Il femminismo è in silenzio quando non gli si dà la parola.
Lea Melandri – qui il video della puntata di ‘Il visionario’ del 13 giugno 2016.
Il femminismo è in silenzio quando non gli si dà la parola.
Lea Melandri – qui il video della puntata di ‘Il visionario’ del 13 giugno 2016.
Stralci di un percorso personale e politico
La centralità che ha avuto il tema dell’amore nel mio percorso intellettuale e politico all’interno del movimento delle donne -in modo abbastanza solitario- è dovuta, almeno in parte, a un tratto romantico, sentimentale, che viene da qualche zona remota della mia storia personale. Più precisamente, si tratta di una singolare commistione di sogno e lucidità di analisi che ho ritrovato in Sibilla Aleramo e che ho cercato di analizzare nel mio libro Come nasce il sogno d’amore .
Ma c’è anche la spinta, radicata anch’essa nel mio passato, a tenere fermo lo sguardo su quella zona ancora oscura ed enigmatica che è l’origine, la preistoria dell’individuo e della specie.
Partire dalla memoria del corpo –dai sedimenti profondi della vita psichica- per interrogare il rapporto tra i sessi, vuol dire riconoscere che il dominio maschile non nasce da una volontà malvagia dell’uomo, o da una sua ‘naturale’ pulsione di morte, ma da passaggi inconsapevoli di necessità che riguardano lo sviluppo della specie umana, il passaggio dalla natura alla cultura.
Per tornare al percorso autobiografico che sta dietro ogni teorizzazione, anche la più astratta, devo dire che la centralità che ho dato alle tematiche del corpo è strettamente legata alla mia origine: figlia femmina di famiglia contadina che ha avuto il singolare privilegio di poter studiare. Il dualismo corpo-pensiero, natura-cultura, femminile-maschile, era nella mia condizione di partenza, e ha reso particolarmente lento, difficile, contrastato, il processo di emancipazione tradizionalmente inteso. Ho sentito a lungo estranea la vita pubblica, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le sue istituzioni, mentre è stato molto forte il legame con la cultura e i linguaggi dell’uomo-figlio: filosofia, religione, arte.
Nel momento in cui avrei potuto “emanciparmi”, dopo la fuga dal paese d’origine e l’arrivo a Milano, ho incontrato, per mia felice sorte, il movimento non autoritario del ’68 nella scuola e il femminismo, che partivano proprio dal corpo, dalla vita personale, dalla sessualità, per mettere in discussione l’ordine esistente, la divisione tra pubblico e privato, la relazione tra i sessi.
Ho cominciato allora a rendermi conto che quello che nei miei studi liceali era rimasto il “fuori tema” –una materia di esperienza dolorosa e intraducibile nelle lingue colte- poteva, nella prospettiva di una profonda rivoluzione culturale, diventare “il tema”. Nello stesso tempo, cominciavo a riflettere sui nessi, i legami che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro del dualismo, sulle implicazioni inconsapevoli che la dualità, come costruzione maschile, aveva con l’interiorizzazione da parte delle donne di un’unica visione del mondo.
Ricerca di nessi voleva dire per me, da un lato continuare a scavare a fondo nel vissuto corporeo, psichico, intellettuale del singolo -autocoscienza, scrittura di esperienza-, dall’altro, partendo da questo sguardo e da questa lenta modificazione di sé , intesa come autonomia da pregiudizi, habitus mentali, schemi cognitivi incorporati, affrontare i saperi e i poteri della vita pubblica.
Ho cominciato a farlo dagli anni ’70, individualmente e collettivamente -dal gruppo “sessualità e scrittura”, ai corsi della donne, alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”-, ma in modo ancora libresco o filtrato dai saperi disciplinari che mi erano famigliari, come la letteratura, la filosofia, la psicanalisi.
Gli anni ’80 hanno rappresentato, per quanto mi riguarda, l’inizio di una riflessione e di una scrittura più specificamente legata ai temi dell’immaginario amoroso: rubriche di “posta del cuore”, “scrittura di esperienza”, analisi del “sogno d’amore”.
Nel momento in cui prevaleva nel femminismo l’orgoglio dell’appartenenza di sesso, la voglia di “vivere con agio”, l’affermazione della fine del patriarcato, occuparsi del sogno d’amore -dal libro che stavo scrivendo alle rubriche di posta del cuore su “Ragazza In” e su “Noi donne”- fu visto da alcune come un tornare sulla “miseria femminile”. Per me ha voluto dire invece riprendere e approfondire l’intuizione originale del femminismo: il dualismo sessuale, la consapevolezza che le figure di genere non hanno dato forma solo a rapporti e gerarchie di potere tra uomini e donne, ma, come conseguenza della complementarità, anche all’amore tra i sessi, al sogno di ricongiungimento di “nature”diverse, e all’ideale di interezza dell’individuo.
Finché il maschile e il femminile sono visti come poli complementari, come se fossero le due metà di un intero, c’è nell’amore una “terribile necessità”.
Come spiegare altrimenti un’interiorizzazione della visione maschile del mondo così duratura? Come spiegare una subalternità così evidente delle donne nella vita pubblica, l’emancipazione come assimilazione al neutro? La difficoltà è pensare l’interezza del proprio essere fuori dall’ideale androgino, di cui parla Virginia Woolf.
La complementarità è ingannevole, ma esercita ancora una grande attrazione: basta pensare al protagonismo che hanno preso le due grandi attrattive delle femminilità nelle sfera pubblica: la maternità e la seduzione. Il processo di autonomia dai modelli interiorizzati ha ancora molta strada da fare. Ma, soprattutto, interessa uomini e donne, interroga la femminilità come la maschilità.
Virginia Woolf, “Momenti di essere”, La Tartaruga Edizioni, Milano 1977
“Il passato ritorna soltanto quando il presente scorre così liscio da parere la superficie mobile di un fiume profondo. Allora si vede attraverso la superficie fino in fondo. In quei momenti ritrovo la soddisfazione più grande, che non è di pensare al passato; ma di vivere, in quei momenti, più appieno il presente (…) scrivo per ritrovare il senso del presente nell’ombra che il passato getta su questa superficie frantumata. Lasciate dunque, come un bimbo che avanzi scalzo nelle acque fredde di un fiume, che io discenda di nuovo in quella corrente.”
“Non è dunque possibile, mi sono chiesta spesso, che le cose vissute con grande intensità posseggano una vita indipendente dalla nostra mente; continuino anzi tuttora a esistere? E se è così, non sarà possibile in futuro inventare una macchina per intercettarle? L’immagino, il passato, come un viale alle mie spalle; un lungo nastro di scene, di emozioni. E laggiù, alla fine del viale, stanno gli orti e la stanza dei bambini (…) Le emozioni intense non possono non lasciare traccia; si tratta solo di scoprire come ricollegarsi di nuovo con esse, e potremo rivivere per intero la nostra vita dall’inizio.”
“Fino ai quarant’anni e oltre -potrei stabilire la data controllando quando scrissi “Gita al faro”, ma non ho voglia ora di prendermi la briga- fui ossessionata dalla presenza di mia madre. Ne udivo la voce, la vedevo, mi immaginavo cosa avrebbe detto o fatto in ogni momento della mia giornata. Era una delle presenze invisibili che svolgono tanta parte in ogni vita umana (…) ebbene, se non sappiamo analizzare queste presenze invisibili, sapremo ben poco del soggetto delle memorie; e allora, che futile attività diventa scrivere biografie. Mi vedo come un pesce nella corrente; sospinto altrove; trattenuto; ma non so descrivere la corrente.”
“Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square pensai, come mi accade talvolta con i miei libri, pensai “Gita la faro” (..) scrissi il libro molto rapidamente; e quando l’ebbi finito, smisi di essere ossessionata da mia madre: non odo più la sua voce; non la vedo. Probabilmente feci a me stessa quello che gli psicoanalisti fanno ai loro pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda. Ed esprimendola ne trovai la spiegazione e la potei riportare placata.”
“Eccola, mia madre, al centro della vasta cattedrale che era l’infanzia; era là dall’inizio (…) E, s’intende, era il centro di tutto. Il centro:forse è questa la parola che esprime meglio la diffusa sensazione che avevo di vivere immersa così totalmente nell’atmosfera di lei, da non distaccarmi mai abbastanza da vederla come persona (…) Quante cose sconnesse ricordo di mia madre, se lascio scorrere il pensiero; ma tutte di lei in compagnia; di lei in mezzo ad altri; di lei generalizzata; dispersa, onnipresente, di lei come creatrice di quell’affollato, allegro mondo ruotante al centro della mia infanzia.”