Prima che sia troppo tardi

Viviamo tempi in cui cadono consolidate costruzioni di senso. Così, spiega Lea Melandri, è la natura ferita, sono le donne, i bambini, gli impoveriti a dire il dolore e la distruttività nascosti dietro la facciata di un mondo che si è creduto “civile”. Abbiamo bisogno, per dirla con Elvio Facchinelli, di una nuova e profonda “capacità di immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremmo madre di creature ferite”, abbiamo bisogno di “una caduta, simile alla pioggia che cade su terra scura a primavera…”

Articolo pubblicato il 23.XII.2017 su comune-info.net, clicca qui

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Facciamola finita col Cuore e la Politica

Repetita

Quando il cuore e la politica perderanno la maiuscola,
nessuno si meraviglierà se vede crescere giardini in mezzo ai casermoni urbani
e donne costruire palazzi
di città sconosciute.

“Se hanno dovuto faticosamente, tra mille inganni e ostacoli, “prendere coscienza” di un’oppressione, peraltro evidente, e sopportare che questa lucidità si rivelasse estremamente fragile, pronta a scomparire dopo ogni piccola conquista, gli uomini, ragionando su una rappresentazione del mondo prodotta dalla storia dei loro simili hanno evidentemente una via di accesso più facile alla messa a nudo del sessismo, delle logiche d’amore e di violenza che lo sostengono, nonostante i progressi della civiltà. Perché allora quella difesa estrema, sempre meno convinta eppure ostinata, della neutralità, che si esprime non solo nel cancellare dalle analisi politiche il rapporto tra i sessi, ma anche in quella copertura che è la sua distorta collocazione tra le questioni sociali: emarginazione, cittadinanza incompleta, sfruttamento economico, beni comuni, ecc.?”

 

“Per quanto riguarda gli uomini, viene invece il sospetto che “sappiano” e che sia proprio l’evidenza del privilegiotoccato loro storicamente e diventato “destino”, copione di comportamenti obbligati, a dover essere in qualche modo aggirata, perché colpevolizzante e quindi innominabile.

La comunità storica maschile ha visto cadere imperi, muraglie, confini, odi che sembravano irriducibili, eppure esita a far cadere le fragili pareti che separano la sua civiltà dalla porta di casa, l’immagine della sua “virilità” pubblica dalla posizione di figlio,fratello, padre, marito, amante.”

Articolo pubblicato su Comune-info.net il 25 ottobre 2015, ‘Il circolo degli uomini e i privilegi rimossi’

 

Un titolo ad effetto su D La Repubblica

Un titolo che fa torto anche all’ articolo, per certi versi più articolato e contraddittorio.
Soprattutto un titolo profondamente diseducativo rispetto alla convinzione, oggi più condivisa che in passato, che la violenza maschile contro le donne vada affrontata attraverso processi formativi ed educativi fin dall’infanzia, sapendo quanto siano precoci i pregiudizi sessisti e razzisti derivanti dalla cultura che abbiamo ereditato da secoli di dominio maschile.

Quando si parla di “capire”, il riferimento non sono solo le ragioni “sociali e psicologiche” ma il portato di una ideologia che è stata per secoli il fondamento della nostra come di altre civiltà, della cultura alta, così come del senso comune.

È dentro questa cultura, che ha visto un potere -quello maschile- innestarsi e confondersi con le vicende più intime (la maternità, la sessualità), che vanno collocati e “capiti” i comportamenti violenti dei singoli o dei gruppi, con tutto il loro carico di patologia, responsabilità e storia.

Come spiegare altrimenti che molti uomini, anche giovani, intervistati, stando a quanto si legge nell’articolo, rispondono di non riuscire a “fare un collegamento tra sesso non consensuale e stupro”, che uno studente su quattro risponde che ” è colpa del desiderio”?
Non sarebbe forse il caso di cominciare a chiedersi che cosa è stato ed è ancora purtroppo, nell’immaginario e nella cultura di tanti uomini ( ma anche donne) quello che chiamiamo “amore” “desiderio”, “consenso”, ecc.?

Smettiamola soprattutto di confondere in modo così semplicistico “capire” con “giustificare”.

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Repetita…

“E’ importante perciò che si dica che la violabilità del corpo femminile – la sua penetrabilità e uccidibilità – non appartiene all’ordine delle pulsioni “naturali”, ai raptus momentanei di follia, o alla arretratezza di costumi “barbari”, stranieri, ma che sta dentro la nostra storia, greca romana cristiana, a cui si torna oggi a fare riferimento per differenziarla dalla presenza in Europa di altre culture.”

Articolo pubblicato il 24 nov. 2015 su ‘L’Internazionale’, fonte

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Circa la violenza sulle donne

A chi fa della violenza contro le donne un problema di “sicurezza delle città” o invoca la “protezione” maschile, una maggiore “riservatezza” femminile, quanto ad abbigliamento, uscite serali ecc., un interessante contributo di Stefano Ciccone, più che mai attuale.

‘Oggi si è tenuta a Taormina una manifestazione promossa da uomini contro la violenza sulle donne. Un segno importante di un mutamento in corso. Ma la riflessione nel mondo maschile è ancora fragile e limitata e così, spesso, iniziative frutto della buona volontà rischiano di riproporre inconsapevolmente vecchi stereotipi. Questo il mio contributo all’iniziativa con un messaggio al promotore che ringrazio: Caro Alessandro Cardente, purtroppo non posso essere a Taormina in questa occasione importante. Voglio però inviarvi un saluto e un piccolo contributo frutto dell’esperienza di maschile plurale, una rete di uomini che da tanti anni, in tutta Italia si batte contro la violenza maschile e contro la cultura in cui questa violenza nasce.
Purtroppo la violenza degli uomini contro le donne ha radici profonde dentro di noi: nell’idea di amore come possesso, nell’incapacità di accettare e riconoscere la libertà a l’autonomia della nostra compagna, nel mescolare protezione e controllo, sostegno e affermazione del proprio potere.
Per questo nessuno può sentirsi estrano a questa chiamata in causa: la violenza chiede innanzitutto a ognuno di noi di riflettere sulle nostre complicità, sulle nostre pigrizie e sulle nostre ipocrisie.
Oltre a incoraggiare le donne a denunciare dobbiamo vedere quanti, in famiglia, al lavoro, tra amici, voltano la testa dall’altra parte lasciando sole le donne. D’altronde diciamo: Tra moglie e marito non mettere il dito”…
La vostra manifestazione fa un passo importante: mette al centro gli uomini e chiede agli uomini di prendere parola in prima persona e di impegnarsi contro la violenza.
Ma cosa possono fare gli uomini e come possono impegnarsi? Non è facile e vi invito, anche questa sera a riflettere su quanto, anche quando ci battiamo contro la violenza, rischiamo di riprodurre una cultura radicata che è alla base di questa violenza.
Possiamo porci come i difensori delle donne, quelli che le proteggono dagli altri uomini? Questa idea che torna anche nell’immagine che promuove questa importante iniziativa, ha dei rischi su cui dobbiamo riflettere: il primo è di rappresentare, di nuovo, le donne come soggetti deboli, bisognosi di protezione da parte di un uomo. E quante volte questa idea ha autorizzato un uomo ad affermare il proprio controllo e il proprio potere? Io porto i soldi a casa, io ti proteggo dagli altri uomini e quindi sono il capo famiglia, quello che comanda. La violenza nasce spesso dall’incapacità di riconoscere e accettare l’autonomia, la libertà e la forza delle donne. Non nascondiamola. La violenza nasce spesso chiamando il proprio desiderio di controllo come protezione: non diamo alibi alla violenza.
L’impegno necessario che chiediamo agli uomini, quello che dobbiamo assumere come uomini, non è, dunque, di difendere le donne, le nostre donne dagli altri uomini. No. Sappiamo tutti che la violenza è opera di fidanzati, mariti, ex. La violenza non viene da lontano: è nelle nostre famiglie e nelle nostre relazioni: non dobbiamo difenderci da una minaccia estranea ma dobbiamo cambiare le nostre relazioni, la nostra cultura. Dobbiamo cambiare noi uomini.
E non solo per sradicare la violenza ma per vivere più liberi, tutti, insieme, donne e uomini.’

A proposito della sequenza inarrestabile di stupri e femminicidi degli ultimi giorni…

A proposito della sequenza inarrestabile di stupri e femminicidi degli ultimi giorni, Dacia Maraini su La Stampa di oggi scrive: “Sono uomini apparentemente normali, bravi ragazzi, padri di famiglia, ma non reggono alla perdita del privilegio, del potere. Non reggono allo smacco, alla sconfitta. Non si uccide per amore, si uccide quando si perde qualcosa e non si sopporta di averla perduta.”

L’ amore c’entra invece, per tutte le ambiguità e contraddizioni che si porta dietro, così come c’entra una fragilità maschile che va interrogata alla luce della consapevolezza nuova che abbiamo oggi di un potere -dell’uomo sulla donna- innestato e confuso profondamente con le esperienze più intime, come la sessualità, la maternità, i legami famigliari. Come si spiega altrimenti il fatto che le donne, oggi più consapevoli e libere, ancora fanno fatica a riconoscere nell’uomo violento un pericolo, ancora sopportano a lungo maltrattamenti, ancora accettano di presentarsi a un appuntamento pur sentendone i rischi?
Possessivita’ e paura degli abbandoni nell’amore non sono solo dell’ “immaturità” maschile, ma di entrambi i sessi e di tutte le forme di amore, tra diversi e tra simili. Maschile è il potere con cui l’uomo ha fatto del suo primo oggetto d’amore -la donna madre- anche la garanzia della sua sopravvivenza materiale affettiva e psicologica, del matrimonio e della divisione sessuale del lavoro il prolungamento della sua infanzia, con ruoli rovesciati.

Il circolo degli uomini – ‘L’ultimo paradosso’ di Alberto Asor Rosa

In attesa che qualcosa cambi…qualche consapevolezza in più sulla comunità storica degli uomini.

IL CIRCOLO DEGLI UOMINI

Nel libro, “L’ultimo Paradosso” (Einaudi 1986), presentato come “un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”, ALBERTO ASOR ROSA scrive:

“Uomini. Sediamo da secoli in gruppo intorno ad una tavola -non importa se rotonda o quadrata- impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incutere timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti solamente perché c’è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo,
alla nostra dignità: al nostro essere-per-sé, custodito da un simulacro d’acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni: e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo di piacere e di dar piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione a uscire a respirare aria pura. Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo dei nostri compagni, attraverso la fessura della celata…e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia – non appena sguardo con sguardo di nuovo s’incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano-, e scopriamo che non potremo mai lasciarli…L’unico
passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo della maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno.”

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Obiezione – Milano

Al presidio partecipa Non Una di Meno- Milano
con un volantino in cui si dice, tra l’altro:
“…. Il 68,2% di medici è obiettore di coscienza e in 6 ospedali lombardi tutti i medici sono obiettori
• L’aborto farmacologico viene effettuato nel 5,1% dei casi e nel 52% delle strutture non viene neanche praticato. Inoltre, a differenza che in altre regioni, le donne vengono obbligate a tre giorni di ricovero ospedaliero (in Francia può essere fatto in consultorio seguite da un’ostetrica)
• nel 2016 sono stati spesi 153.414,00 euro per pagare a gettone il personale esterno che garantisce la possibilità di abortire negli ospedali con alti tassi di obiezione
• una legge regionale prevede l’obiezione di struttura nei consultori, rendendo difficile per le donne esercitare il loro diritto ad abortire.
Tutto questo si inserisce in un quadro in cui i consultori vengono depotenziati fino a tagliare i servizi per le donne in menopausa costringendole a rivolgersi agli ospedali, in cui l’educazione sessuale è praticamente inesistente o parziale e inefficace, in cui la prevenzione scompare in favore di una logica aziendale che poco ha a che vedere con la salute.
Per questo il 7 aprile dalle 11 alle 14 saremo in piazza sotto Regione Lombardia nella giornata europea in difesa del servizio sanitario pubblico, a ricordare che la salute sessuale non può essere slegata dal benessere, dal piacere e dalla libertà di scelta, che deve essere possibile sempre.
Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi.”

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Maschilità bifronte

Virilità ed effeminatezza: i due volti della comunità storica degli uomini.
Per “disfare il genere” è necessario indagarne l’origine, il fascino duraturo, l’ambigua collocazione tra potere e amore.
“L’omofobia è qualcosa di più del timore irrazionale dell’omosessualità, più della paura di essere considerati gay… trae origine dal timore che altri uomini possano smascherarci, mettere in discussione la nostra maschilità…scoprire che la separazione dalla madre non è ancora del tutto compiuta.” (Michael S.Kimmel, Maschilità e omofobia, in Tra i generi, Guerini 2002).
L’esclusione della donna dalla vita pubblica non ha impedito che vi restasse doppiamente implicata: per gli effetti del dominio che la comunità storica degli uomini si è arrogata sul suo corpo e per quelle tracce di “effeminatezza” che l’età virile eredita, suo malgrado, dalla parziale identificazione originaria di ogni figlio con la madre, e dalle cure che riceve da lei.
Nel momento in cui si definiscono la figure del maschile e del femminile, sulla base delle opposizioni note con cui sono arrivate fino a noi -materia/spirito, biologia/storia, debolezza /forza, ecc.- si può pensare che la donna sia già lontana, confinata nell’interno delle case, e che a interagire nei vincoli, nelle norme, nei linguaggi che gli uomini vanno costruendo tra loro, sia rimasta soltanto la sua ombra.
E’in questa posizione ambigua, di presenza e assenza, che la femminilità si carica di significati e valenze contraddittorie, diventando agli occhi dell’altro sesso perdizione e salvezza, mistero e verità, morte e rigenerazione.
Inscindibile dall’infanzia di ogni essere umano, su di essa finiscono per convergere quei tratti, amati e odiati, da cui il maschio ha creduto di poter prendere distanza: la tenerezza, ma anche l’umiliazione e la dipendenza, la garanzia della crescita e, al medesimo tempo, il rischio di rimanere per sempre bambino.
Le due donne che si presentano al bivio dove un Ercole adolescente è chiamato a decidere del suo futuro, benché messaggere di destini opposti – la mollezza dei piaceri del corpo e la virtù del cittadino guerriero-, sono in realtà una persona sola, divisa tra la possibilità di scomparire per lasciar vivere il frutto del suo sacrificio, o di restargli a fianco, tentazione permanente e ostacolo al suo impegno civile.
(…)
Carlo Michelstaedter, fanciullo profeta della lunga notte che ha tenuto gli umani in una infantile reciproca dipendenza, giungerà a “gridare” per la prima volta la sua voce di “uomo libero”, non a tutti gli uomini come avrebbe voluto, ma indirettamente, a una “commissione di professori”. Quasi del tutto assente dal suo unico libro, La persuasione e la retorica , tesi di laurea incentrata su un’idea di libertà “assoluta”, sciolta da legami e nostalgie di infanzia, l’ombra di figure femminili calde e protettive occupa invece interamente l’Epistolario, lettere spedite da lontano ai famigliari, nel disperato tentativo di cancellare distanze e separazioni.
Il dissidio mortale tra la tenerezza del figlio, che rimanda perennemente la sua “uscita alla vita”, e l’imperativo che chiama a una virilità forte, imperturbabile, si tradurrà, negli stessi anni, nella teorizzazione di più ampio respiro di Otto Weininger, improntata a toni opposti di profonda misoginia e di odio razzista nei confronti della donna, considerata nella sua “essenza” materia che genera e sessualità, vita inferiore alogica e amorale, che insidia l’uomo dall’interno, perché ne rappresenta la colpa e la caduta, mentre contamina, allo stesso modo, popoli “effeminati”, come gli ebrei e gli arabi.
Ad avvicinare Carlo Michelstaedter e Otto Weininger, l’autore di Sesso e carattere, pubblicato a Vienna nel 1903, è apparentemente solo il destino tragico di giovani suicidi e di pensatori estremi, indotti a esplorare zone di frontiera dell’esperienza umana dall’assolutizzazione di una frattura antica tra corpo e mente, femminile e maschile, abbandoni sensuali e perfezionamento dello spirito. Ma dovrebbe far pensare il fatto che due figure così drammatiche della maschilità, oltre che della cultura occidentale nelle sue radici classiche e cristiane, si vadano a collocare in quell’inizio di secolo, il ‘900, che già segnalava una presenza diversa, consapevole e combattiva, delle donne nella vita pubblica, come se il minaccioso corpo della madre, prima di eclissarsi dietro l’insegna di donne emancipate, volesse lanciare i suoi ultimi bagliori.
Quando riemerge sulla scena pubblica con tutta la sua carica di potenza carnale generatrice e di estasi erotica, attraverso gli scritti che negli anni ’30 esaltano la mistica della guerra, la femminilità è già parte integrante, assunta ora in modo esplicito, del rapporto tra uomini. L’omofobia, da potente dispositivo di paura e difesa rispetto a possibili cedimenti “femminili”, si rivela, per un altro verso, come la più efficace copertura della convivenza e dei compromessi che il maschile e femminile hanno trovato all’interno di una società di simili, in quanto volti opposti e complementari dello stesso sesso.

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FEMMINILIZZAZIONE, MATERNALIZZAZIONE DELLA SFERA PUBBLICA O TRIONFO DELLA FIGURA IBRIDA DELL’ANDROGINO?

Che la cura, sotto l’aspetto di accudimento materno e di lavoro domestico, fosse una specie di Giano Bifronte, posta al centro di un ambiguo, invisibile annodamento di servitù e onnipotenza, debolezza e forza, amore e dominio, corpo e legge, era già chiaro dalla definizione contenuta nell’ Emilio di Rousseau. Ma bisogna aspettare qualche secolo prima che ne venga data, da una coscienza femminile anticipatrice come Virginia Woolf, una versione più veritiera: non un destino legato alla contraddittoria “natura” della donna, oscillante tra l’animalità e il divino, ma il fondamento, il supporto indispensabile della civiltà dell’uomo, espressione del suo dominio ma anche della dipendenza dall’altro sesso, luogo dove si danno insieme, intrecciate e confuse, l’inermità e la nostalgia del figlio, la violenza e la legge del padre.
“Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra sarebbe ancora palude e giungla.”
Benché evidente, nel suo prolungarsi molto oltre i bisogni dell’infanzia, il legame della cura con la volontà dell’uomo di garantire alla sua avventura pubblica un retroterra sicuro per la sopravvivenza lasciava però aperto l’interrogativo sul perché le donne stesse ne avessero fatto, loro malgrado, una ragione di vita. Sarà il femminismo degli anni ’70 a portare l’analisi e l’istanza di cambiamento fino alle regioni più remote e inesplorate della vita psichica, e a scoprire quanto la visione maschile del mondo si fosse incorporata, oltre che nelle istituzioni della vita pubblica, nel sentire profondo di entrambi i sessi.
(…)
L’emancipazione, ai suoi inizi, sembra che non possa percorrere che la strada già segnata dal modello dominante: da un lato diritti “neutri”, e dall’altro ruoli “naturali”, compiti specifici di un sesso e dell’altro, che avevano solo bisogno di essere riscoperti nella loro armoniosa complementarità.
Dietro il dilemma “uguaglianza/differenza”, che porterà comunque le associazioni femminili tra ‘800 e ‘900 a gettare le basi dello stato sociale, si può dire che fa il suo ingresso nella polis il sogno d’amore, come ricongiungimento dei due rami divisi dell’umanità riportati alla coppia originaria madre-figlio. “Educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana” le donne, che come scrive Sibilla Aleramo “uniranno le loro voci alle più intemerate del paese”, riscoprono la “divina funzione domestica” come integrante forza creativa capace di risollevare uomini “un po’ tristi e un po’ smarriti” in un periodo di “transizione ansiosa”.
Solo l’impeto giovanilistico e rivoluzionario di una generazione che aveva creduto di poter abbattere in un sol colpo le barriere dello psichismo inconscio e di consolidati poteri economici e politici poteva far credere alle femministe degli anni ’70 di avere avviato una volta per sempre il processo di liberazione dall’identità femminile prodotta dall’uomo e la crescita, sia pure lenta, di un “io non conforme” ai modelli dati, una singolarità capace di ripensarsi in una dimensione collettiva , relazionale, fuori dall’idea di appartenenza a un “genere” coeso, valido per tutte le donne.
(…) Il dubbio che l’emancipazione rinasca sempre dai sedimenti più arcaici della dualità ereditata da secoli di cultura maschile trova oggi la sua conferma sia nella femminilizzazione dello spazio pubblico -come richiesta di “talenti femminili” da parte della nuova economia, dell’industria dello spettacolo, della pubblicità, del consumo, ma anche come precarietà diffusa, crisi della politica, ecc.- sia nel modo con cui vengono affrontate e discusse dalle donne stesse le questioni sempre più pressanti della “conciliazione” vita e lavoro.
(…)
Ma c’è un’altra possibile interpretazione, se si tiene conto di quello che è stato finora il fondamento di ogni “dialettica”, modellata sul dualismo sessuale: la tendenza alla riunificazione dei poli complementari, l’illusione di un armonioso ricongiungimento. Il ‘neutro’ non nasconde solo il volto di un padre o di un figlio, ma anche la figura ibrida dell’androgino.
“L’uomo greco -ha scritto Geneviève Fraisse- esclude le donne reali mentre si appropria del femminile”.
Il declino del patriarcato sembra aver portato allo scoperto un ideale di “uomo femmina”, fonte di ispirazione di filosofi, poeti, artisti, pensatori religiosi, figura di una maschilità temperata da sentimenti, emozioni, affetti in cui non è difficile per le donne riconoscersi. Se gli intellettuali nostrani non avessero tenuto in tanto discredito autori vicini al senso comune e all’immaginario collettivo, come Bachofen, Michelet, Mantegazza, non avrebbero bisogno oggi di interpellare tanti saperi per rendersi conto che la femminilizzazione della polis era già inscritta nel suo atto fondativo.
“…questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose.” (Paolo Mantegazza, “Fisiologia dell’amore”, 1879).

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