della conservazione della specie per secoli, senza il suo consenso, e quella che, a sua volta, per ‘rivalsa’ o per un disperato rifiuto, la donna è spinta a esercitare sul figlio come suo ‘possesso’. ‘Si può uccidere un bambino perché piange?’-ci si è chiesti a proposito del delitto di Cogne. La risposta tragica e banale che si esita a dare è ‘sì, si può’, almeno finché si pensa che la sorte della madre e del figlio siano legate per sempre e in modo esclusivo, che per crescere l’individualità dell’uno sia necessario il sacrificio dell’individualità dell’altra.
(da “La posta di lea”, giornale “Gli Altri”, anno 2010)

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Scritture di esperienza

Frammenti dalla Lettura al libro di Elia Malagò:
“L’ombra ripresa”, Tre Lune Edizioni, 1999.

Ma se le “radici” che conservano oscuramente tanta parte di sé sono lasciate così a lungo nella dimenticanza –”nascoste ai propri stessi occhi”, “sepolte e mai sfiorate”–, è soprattutto perché le accompagna una sofferenza che “non si è disposti a vivere neanche nel ricordo”.

Quando l’infanzia diventa “cosa da non dire”, il “buco nero” di un pianeta che è impossibile “ricostruire”, disegnato ora da punti vaghi ora dall’esattezza di “inutili particolari”, significa che il dolore che l’ha attraversata ha cambiato nome, costretto come la punta di un iceberg a lasciar crescere nell’ombra i suoi sedimenti, conficcati nel petto come tenaglie, e a convertire il bisogno di consolazione nella forza di un’orgogliosa solitudine.

Per questo i “racconti di casa”, avverte Elia Malagò, fin dalle prime pagine del suo libro, non possono essere detti con la leggerezza di un divertimento, né confondersi con le “filastrocche di controcanto” inventate per la dolcezza di un pomeriggio fuori città.
“Tornare a capo”, facendo finta che sia l’inizio, è il movimento raro di un pensiero che ha faticosamente misurato il tempo particolare dell’infanzia, “breve” e “lunghissimo”, casuale e definitivo, concluso e irrimediabile.

“Terribile l’infanzia. Ogni volta che si respira e si muore, si svolta l’angolo di casa o si va nel bosco è per sempre. Quando cessa la felicità e entra la vita con la sua angoscia, si chiude la porta. Non si riaprirà mai più, neanche per un momento, neanche in un sogno, senza che non si sappia anche il sapore del rimpianto, non si conosca con precisione che è tutto finito. Sempre e mai più. Accade nel giro di pochi anni, ed è irrimediabile. Vissuto, stabilito e risolto una volta per sempre, con le parole definitive che si spalancano la strada con la violenza di una tromba d’aria: in un attimo si insediano per tutto iI resto della vita.”

L’infanzia –la Braiola, il cortile che come “un’isola nel cuore di un paese del Po” ha racchiuso segrete comunanze di una “razza diversa”, le asprezze di gente povera e fiera– è l’osservatorio da cui si impara ad amare e odiare a lungo, la preistoria sepolta, ma mai del tutto cancellata di una vita costretta a ricalcarla a sua insaputa, o col sapere muto di “impronte” durature infossate nelle viscere, tra le scapole, nella falcata delle gambe. Si può accettare un “ritorno a casa” consapevole di una perdita definitiva e disposto a dire “i nomi della paura”, “snidare il tormento dei sogni” e della “ragione che precede”, soltanto quando la “follia” di impenetrabili acque originarie ha svelato il suo segreto e quando la felicità totale riposta nelle fusioni intime dei primi amori, ha riconosciuto il suo ambiguo sapore di

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Gertrud Kolmar

Alcune poesie e una interessante lettura di Marina Zancan
“Totalmente lontana da ogni forma di ambizione mondana, così le sue carte sembrano segnate da un destino parallelo di incontri quasi privati. Stampate, la prima volta, per la cura affettuosa del padre, apprezzate da Walter Benjamin, il cugino con cui Gertrud discute in carte private di cultura e di poesia, le sue poesie raggiungono la scena del pubblico nel ’38, subito cancellate dalle leggi razziali; consegnate da quella data in poi a familiari emigrati, perché le conservassero, le sue scritture, sommessamente riproposte in Germania dopo la guerra, solo negli ultimi anni hanno iniziato ad acquisire visibilità e valore”.

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Francoise Lefévre, “Il Piccolo Principe Cannibale”

Dalla prefazione di Lea
“Nell’esperienza femminile, la scrittura prende un rilievo particolare, messa all’incrocio di vita e di morte, di solitudine e di possibilità di incontro, di perdita, lutto e rinascita. Si ha l’impressione di scrivere “contro”, contro il mondo e contro se stesse, di “farsi violenza”, di togliersi l’aria, le stagioni, i corpi dei bambini, lo scorrere del tempo, gli odori, i ritmi naturali, di costringersi all’isolamento in quella “caverna” che è la parte segreta di sé. In questa alternativa drammatica, la scrittura diventa un impedimento a vivere.
Ma la vita, l’amore di una donna, finché è, soprattutto, amore per gli altri, per i figli –“troppo spesso nella parte di quella che prepara da mangiare, che si occupa dei bambini, nutre e accarezza”- finisce per “sgretolarsi” e “inasprirsi”. Occorre perciò “essere dentro” la propria vita e nello stesso tempo “a fianco”, sapersene scostare quanto basta per entrare in quelle regioni nascoste, dove è ancora possibile ritrovare la compagnia di se stesse, dare tregua al “timore di non essere amate” e, nel silenzio di altre lingue, “lavorare alla propria resurrezione”.
Non c’è da meravigliarsi allora se, quello che era sembrato un ritiro dal mondo, una volta che ha pescato parole da fondali così segreti, si rivela capace, per quelle stesse strade, di incontri, commozioni, imprevedibili.”

Francoise Lefévre, “Il Piccolo Principe Cannibale”, Muzzio Editore, 1993.