‘Individuo e collettivo: chi se ne ricorda più?’

A seguito della tavola rotonda che si è tenuta a Roma -sabato ore 19 al Festival IMPUNITA dedicati a Don Milani e alla sua ” buona scuola”, riporto un mio articolo su Elvio Fachinelli, sulla lettura che fece di Lettera a una professoressa e sulle successive riflessioni sul rapporto individuo e collettivo.

‘Individuo e collettivo: chi se ne ricorda più?’, “Tysm”. Pubblicato il 6 ottobre 2015. (Ultimo accesso: 27 ottobre 2017. http://tysm.org/individuo-collettivo-ne-ricorda-piu/

 

‘ “A scuola con Zazie” prevede l’educazione alla parità di genere, alla sessualità e alla non violenza. E un laboratorio con Lea Melandri’

A Cosenza: leggi

La parità tra i sessi si impara in classe, un progetto alla Gullo di Cosenza

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Presentazione progetto “A scuola con Zazie”

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Immagine tratta da CosenzaInforma

Cosenza 20 aprile 2017
Istituto Scolastico “Gullo”: Progetto formativo “A scuola con Zazie”.

Laboratorio discrittura di esperienza.

“Mortificata o cancellata dietro l’esercizio tecnico del ‘tema’ tradizionale, quale altro posto o significato potrebbe allora avere la scrittura nella scuola? Come il desiderio di parola, anche il desiderio di scrittura è prioritariamente legato alla relazione con se stessi e con gli altri .
(…)
E’ quella che ho chiamato la “scrittura di esperienza”, legata alla conoscenza di sè, all’esplorazione di zone rimosse, accantonate, del pensare e sentire del singolo, anche se, per certi versi, le più universalmente condivise.
La scrittura diventa allora il viaggio, carico di imprevisti, attraverso tutto ciò che dell’umano risulta ancora ‘indicibile’, ‘impresentabile’, un modo per accostarsi alle cose che non siamo stati capaci di nominare, tesori di cultura sepolti nella memoria del corpo, che si tratta solo di portare alla luce.”
(…)
La nostra soggettività è combinazione di voci e volti diversi, per cui, se la sappiamo ascoltare, ci accorgiamo che parla una ‘lingua ibrida’, in cui confluiscono come in una deriva morenica parole non dette, parole ascoltate da altri, materiali colti e ‘comuni’.”

Aziendalizzazione della scuola e formazione alla precarietà.

Un articolo di Roberto Ciccarelli
“L’ alternanza scuola-lavoro», ovvero i tirocini e stage in azienda, è stata resa obbligatoria dalla riforma vergata dall’ex ministro dell’istruzione Stefania Giannini ed è diventata materia di esame con la subentrante Valeria Fedeli al Miur.
Si conclude il lungo processo di riforma neoliberale dell’istruzione superiore basata sulla formazione alla precarietà e al lavoro gratuito e sulla riduzione del sapere a «pillole», oggetto di una valutazione e certificazione da parte dei docenti trasformati in somministratori di test, come in una scuola guida. Avere legato l’esito dei quiz, come dei «tirocini» in azienda, al voto della maturità sarà – probabilmente – un ostacolo alle proteste degli studenti e un formidabile vincolo al auto-disciplinamento per sottrarsi al ricatto di un «cattivo voto»”

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C’è di che preoccuparsi…

C’è di che preoccuparsi…
“E’ un messaggio rivolto a tutti, ma forse c’è un terzo messaggio rivolto ad alcuni. Può essere una coincidenza, ma in molte delle scuole, anzi delle classi perquisite c’erano studenti appartenenti ai collettivi studenteschi. Se non è solo una coincidenza, allora il terzo messaggio è questo: vi controlliamo tutti, ma in particolare teniamo d’occhio voi che fate politica, voi dei collettivi, voi che vi definite comunisti o anarchici; rientrate nei ranghi, che è meglio per voi. E lei, professore, torni pure a parlare di Martin Heidegger. Non è successo niente”.

Testo completo

Quella che segue è la lettera di Antonio Vigilante, insegnante di filosofia e scienze umane al Liceo “Piccolomini” Siena
“Le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nella mia classe quinta, mentre stavamo parlando di Martin Heidegger. Irruzione è un termine forte, ma esatto in questo caso: nessuno ha bussato e chiesto il permesso. Hanno svolto un controllo antidroga facendo passare tra i banchi un pastore tedesco, poi sono andati via. A mani vuote, come si dice.Non è la prima volta che succede, naturalmente, anche se è la prima volta che succede a me. E’ successo, qualche giorno fa, al liceo Virgilio di Roma, e la cosa è finita sui quotidiani nazionali, perché il Virgilio è un liceo molto ben frequentato. E’ successo qualche giorno prima al Laura Bassi di Bologna, anche lì con molte polemiche. E’ successo e succede quotidianamente in decine di istituti tecnici e professionali, che fanno poco notizia perché non sono così ben frequentati come il liceo Virgilio di Roma. E due anni fa, a Terni, un docente è stato sospeso dall’insegnamento per essersi opposto all’ingresso delle forze dell’ordine in classe.
Quelli che sono favorevoli a queste incursioni ragionano come segue: spacciare è un reato, e il reato è un male, e va perseguito; se uno è a posto, nulla ha da temere. Diamo per buono questo ragionamento, ed esaminiamone le conseguenze. Se è così, allora è cosa buona e giusta che le forze dell’ordine facciano irruzione nelle abitazioni private. Sarebbe un modo efficacissimo per combattere il crimine. Controlli a tappeto, a sorpresa, nelle case di tutti. Poliziotti, carabinieri, cani antidroga. In qualsiasi momento aspettatevi che qualcuno bussi alla vostra porta. Che un cane fiuti tra le vostre cose. Se siete a posto, non avete nulla da temere. E perché non estendere i controlli anche nei luoghi di culto? Sì, lo so, molti di voi stanno pensando alle moschee: e la cosa a molti non dispiacerebbe. Ma io penso alle chiese. Immaginate un’irruzione delle forze dell’ordine in una chiesa, durante un rito. I cani tra i banchi che annusano. Cinque minuti e tutto è finito. Se qualcuno ha della droga, lo si porta via. E amen, come si dice.Non vi piace l’idea? Perché? Perché nel primo caso si tratta di un luogo privato, nel secondo caso si tratta di un luogo sacro, direte. E la scuola che luogo è? Io che vi insegno, la considero al tempo stesso un luogo privato – una casa – ed un luogo sacro. Il più sacro dei luoghi, perché è quello in cui si formano gli uomini e le donne di domani. Ma, direte, la scuola è un luogo dello Stato, ed è bene che le forze dell’ordine dello Stato controllino un luogo dello Stato. E’ cosa loro, per così dire. Bene, concedo anche questo. Ed anche in questo caso, vediamo le conseguenze. Il Parlamento è un luogo dello Stato. E’ il luogo più importante dello Stato. E’ lo Stato. Che succederebbe se delle forze facessero irruzione in Parlamento con cani antidroga? Sarebbe una cosa sensatissima, perché in Parlamento si fanno leggi che riguardano la vita di tutti, ed è assolutamente vitale per la salute della nostra democrazia ed il futuro dello Stato che chi fa le leggi sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Eppure se succedesse una cosa del genere, sarebbe un grande scandalo politico. Perché? Per lesa maestà. Perché è umiliante per un senatore essere perquisito, annusato. Sospettato di essere un drogato, o peggio uno spacciatore.
E veniamo al dunque. Quando io vengo a casa tua – perché la scuola è la casa degli studenti – e ti sottopongo a perquisizione, io ti sto dando diversi messaggi. Il primo è che ti considero una persona poco raccomandabile. Non è una questione personale: può essere che tu sia a posto, ma è poco raccomandabile la categoria cui appartieni. Il fatto stesso che si facciano controlli antidroga è una conseguenza dell’infimo status degli adolescenti nella nostra società. E’ risaputo che l’alcol fa in Italia diverse migliaia di morti e causa tragedie terribili. Eppure la vendita di questa sostanza stupefacente pericolosissima è consentita. Lo Stato consente la vendita di alcolici, per giunta con il suo monopolio, mentre i Comuni promuovono apertamente il consumo di vino ed altri alcolici con apposite manifestazioni locali. Il consumo di alcolici è consentito perché è cosa da adulti. E’ una abitudine diffusa tra persone perbene, stimabili, con un buono status sociale. La droga, che fa meno morti dell’alcol, è invece roba da adolescenti, da ragazzetti, da soggetti con uno status marginale: dei minus habentes. E’ significativo che il consumo e lo spaccio di hashish e marijuana siano perseguiti con molto più zelo del consumo e dello spaccio di cocaina, una sostanza molto diffusa tra soggetti dotati di uno status anche considerevole, come professionisti e politici. Non è la sostanza stupefacente il problema. Se così fosse, l’alcol sarebbe proibito. Il problema è chi consuma, non cosa consuma.
Il secondo messaggio è che la scuola è un posto in cui non ti puoi sentire come a casa. Per quanto ti stimi poco, non verrei mai a perquisirti a casa, a meno che non abbia un mandato. Ma a scuola sì. A scuola ti tengo d’occhio. Rispondendo alle polemiche dei genitori per i controlli antidroga al liceo Laura Bassi di Bologna, il procuratore aggiunto Valter Giovannini ha dichiarato:”trova ancora spazio l’arcaico convincimento ideologico che l’università e più in generale gli istituti scolastici godano di una sorta di extraterritorialità“. Nessuna extraterritorialità. Non siete a casa vostra, siete in un posto in cui possiamo entrare e uscire quando vogliamo. Possiamo perquisirvi, possiamo farvi annusare dai nostri cani. Siete sotto il nostro controllo. Del resto, non sono gli adolescenti di continuo sotto il controllo dei professori? Non sono di continuo osservati, richiamati, sanzionati se non si comportano come si deve? Ecco dunque il poliziotto ed il carabiniere che vengono a ribadire il concetto, nel caso in cui non fosse abbastanza chiaro. La scuola è un luogo in cui siete controllati e controllabili, perquisiti e perquisibili. Non è una casa della cultura e dell’educazione, come qualcuno potrebbe dire retoricamente. Non ha nulla di sacro. E’ una istituzione che raccoglie – concentra – dei minus habentes, e non è escluso che concentrarli per controllarli sia il suo scopo principale.
E’ un messaggio rivolto a tutti, ma forse c’è un terzo messaggio rivolto ad alcuni. Può essere una coincidenza, ma in molte delle scuole, anzi delle classi perquisite c’erano studenti appartenenti ai collettivi studenteschi. Se non è solo una coincidenza, allora il terzo messaggio è questo: vi controlliamo tutti, ma in particolare teniamo d’occhio voi che fate politica, voi dei collettivi, voi che vi definite comunisti o anarchici; rientrate nei ranghi, che è meglio per voi. E lei, professore, torni pure a parlare di Martin Heidegger. Non è successo niente”.
Antonio Vigilante, insegnante di filosofia e scienze umane al Liceo “Piccolomini” Siena

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La scuola

Quando cominciai il mio insegnamento in una scuola media nel 1968, la preside mi chiese se conoscevo la Riforma della nuova scuola media del dicembre 1962, in cui si parlava di una scuola “obbligatoria, gratuita e non selettiva”.
Avevo già incontrato il movimento non autoritario degli insegnanti e non dovette insistere perché mettessi in pratica quei principi che ritenevo e ritengo tuttora giusti.
Condivido l’articolo di Franco Lorenzoni e suggerisco la rilettura del libro “L’erba voglio” Einaudi 1971, che contiene utilissime attualissime riflessioni di alunni e insegnanti su “Voti, bocciature e potere”.

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‘Non sanno’

“Ma poi sorge un altro dubbio, che da sempre mi accompagna, e che non troverà mai una risposta. Si può davvero insegnare a scrivere a scuola? Oppure si tratta di un’abilità che si apprende anche a scuola (all’inizio soprattutto, in minima parte nelle scuole superiori), ma che poi fondamentalmente si riesce ad acquisire perché si cresce in un certo contesto, perché magari in casa circolano anche dei libri e vengono pure letti e rimane addosso quel qualcosa da dire che prima o poi comparirà e permetterà di esprimersi con efficacia?”
(Andrea Giardina)
“Non serve aver letto Freud e il suo famoso saggio sulla negazione (Verneinung) per capire che invece è proprio così, la scuola; che a questo serve: ammortizzatore sociale.
Anch’io ne usufruisco con gratitudine da venticinque anni. Lo so che a molti potrebbe non interessare, ma dovrò pur mangiare, poco e parcamente, anch’io. Che diavolo potrei fare senza la cara, buona, vecchia scuola? Come sbarcherebbero il lunario tanti laureati e/o dottori di ricerca in Italia? E sono i più fortunati quelli che, in quella spietata lotteria ch’è la ricerca d’un lavoro in Italia, finiscono nella scuola.
Naturalmente non è affatto escluso che, a scuola, ci siano pure ottimi insegnanti che insegnano e eccellenti studenti che studiano, ossia persone che onorano il verbo di cui il loro nome è participio presente.” (Alessandro Banda)

Articolo pubblicato il 7.II.2017 su Doppiozero.com, per leggerlo clicca qui

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‘Gli errori e i magnifici seicento’, di Rosaria Gasparro

E per restare sul tema scuola un buon articolo di Rosaria Gasparro, maestra.
“E’ evidente che per i cattedratici i limiti riguardano il declino della nostra lingua ad opera degli studenti e degli insegnanti che li hanno formati, con particolare colpa del primo ciclo dell’istruzione. I magnifici non vedono quanto quei limiti riguardino anche loro. Wittgenstein scriveva in merito che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.
“I limiti di un mondo che non s’interroga sulle proprie responsabilità, che non ha mosso un dito per impedire le politiche di distruzione della scuola pubblica, che non ha protestato per la riduzione in ogni ordine di scuola delle ore d’insegnamento della lingua italiana, che non si pone domande sulle nuove povertà, sui cambiamenti sociali, sulla domanda di inclusione dei soggetti deboli, sull’arretramento culturale e di civiltà che coinvolge tutti, che porta tre italiani su cinque a non leggere nemmeno un libro in un anno, a collocarci ai primi posti nel mondo per analfabetismo funzionale.”

Articolo pubblicato il 7.II.2017 su Comune-info.net, per leggerlo clicca qui

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Maestre e maestri

Il “corpo insegnanti” è ancora nella stragrande maggioranza femminile. Perché se ne discute così poco?
Una riflessione di alcuni anni fa:
“Posta nel punto più delicato di snodo, tra famiglia e società -la scuola-, la donna ha finito per essere il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, ma anche, purtroppo, dell’illusione che ha portato le donne a impugnare la loro sottomissione come potere di indispensabilità all’altro, madri in ogni caso, anche quando non hanno figli. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo inermi, dipendenti, ‘bambini’ anche se adulti, nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e di cui pensano dipenda la loro sopravvivenza? Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dall’infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.”

(Per chi ha la pazienza di leggere, ecco la versione intera)

Acrobate
Ho un ricordo vago della maestra della prima e seconda elementare, mentre ho davanti agli occhi, nitida come allora, la figura, il modo di muoversi, di sorridere, di parlare, del maestro che mi ha accompagnata nei tre anni successivi, e senza il cui interessamento non avrei potuto, date le condizioni molto povere della mia famiglia, presentarmi all’esame di ammissione alla prima media.
L’ho visto invecchiare, quasi senza mutamento, le volte che sono tornata al paese e ho avuto l’impressione che anche per lui fossi rimasta l’allieva ‘meritevole’ che aveva conosciuto.
Di quei primi anni di scuola non saprei raccontare molto, ma so per certo che hanno segnato in modo durevole la mia vita, a cominciare dal desiderio -imperioso quasi quanto una ‘vocazione’- di diventare a mia volta ‘maestra’, dalla rapidità con cui ho imparato l’italiano, pur restando fedelmente legata al dialetto, fino all’amore particolare per la scrittura, rimasta, per tutto il percorso successivo, tramite di conoscenza e affetti con gli adulti incontrati nella scuola.
Posso pensare che l’essere femmina, figlia di contadini con un livello bassissimo di istruzione, costretta a cercare nei propri pensieri un riparo da corpi ingombranti, esasperati dalla fatica e dai violenti litigi di tre nuclei famigliari, mi abbia spinto a cercare nella scuola un’ancora di salvezza. Ma non c’è dubbio che, in quella prima sostituzione di figure genitoriali, prendono forma per ogni bambino scelte e comportamenti futuri, incorporazione di modelli, di paure e di certezze, destinate a prolungarsi come un’ombra, di cui si è dimenticata la provenienza, e quindi il modo per liberarsene.
Mi chiedo oggi che cosa abbia significato quella rara presenza maschile nel luogo che tutt’ora sembra destinato, come per naturale continuazione del ruolo biologico della madre, quasi esclusivamente a donne. La riserva, per non dire la spontanea riluttanza, che ho sempre avuto, a confondere o anche soltanto ad accostare madre e maestra, mi fa dire che vengono da lontano i ragionamenti più o meno dotti, politicamente meditati, con cui ho discusso in più occasioni pubbliche su questi temi. Quando una parte del femminismo, dopo anni in cui si era scavato nelle storie personali, per capire quale violenza manifesta o psicologica avesse potuto chiudere l’esistenza femminile dentro la funzione materna, ha riportato in auge l’ “ordine simbolico della madre”, la superiore ‘competenza’ relazionale femminile, ho pensato che la visione del mondo dettata dall’uomo aveva ancora una volta trionfato su un percorso di autonomia appena agli inizi.
Tra le immagini che l’uomo, protagonista unico della storia, ha attribuito al femminile, quella di madre-maestra è senza dubbio, accanto a quella di oggetto erotico, iniziatrice sessuale, la più difficile da smascherare,per la copertura di falsa ‘naturalità’ che si porta dietro, ma anche per l’ambiguo segno che la contraddistingue: esaltata immaginativamente e storicamente insignificante, come ha scritto Virginia Woolf.
Se la divisione sessuale del lavoro ha ristretto il tempo e lo spazio delle donne alla cura di figli, mariti, fratelli, anziani, malati, occupazioni domestiche, l’attribuzione della fase iniziale del processo educativo a una figura femminile ha creato un ibrido, non meno limitante per la vita propria e altrui. Identificata, in quanto donna, col corpo, la natura, la casa, gli affetti, la maestra è, paradossalmente, anche il tramite di quello stesso sapere che ha continuato per secoli a definirla come tale, esclusa dalla sfera pubblica, dalla possibilità di sviluppare la sua intelligenza, le sue capacità creative, il suo potere decisionale. Posta nel punto più delicato di snodo, tra famiglia e società, ha finito per essere il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, ma anche, purtroppo, dell’illusione che ha portato le donne a impugnare la loro sottomissione come potere di indispensabilità all’altro, madri in ogni caso, anche quando non hanno figli. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo inermi, dipendenti, ‘bambini’ anche se adulti, nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e di cui pensano dipenda la loro sopravvivenza?
Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dalla prima infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio, che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.

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”Genere” sarai tu!

Oggi si parla molto di “educazione di genere”, ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di “genere”, appartenenza a un gruppo pensato come omogeneo, un tutto coeso- è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile. Siamo sicuri che nell’immaginario dei bambini ( e forse anche di tanti insegnanti) non sia ancora presente inconsciamente l’idea che l’ “individualità” è un requisito solo maschile?

Prendiamo, per esempio, il libro di David Gilmore, La genesi del maschile (La Nuova Italia, Firenze 1993) che, volendo riportare la problematica dei “generi” sul versante dell’esperienza dell’uomo, ribadisce di fatto, senza registrare alcuna contraddizione, le immagini più tradizionali di virilità e femminilità. Il processo di “separazione-individuazione”, rispetto all’originaria “fusione” con la madre, per Gilmore riguarda solo l’uomo. Se alla femmina basta rafforzare l’identificazione con la figura della madre, assecondando un destino già inscritto nella sua condizione biologica, il maschio deve invece sopportare un “allontanamento dalle consolazioni della vita privata”, dal suo “infantile bozzolo di piacere e sicurezza”, per un ruolo sociale culturalmente imposto, che comporta fatica e rischi. I “riti di passaggio”, che Gilmore rintraccia come processo comune a popoli, culture tradizionali di varie parti del mondo, per il costituirsi dell’identità virile, celebrano simbolicamente la morte e la rinascita di una individualità maschile ancora incerta tra la nostalgia della prima dimora e la sua necessaria collocazione nella comunità degli uomini. Ma se guardiamo bene, quello che si delinea è il capovolgimento della situazione d’origine: l’uomo da “destinatario” si trasforma in “donatore dei mezzi di sussistenza”, “protettore, creatore, sostentatore”. Fare guerre, accumulare beni, sfidare pericoli diventa il modo con cui egli assume su di sé la funzione che era prima della madre: garantire vita e protezione “a coloro che si amano”. La virilità viene a costituire “una forma di procreazione maschile”. Si rivendica quindi per l’uomo tutto ciò che è stato prerogativa femminile: la potenza generativa, l’altruismo, il sacrificio di sé, la disponibilità a nutrire.
In questo capovolgimento delle parti, che parla ancora il linguaggio dell’amore, e che tutt’al più si appoggia alla necessità biologica (la gravidanza, la minore forza fisica delle donne) e ambientale (difesa dalla natura e dalle aggressioni nemiche), quello che viene occultato è il dominio storico di un sesso sull’altro, la sottomissione violenta del corpo da cui si nasce, svuotato per un verso di capacità propria, reso insignificante dal punto di vista sociale, per l’altro mitizzato e sacralizzato, in quanto ritenuto depositario di una beatitudine iniziale a cui si vorrebbe fare ritorno.”

Non diversa è la posizione di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e “competenze” di “genere”, sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della “mobilità” e della “staticità”, che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come “reminiscenze”, “modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali”. Se il “fare sociale”, che è dell’uomo, comporta “l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista”, quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al “desiderio di essere bella e di piacere”, ma soprattutto alla “capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio”, capacità che fa della donne una “compagna comprensiva ed una madre sicura di sé”.

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