Le donne ‘schiave’ della loro forza?

“Il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
(Sibilla Aleramo)
A sottrarre la cura alla naturalizzazione che ne aveva fatto per secoli un destino femminile, confuso con l’attitudine materna e con l’amore, era già stata negli anni ’70 Lotta Femminista: un lavoro gratuito che di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale, svolto –come scrive Antonella Picchio– fuori dalle negoziazioni dirette con le imprese e per lo più tacitato e invisibile nelle negoziazioni con lo Stato”. Ma a distanza di tempo forse è possibile fare un passo ulteriore, abbandonare l’idea che la cura sia soltanto una questione da risolvere con un buon welfare o la monetizzazione dello Stato, e mettere invece al centro quel “resto”, quello “scarto”, che la socializzazione totale, i servizi organizzati e pagati non riescono a cancellare.
E’ su questa eccedenza che il significato della cura può assumere un’estensione inaspettata, diventare un “paradigma di interesse generale”, così da far apparire definitivamente superata l’idea di conciliazione come problema delle donne e l’idea delle donne come categoria del lavoro. Se non è più subalternità, dedizione, costrizione, ma neppure ruolo materno e salvifico delle donne, se è restituzione di senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità collettiva di entrambi i sessi, ma anche benessere, buona vita, “passione dell’uomo” nel senso marxiano, allora effettivamente la posta è più alta e si può ambire a proporre una soluzione all’altezza dei tempi e dei problemi di oggi.
Punto di avvio non può essere che la crisi di quel “monumento del lavoro”, dottrinario, istituzionale, e tutto di stampo maschile, che si è stabilito nel secolo scorso e che ha fatto del lavoro un oggetto da regolamentare in funzione degli interessi dell’impresa e del capitale. La rivoluzione possibile viene dunque immaginata come un capovolgimento di quello che è stata finora la gerarchia tra fini e mezzi: il lavoro guardato a partire dalla vita, un’economia dove l’obiettivo non sia lo sviluppo della ricchezza ma lo sviluppo umano.
Le donne possono oggi dire un “doppio sì” alla carriera e alla famiglia, a patto che non gravino su di loro le ore e ore di lavoro materiale che si rendono necessarie quando ci si deve occupare dei corpi di bambini e anziani, dei luoghi dove questi corpi stanno o devono stare. In altre parole, quando, come osserva qualcuna, curare l’altro è dimenticarsi di sé, sopportare un lavoro massacrante e spesso disgustoso. Il coinvolgimento emotivo può essere più o meno forte, ma non è mai del tutto assente, neppure quando la cura è affidata a persone pagate per questo, come le donne straniere che la globalizzazione ha spinto nel mercato della cura.
Ma anche nel caso che questa secolare funzione femminile non sia delegata ad altri, basta ascoltare le esperienze di ogni singola donna -come ha fatto per anni il gruppo scrittura della Libera Università- per rendersi conto che altrettanto difficile è separare costrizione e scelta, piacere e potere. Non c’è dubbio che venire incontro al bisogno dell’altro è anche un modo per esercitare un controllo, rendersi indispensabili, creare dipendenza al di là del necessario.
“Il mio potere -scriveva già Sibilla Aleramo- era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio conto perdessi ogni miraggio”
. Quante donne sono ancora schiave della loro forza? Quanto è ancora legata la funzione materna alla loro identità, al bisogno di contare e dare un senso alla propria vita? Quante sono disposte a riconoscere che il sacrificio di sé per il bene di un figlio può pesare su di lui come un macigno, un debito inestinguibile?
Sono domande a cui è ancora la pratica ereditata dalla stagione più radicale del femminismo, che può far fronte: dare parola alla soggettività, ascoltare dal racconto delle stesse lavoratrici la storia delle loro aziende -cosa si produce, come si produce-, e dall’esperienza di una giudice del lavoro che cosa è oggi la precarietà per i giovani, fatta di contratti a termine, di attese angosciose di proroghe e contenziosi giudiziari. Una volta saltati i confini tra produzione e riproduzione, caduti gli steccati della differenziazione astratta che ha contrapposto il corpo e la polis, il vissuto del singolo e i saperi “oggettivi”, la strada che si apre è quella della ricerca di nessi che ci sono sempre stati, ma che oggi forse è possibile portare alla coscienza e orientare verso nuove soluzioni.

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Affascinate dalla politica ‘neutra’

Perché nella maternità adoriamo il sacrificio?” -si chiedeva nel romanzo Una donna Sibilla Aleramo. A distanza di oltre un secolo, osservando come si muovono le donne nelle istituzioni della sfera pubblica, la domanda potrebbe essere così riformulata: “Perché ci conformiamo con tanta facilità alla politica ‘neutra’?”. E’ così difficile uscire dall’oscillazione tra le figure opposte e complementari del ‘femminile’ e del ‘maschile’, per muoversi “su un altro piano” (Lonzi), che non sia quello dei modelli imposti di cui finalmente si comincia a vedere l’astrattezza e la violenza?
Evidentemente sì, se teniamo conto che donne, anche con esperienza femminista, quando sono all’interno di partiti, movimenti, amministrazioni, parlamenti, sindacati, giornali, dibattiti televisivi, ecc., parlano una lingua che non porta alcuna traccia delle consapevolezze acquisite. La ‘doppia militanza’ – come veniva chiamata negli anni ’70- al confronto appare come un esempio raro di coerenza e di combattività.
Il ‘neutro’, in quanto pensiero e linguaggio astratto dai corpi, dalla loro appartenenza all’uno o all’altro sesso e ai rapporti di potere che ne hanno segnato la storia, non c’è da meravigliarsi se affascina anche le donne. Identificate con la sessualità, la maternità, con la materia priva di un Io, di una personalità, l’unico modello di individuazione – o, se si preferisce, di emancipazione- è rimasto fino ad ora quello maschile, con la sua pretesa di universalità e trascendenza rispetto al reale.
Eppure oggi le condizioni per smascherare il potere culturale e politico maschile, che si cela dietro il ‘neutro’ non mancano. Penso ad esempio al dibattito che si è aperto in Francia, ma anche in Italia, sull’introduzione nella scuola di una riflessione critica sulle figure di genere, sulla famiglia e sui cambiamenti che l’attraversano. Penso al ritorno, prevedibile come sono le fantasie ossessive, della campagna antiaborto (in Spagna, ma in forme diverse anche nel nostro paese per l’aumento degli obiettori di coscienza); penso al limite di sopportabilità a cui è arrivato il doppio lavoro delle donne, in casa e fuori; penso a quanto sta cambiando nel quotidiano la relazione tra i sessi e alle esplosioni preoccupanti di sessismo di fronte a scelte femminili di libertà.
Ma anche restando all’economia, considerata da tutti una ‘priorità’, come si può non tenere conto di quanto pesi sulla logica dominante del mercato, del profitto, della produzione illimitata di merci, dell’esaurimento delle risorse naturali, sullo sfruttamento della forza lavoro, ecc., la divisione dei ruoli sessuali, che ha permesso finora alla sfera pubblica di pensarsi svincolata dalla conservazione della vita, dai problemi di dipendenza e cura degli esseri umani?
Perché allora non prendere coraggio e pretendere come condizione per una candidatura o per il sostegno a un movimento, a un partito, che sia messa a tema del programma politico la critica al dominio maschile e alle sue ricadute nel privato e nel pubblico, nella cultura, nell’educazione, così come nelle relazioni intime?
Le figure di genere strutturano i rapporti di potere, ma come dice Pierre Bourdieu nel suo libro, Il dominio maschile, vivono anche “nell’oscurità dei corpi”. Perché Pierre Bourdieu, alla sinistra ‘radicale’ piace solo quando critica il neoliberismo?

Gli amori degli uomini e delle donne

Un augurio per il Nuovo Anno

“C’è nell’amore una terribile necessità” (Agnese Seranis).
Quando gli uomini riusciranno a svelare, come ha fatto Sibilla Aleramo, per sé e per le donne che sono venute dopo, quale “terribile necessità” si cela nel loro modo di amare , avremo sicuramente un’umanità migliore, meno sofferenza nelle relazioni amorose per entrambi i sessi.

SIBILLA ALERAMO .Frammenti di lucida intuizione
o piuttosto: una ‘lectio magistralis’ sul sogno d’amore come la suprema, perché la più invisibile delle violenze simboliche.

“Indicibile metamorfosi dell’amore in tenerezza, passaggio incalcolato dalla libertà alla schiavitù, volere in ombra, ticchettio dell’orologio, ticchettio uguale dell’orologio.”

“Come era così passato dalla sua cupa negazione umana a tanta ferma fede? Non per la bellezza dell’anima mia, ch’egli non la sentiva, come sentiva invece ogni sera ed ogni mattina il mio corpo, ché gli era, questo sì davvero, simile al pezzo di terra che ci sostenta…”

“Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria. 1908”.

“Nessuna di quelle che voi ritenete leggi morali è stata scoperta, creata dalla donna.”

“Senso interiore di disprezzo per se stessi e di considerazione esagerata per gli oppressori, amore e odio insieme.”

“Il bisogno di esaltazione e d’adorazione dell’uomo amato, e la gelosia e il terrore folle che quest’uomo così innalzatosi la trascuri.”

“Ma ecco, questo me, col suo istinto d’amore, di bellezza, di armonia, è infinitamente tirannico, ed esige, per sé solo, i più folli sforzi (…) Io sono la schiava del mio istinto di grandezza.”

“Era necessario ch’io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi, come tu mi hai scritto, a costruire su sabbie mobili: cercavo unicamente me stessa.”

“Ero schiava della mia forza: della mia creatrice immaginazione ormai (…) Il mio potere era questo: far trovare buona la vita (..) La mia forza era di conservare tal potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché. Senza soggetto quasi.”

“Non hai bisogno della mia anima…gli dicevo guardandolo dormire…e perché dovresti accorgerti che soffre? Hai la tua da alimentare, da conservare, da difendere. Ci credi uno e siamo due. Sei tu al centro del mondo, tu con la tua visione ormai immobile nella casa ben salda della tua mente. Ti mancava solo questo, povero bimbo grande, l’equilibrio organico,e con me l’hai ottenuto (…) Tale è il tuo amore, senza struggente sete di dedizione, senza voluttà di sconfinamento. Non sai la vertigine di me che son pronta a sparire se tu lo voglia, se debbo farlo, se lo esige la tua missione, il tuo maggior bene. Questo annegare lucido del mio essere…”

“E se tu fossi una creazione del mio desiderio? (…) Scrivo d’essi, vedi, come fossero invenzioni della fantasia. Personaggi irreali, foggiati, come la bambola di Villiers de l’Isle Adam, dalla mia scienza e dal mio gusto, per me sola (…) E invero c’è un elemento misterioso negli incontri da me fatti, non so qual mia collaborazione alla sorte.”

“Perché domandavo follemente a lui tutto l’amore che mancava alla mia vita?”

“Sforzo di ricerca di se stesse, lungi da tutto ciò che esse hanno amato e in cui hanno creduto: tragicamente autonome.”

“La donna non è mai stata una vera e propria individualità: o si è adattata a piacere all’uomo, non solo fisicamente ma anche moralmente, senza ascoltare i comandi del suo organismo e della sua psiche; o gli si è ribellata copiandolo, allontanandosi ancor di più dalla conquista suo io.”

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Adolescente è il mondo (Aleramo)

L’onnipotenza dell’organizzazione sociale cresce sull’impotenza del singolo,
ogni forma di dominio su una consegna di schiavitù.
Così il bambino riaccende ogni volta le sue paure per potersi affidare a una madre,
e quando sente muoversi la libertà nelle sue gambe e nelle sue mani,
trema ancora di più e si finge bisognoso del calore ch sta per perdere.
Non ancora capace di far sentire la propria voce, l’ “l’infante” del mondo
Cammina per sentieri che altri hanno preparato per lui, ugualmente ignari
e inconsapevoli del traguardo ultimo di quella fatica.
Sulla gran via polverosa della civiltà cammina un uomo a cui una madre,
non si sa se premurosa o timorosa di perderlo,
ha dato piedi da bambino, perché nello smarrimento continuasse a cercare
braccia rassicuranti.
Se anche le sue opere lo hanno visto farsi grande e sovrastare il corpo
che lo ha partorito, il riposo e il compenso di tanto lavoro
conservano la dolcezza che hanno i giochi dell’infanzia.
Una tranquilla e serena minore età fa da velo alla storia di una specie
che non conosce ancora né nascita né morte,
e che se anche tiene fermo lo sguardo sopra il mondo, non può vederlo
perché ha occhi ciechi.
(da L.M., “Come nasce il sogno d’amore”, Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002)

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Emancipazione e/o liberazione: il dilemma che attraversa il femminismo è sempre quello da oltre un secolo.

Sibilla Aleramo, coscienza femminile anticipatrice, ha visto lontano: la fretta, l’incapacità di sostare a lungo e interrogarci sulla storia che è passata su di noi e dentro di noi, ci avrebbe portato a essere un “inutile duplicato dell’uomo”.
Guardando all’oggi, non si può dire che avesse tutti torti.

“Non è nella gara materiale con l’uomo che deve consistere il progresso delle donna: o almeno non è soltanto in ciò. Essa può provare, e lo prova, di saper resistere come l’uomo alle fatiche manuali e intellettuali, ed è operaia, maestra, professionista, artista, quasi sempre oltre che moglie e madre. Ch’ella chieda un uguale compenso e un uguale rispetto è logico e giusto, com’è naturale che pretenda gli stessi diritti civili e politici. Ma tutto questo avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna: è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica, nata dalla rivoluzione: non è un fenomeno morale, un moto di spiriti..” (Sibilla Aleramo, La donna e il femminismo, Editori Riuniti 1978)

“Finora l’uomo ha creato, la donna no… La donna s’è accontentata di questa rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile. E di tutto ciò che parallelamente intuiva, nulla, o quasi, ha mai detto agli altri, perché, purtroppo, nulla o quasi ha mai detto a se stessa… La donna da un secolo in qua ha vagamente sentito che poteva muoversi con più agio, ma non ha sentito che poteva anche sostare prima alquanto, e interrogarsi. Così, invece che accordare alla vita e all’arte la sua autentica anima, è entrata nell’azione come un misero inutile duplicato dell’uomo.”
(S.Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942)

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Su Sibilla Aleramo, nell’anniversario di nascita

Riprese
Dedicato a Sibilla Aleramo -140 anni ieri dalla nascita (14 agosto 1976)-, consapevole di rappresentare “qualcosa di raro nella storia del sentimento umano”.
A lei devo molto delle mie scritture sul “sogno d’amore”.
Per una rieducazione sentimentale
Se è vero -come dice Freud- che“un amore felice vero e proprio corrisponde all’originaria situazione in cui non è possibile distinguere tra libido d’oggetto e libido dell’Io”, che la coppia trova la sua stabilità “ quando la moglie ha fatto del marito il proprio figlio”, si potrebbe dire che per questo prolungamento dell’infanzia l’uomo non è mai andato “oltre le frontiere del narcisismo”.
Separandosi, la donna non colpirebbe perciò solo un privilegio e un potere indiscutibile della maschilità, ma l’ “amore di sé”, la fonte prima, rimasta tale anche nell’età adulta, dell’ “autoconservazione”. Il fatto che chi uccide spesso riservi a sé la medesima sorte sembra esserne la conferma.
Se l’uomo fosse il dominatore, il vincitore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di uccidere.
Dobbiamo riconoscere che dietro il dominio del padre c’è la nostalgia del figlio. Forse è questa tenerezza che le donne continuano a spiare dietro la violenza dell’uomo. Verrebbe da dire che, per capire la violenza che passa nella relazione tra i sessi, bisogna interrogare a fondo l’amore, tenendo conto che le figure di genere strutturano, al medesimo tempo, gerarchie di potere e illusioni amorose. La possessività parla una lingua diversa nella bocca dell’uomo-padrone e dell’innamorato.
Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché è negli interni della case che tornano a confondersi la nostalgia dell’uomo-figlio, il potere di indispensabilità della donna-madre e i residui di un dominio patriarcale in declino.
L’interezza l’uomo l’ha ottenuta dividendo il suo compito civile dagli interessi della famiglia, garantendosi l’accesso al corpo femminile sia come soddisfacimento erotico che come cura, sostegno morale.
Le donne, costrette ad abbandonare il rapporto con la madre, hanno cercato inutilmente di trovare la ricomposizione – bisogno di essere nutrite e di essere amate- nell’uomo; si può pensare che abbiano rinunciato per questo alla loro sessualità, sopportato di ricevere -in cambio di amore, cure, piacere- mantenimento, denaro, doni. Non un vero scambio, perciò, e tanto meno reciprocità.
Ha ragione dunque Pierre Bourdieu quando si chiede, nell’ultimo capitolo del suo libro, Il dominio maschile, se l’amore è “l’isola incantata”, in cui si ferma la “guerra tra i sessi” -“smarrirsi l’una nell’altro senza perdersi”, il miracolo della reciprocità, creatori/creatrici e creature-, oppure “la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile, della violenza simbolica” .
Del resto, se si leggono attentamente i teorici dell’amore romantico – Bachofen, Michelet, Mantegazza, ecc.- non è difficile accorgersi che, dietro il capovolgimento continuo delle parti – a volte è la donna-madre che sembra accogliere in sé l’uomo-figlio, altre è l’uomo che, dalla sua posizione di privilegio, si pone come figura protettiva, materna, rispetto alla donna , piccola figlia debole affidata alle sue cure- passano in realtà il potere e la centralità dell’uomo. In un rapido passaggio, da figlia la donna gli diventa moglie e madre, fonte di sussistenza e di sostegno morale. La metamorfosi è completa quando l’uomo può “rigenerarla”, fino a farla “diventare lui”.
Il romanticismo ha riconosciuto alla donna un’ “anima”, ma un’anima che deve nutrirsi e vivere dei pensieri degli uomini, assecondare e prevenire il loro bisogni, compenetrarsi con l’amato fino a identificarsi o sparire in lui.
Il sogno d’amore è presente in tutta la cultura maschile, ma è stato visto come un tratto marcatamente femminile. La ragione può essere cercata nel segno che lascia l’essere stati tutt’uno col corpo della madre, ma anche il bisogno d’amore , la pretesa di infanzia, che la donna è costretta a colmare attraverso l’uomo.
Sacerdotessa dell’amore puro, dell’ “amore fusione”, “estasi”, “cosa sacra”, Sibilla Aleramo è anche la coscienza femminile anticipatrice che, all’inizio del ‘900, riesce a dissacrarlo, a vederne l’invisibile violenza, in quanto “atto sacrilego” dal punto di vista della individualità della donna, e a raggiungere lentamente “il fastidioso obbligo di vivere per sé.”
Nel quadro: Sibilla Aleramo in un disegno di Michele Cascella.

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Svelamento:L’androginismo e la creatività femminile. Virginia Woolf e Sibilla Aleramo

L’androginismo e la creatività femminile. Virginia Woolf e Sibilla Aleramo
Frammenti
Per quanto distanti, se si guardano le loro storie personali e intellettuali, Virginia Woolf e Sibilla Aleramo vengono a trovarsi inaspettatamente vicine quando si confrontano i termini con cui hanno inteso indicare quella specie di rigenerazione di sé che ha luogo nella creatività artistica, o nell’arte e nella vita insieme per la potenza miracolosa dell’amore (Aleramo).
La consapevolezza con cui entrambe indagano le condizioni di “insignificanza storica” delle donne, il rischio di una emancipazione che sia solo assimilazione all’uomo (al suo linguaggio, ai suoi modi) e, nel caso dell’Aleramo, la coscienza di una sottomissione ancora più profonda che fa coincidere il sacrificio di sé con la propria sopravvivenza, si arresta di fronte all’immagine -l’ “estasi per l’Aleramo, il “matrimonio dei contrari” per la Woolf.
Non dovrebbe essere difficile vedere che l’immagine della perfetta fusione degli opposti, così come ha preso forma nel mito e nella storia, è il sogno di una ritrovata integrità che va però a collocarsi sull’uomo: è la “madre nel figlio” (Nietzsche), il sole di Zarathustra che si “ingravida” perché ha sollevato a sé gli abissi.
Come in tutte le visioni profetiche e le attese di una sovrumanità, sono le viscere della terra e i mostri marini che vanno a ricongiungersi alle cime dei monti, non viceversa. Questa vicenda appare chiara in tutta la cultura dell’uomo e in alcune recenti analisi del mito classico e cristiano esplicitata in modo inconfondibile (Hillman). Le ragioni per cui ha ancora tanto fascino anche per parte del femminismo:
-l’androgino si profila come l’uscita da un dualismo che è fonte di insoddisfazione e sofferenza (natura/cultura, corpo/mente, ecc.), ma rappresenta anche l’uno, la “coidentità” d’origine, speranza di salvezza futura e insieme nostalgia di un paradiso perduto;
-l’ interezza è per la donna una necessità più forte che per l’uomo: dividendo i campi (infanzia/storia, famiglia/vita sociale) e imponendo ad essi la sua legge, l’uomo può garantirsi in qualche modo una continuità, sia pure precaria e insoddisfacente. La donna, confinata su un polo solo, è costretta a operare drammatiche sostituzioni:la creatività del pensiero al posto di quella biologica, l’impegno “virile” nel mondo contro un destino “femminile” di moglie e madre;
-la ricomposizione sembra non poter essere pensata altro che attraverso questa immagine duplice, una specie di divinità bifronte, e non come il naturale innestarsi (ad es. il corpo e il pensiero) in uno stesso essere, maschio o femmina. Con tutto ciò che porta con sé di assolutezza, perfezione, atemporalità, l’ideale androgino non può che essere fonte di sofferenza e causa di follia per la realtà concreta e limitata dell’individuo che attraverso di esso vorrebbe trascendersi.
A mantenere l’attaccamento a una identità illusoria contribuisce il modo contraddittorio con cui l’uomo si è rivolto da sempre alla donna. Scrive Virginia Woolf:
“Immaginativamente la sua importanza è estrema; ma praticamente, la sua insignificanza è totale. Ella pervade la poesia, da una copertina all’altra, invece dalla storia è quasi assente.” (2)
Nella “storia” di cui parla la Woolf riferendosi essenzialmente alle condizioni materiali di inferiorità delle donne, si può far rientrare anche la percezione svalutata che esse hanno del loro corpo: il corpo esaltato è solo quello che si può fantasticare come complemento dell’uomo, è il corpo che l’uomo -figlio, padre, amante, marito- ama perché indispensabile integrazione del suo essere.
Calata in un rapporto d’amore o nella poesia, l’immagine androgina diventa in ogni caso desiderio di “purificazione” da una materialità sofferente e fastidiosa.
(…)
Dopo il breve accenno al sogno d’amore -la Woolf è meno incline dell’Aleramo a lasciarsi incantare dalla bella “fola”- l’immagine androgina si trasferisce nell’esperienza artistica. Lo stato d’animo più propizio perché possa compiersi “l’atto della creazione” è quello che poggia sul “matrimonio dei contrari”. L’esito di questa “fusione” sembra che si possa riportare indifferentemente sull’uomo e sulla donna: è la creatura “integra” che esce come “terzo” dalla scomparsa dei sessi contrapposti. Ma non è un caso che venga a collocarsi nell’opera di un uomo, Shakespeare, e che il lungo oscuro sforzo che dovranno fare le donne perché rinasca Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare, approdi a un risultato analogo. (L’Aleramo dirà lo stesso di Ibsen, ma subito si accorge della contraddizione di aver proposto come modello per l’esperienza autonoma delle donne la scrittura di un uomo).
Anche la descrizione che la Woolf fa della mente nel suo pieno sviluppo creativo è modellata sull’esperienza maschile: quello che sparisce “consumato”, perché costituisce peso e ostacolo dentro un pensiero che si è fatto “incandescente e indiviso”, è il corpo, la vita emotiva, la sessualità, intesa come coscienza che pensa un sesso “separatamente” dall’altro.
Se questa frattura è problematica e faticosa per l’uomo, che trova comunque altrove luoghi per dare consolazione, accadimento e rassicurazione agli affetti, per la donna significa rinunciare alla sua pretesa di infanzia e all’unico luogo dove, per lungo confinamento, si è formata la sua sensibilità e la sua saggezza.
L’ “atto creativo” visto come “purificazione” comporta la perdita di un retroterra emotivo, fantastico, sessuale, che non si lascia ridurre. A parte le condizioni sociali e culturali di inferiorità che ne ostacolano il talento, la Woolf riconosce nelle donne “istinti contraddittori”, “ostili a questo stato d’animo”, che tuttavia considera fondamentale per potersi esprimere pienamente e liberamente.
(…)
Ciò che la Woolf non vede, e che l’Aleramo nella sua lunga vita viene svelando a tratti, è che per somigliare a se stesse occorre prima decantare l’immagine mitica di perfezione e integrità, e questo mutamento è difficile o impossibile finchè la zona muta, la parte inespressa dell’essere femminile, non trova altra rappresentazione che quella negativa, contrappositiva: oscurità contro chiarezza, materia informe contro forme di un’armonia assoluta. In uno dei frammenti inediti dell’Aleramo, datati intorno al 1904-1910, sono indicati i termini della contraddizione:
“La donna è combattuta tra il proprio oscuro istinto e l’ideale che l’uomo ha foggiato perch’ella lo accettasse senza esame.” (14)
Tra questi due poli oscilla tutta la vita e l’opera (tra loro inscindibili) dell’Aleramo, anche se con la coscienza di oggi possiamo vedere che questo istinto “oscuro” le ha dettato riflessioni di grande lucidità sul rapporto uomo-donna, e che il mito, l’immagine di un’ideale rappresentazione di sé, non è stato in lei così dominante come avrebbe voluto per la riuscita della sua arte, e come le sembrava fosse stato per la Woolf.
(…)
Se è così difficile staccarsi dall’immagine mitica di sé è perché l’ “estasi”, l’androgino inteso come “matrimonio dei contrari”, sta a copertura di una realtà difficile da sopportare: il “duplice limite” relativo a un ordine naturale , imprescindibile, qual è da un lato la diversità di un sesso rispetto all’altro (che vuol dire rinuncia all’indispensabilità, alla complementarità su cui sono costruiti i “generi”), dall’altro l’esistenza singola, circoscritta nel tempo (nascita, morte) e nello spazio (per cui cade l’illusione di potersi fondere con l’altro, o di essere l’altro).
(L.Melandri, “Scrittura e immagine di sé: la mente androgina in Virginia Woolf e il tema dell’estasi negli scritti di Sibilla Aleramo, in Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, a cura di Annarita Buttafuoco e Marina Zancan, Feltrinelli 1988.)

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L’immaginario della dualità

Virginia Woolf, Silvia Plath, Amelia Rosselli, Inge Muller…
Quanto è costata alle donne “la creatività di spirito invece che di carne”?
(Sibilla Aleramo)
“Ti dissi che tutto il poco che una donna riesce a realizzare nel campo della poesia è il risultato di una tensione infinitamente più tremenda della tensione virile; ti dissi quanto immolatrice sia colei che tenta creazioni di spirito invece che di sangue.”
(…)
“Questa mia sotterranea, seconda vita…Questa corrente tacita di pensieri e di sentimenti…è questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia, violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sè, ma lui è uomo, e non ne muore…”
(Paola Redaelli, “Tra Scilla e Cariddi”, in “Lapis” n.30, giugno 1996)
“Ma se lo scrittore è donna?Scoprirà, prima o poi, di sentirsi ombra, che quello di sentirsi ombra è uno dei suoi segreti. Dovrà scrutare in quest’ombra che può nascondere l’abisso, il vuoto oppure un magma, un crogiuolo di presenze spaventose e apparentemente inconoscibili. E scriverne.
(…)
Nell’ombra c’è dunque il corpo femminile, con tutte le connotazioni fantastiche e simboliche che questo nome e questo aggettivo portano su di sé. Queste connotazioni sono tali per cui noi spesso non sentiamo, non ci rappresentiamo il corpo femminile come nostro, ma come qualcosa che è in noi e costantemente ci minaccia di diventare noi stesse, tutta la nostra identità. Fuori dall’ombra c’è invece la parola scritta, quella che ci difende, perché ‘ci crea’, dalle fastidiose parole corpo femminile che per tradizione farebbero parte del novero di quelle che si possono anche soltanto dire.”
La poetessa americana Hilda Doolittle, nota come H.D., nelle sue Note sul pensiero e la visione , scrive:
“Dobbiamo ‘innamorarci ‘ prima di poter afferrare i misteri della visione […] Le menti dei due innamorati si compenetrano […] Il cervello, ispirato ed esaltato da questo interscambio di idee assume il carattere di super-mente… ”
La via d’accesso all'”estasi” o alla “visione” è anche qui il corpo, un corpo fecondato dall’unione d’amore, perché possa farsi luogo di una nascita spirituale che lo trascende e lo consuma.
“Il corpo appariva una forma di vita elementare, priva di bellezza e transitoria. Tuttavia ancora una volta mi avvidi di come il corpo avesse la sua funzione. L’ostrica produce la perla infatti. Così il corpo, con tutte le sue emozioni e paure e sofferenze consumate nel tempo produce lo spirito […]. Immagino, tuttavia, che il corpo, come un pezzo di carbone, adempia alla sua funzione più alta quando si consuma “.
Anche quando si tratta di realizzare “opere di anima” e non “di carne”, il riferimento obbligato sembra essere la maternità biologica, quel “pertinace naturalismo”, quella “aderenza alla vita” che Boccioni rimproverava all’Aleramo, e che l’uomo ha soltanto risolto altrimenti: separandosene, riducendola al silenzio a rigo immaginario su cui intonare la propria parola.
Ma per la donna, che con quella matrice è stata identificata, il processo creativo del pensiero rischia di trasformarsi in “pellegrinaggio mistico”: un corpo che “rappresenta”,mentre la agisce, la sua consunzione e la sua trasfigurazione.
Il dualismo in tutte le sue forme -a partire da quello che ha segnato il destino dell’uomo e della donna – è stato finora il fondamento di tutte le civiltà, inscritto nella vita sociale ma anche “nell’oscurità dei corpi”, come dice Pierre Bourdieu. Finché si resta dentro queste polarità complementari, è chiaro che si può solo tentare una ricomposizione, che, non a caso, avviene sempre sul popolo maschile. Tale è la “mente androgina”, come mente creativa, di cui parla Virginia Woolf. L’esempio che fa è, non a caso, è quello di Shakespeare. Per ritrovare mente e corpo nel loro naturale essere inscindibile, occorre pertanto uscire dell’immaginario della dualità, che abbiamo ereditato e che ancora condizionata il nostro modo di pensare e di sentire.13418898_1777695312466389_2152427091482708103_n

Una lucida follia

Stralci di un percorso personale e politico
La centralità che ha avuto il tema dell’amore nel mio percorso intellettuale e politico all’interno del movimento delle donne -in modo abbastanza solitario- è dovuta, almeno in parte, a un tratto romantico, sentimentale, che viene da qualche zona remota della mia storia personale. Più precisamente, si tratta di una singolare commistione di sogno e lucidità di analisi che ho ritrovato in Sibilla Aleramo e che ho cercato di analizzare nel mio libro Come nasce il sogno d’amore .
Ma c’è anche la spinta, radicata anch’essa nel mio passato, a tenere fermo lo sguardo su quella zona ancora oscura ed enigmatica che è l’origine, la preistoria dell’individuo e della specie.
Partire dalla memoria del corpo –dai sedimenti profondi della vita psichica- per interrogare il rapporto tra i sessi, vuol dire riconoscere che il dominio maschile non nasce da una volontà malvagia dell’uomo, o da una sua ‘naturale’ pulsione di morte, ma da passaggi inconsapevoli di necessità che riguardano lo sviluppo della specie umana, il passaggio dalla natura alla cultura.
Per tornare al percorso autobiografico che sta dietro ogni teorizzazione, anche la più astratta, devo dire che la centralità che ho dato alle tematiche del corpo è strettamente legata alla mia origine: figlia femmina di famiglia contadina che ha avuto il singolare privilegio di poter studiare. Il dualismo corpo-pensiero, natura-cultura, femminile-maschile, era nella mia condizione di partenza, e ha reso particolarmente lento, difficile, contrastato, il processo di emancipazione tradizionalmente inteso. Ho sentito a lungo estranea la vita pubblica, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le sue istituzioni, mentre è stato molto forte il legame con la cultura e i linguaggi dell’uomo-figlio: filosofia, religione, arte.
Nel momento in cui avrei potuto “emanciparmi”, dopo la fuga dal paese d’origine e l’arrivo a Milano, ho incontrato, per mia felice sorte, il movimento non autoritario del ’68 nella scuola e il femminismo, che partivano proprio dal corpo, dalla vita personale, dalla sessualità, per mettere in discussione l’ordine esistente, la divisione tra pubblico e privato, la relazione tra i sessi.
Ho cominciato allora a rendermi conto che quello che nei miei studi liceali era rimasto il “fuori tema” –una materia di esperienza dolorosa e intraducibile nelle lingue colte- poteva, nella prospettiva di una profonda rivoluzione culturale, diventare “il tema”. Nello stesso tempo, cominciavo a riflettere sui nessi, i legami che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro del dualismo, sulle implicazioni inconsapevoli che la dualità, come costruzione maschile, aveva con l’interiorizzazione da parte delle donne di un’unica visione del mondo.
Ricerca di nessi voleva dire per me, da un lato continuare a scavare a fondo nel vissuto corporeo, psichico, intellettuale del singolo -autocoscienza, scrittura di esperienza-, dall’altro, partendo da questo sguardo e da questa lenta modificazione di sé , intesa come autonomia da pregiudizi, habitus mentali, schemi cognitivi incorporati, affrontare i saperi e i poteri della vita pubblica.
Ho cominciato a farlo dagli anni ’70, individualmente e collettivamente -dal gruppo “sessualità e scrittura”, ai corsi della donne, alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”-, ma in modo ancora libresco o filtrato dai saperi disciplinari che mi erano famigliari, come la letteratura, la filosofia, la psicanalisi.
Gli anni ’80 hanno rappresentato, per quanto mi riguarda, l’inizio di una riflessione e di una scrittura più specificamente legata ai temi dell’immaginario amoroso: rubriche di “posta del cuore”, “scrittura di esperienza”, analisi del “sogno d’amore”.
Nel momento in cui prevaleva nel femminismo l’orgoglio dell’appartenenza di sesso, la voglia di “vivere con agio”, l’affermazione della fine del patriarcato, occuparsi del sogno d’amore -dal libro che stavo scrivendo alle rubriche di posta del cuore su “Ragazza In” e su “Noi donne”- fu visto da alcune come un tornare sulla “miseria femminile”. Per me ha voluto dire invece riprendere e approfondire l’intuizione originale del femminismo: il dualismo sessuale, la consapevolezza che le figure di genere non hanno dato forma solo a rapporti e gerarchie di potere tra uomini e donne, ma, come conseguenza della complementarità, anche all’amore tra i sessi, al sogno di ricongiungimento di “nature”diverse, e all’ideale di interezza dell’individuo.
Finché il maschile e il femminile sono visti come poli complementari, come se fossero le due metà di un intero, c’è nell’amore una “terribile necessità”.
Come spiegare altrimenti un’interiorizzazione della visione maschile del mondo così duratura? Come spiegare una subalternità così evidente delle donne nella vita pubblica, l’emancipazione come assimilazione al neutro? La difficoltà è pensare l’interezza del proprio essere fuori dall’ideale androgino, di cui parla Virginia Woolf.
La complementarità è ingannevole, ma esercita ancora una grande attrazione: basta pensare al protagonismo che hanno preso le due grandi attrattive delle femminilità nelle sfera pubblica: la maternità e la seduzione. Il processo di autonomia dai modelli interiorizzati ha ancora molta strada da fare. Ma, soprattutto, interessa uomini e donne, interroga la femminilità come la maschilità.

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