L’androginismo e la creatività femminile. Virginia Woolf e Sibilla Aleramo
Frammenti
Per quanto distanti, se si guardano le loro storie personali e intellettuali, Virginia Woolf e Sibilla Aleramo vengono a trovarsi inaspettatamente vicine quando si confrontano i termini con cui hanno inteso indicare quella specie di rigenerazione di sé che ha luogo nella creatività artistica, o nell’arte e nella vita insieme per la potenza miracolosa dell’amore (Aleramo).
La consapevolezza con cui entrambe indagano le condizioni di “insignificanza storica” delle donne, il rischio di una emancipazione che sia solo assimilazione all’uomo (al suo linguaggio, ai suoi modi) e, nel caso dell’Aleramo, la coscienza di una sottomissione ancora più profonda che fa coincidere il sacrificio di sé con la propria sopravvivenza, si arresta di fronte all’immagine -l’ “estasi per l’Aleramo, il “matrimonio dei contrari” per la Woolf.
Non dovrebbe essere difficile vedere che l’immagine della perfetta fusione degli opposti, così come ha preso forma nel mito e nella storia, è il sogno di una ritrovata integrità che va però a collocarsi sull’uomo: è la “madre nel figlio” (Nietzsche), il sole di Zarathustra che si “ingravida” perché ha sollevato a sé gli abissi.
Come in tutte le visioni profetiche e le attese di una sovrumanità, sono le viscere della terra e i mostri marini che vanno a ricongiungersi alle cime dei monti, non viceversa. Questa vicenda appare chiara in tutta la cultura dell’uomo e in alcune recenti analisi del mito classico e cristiano esplicitata in modo inconfondibile (Hillman). Le ragioni per cui ha ancora tanto fascino anche per parte del femminismo:
-l’androgino si profila come l’uscita da un dualismo che è fonte di insoddisfazione e sofferenza (natura/cultura, corpo/mente, ecc.), ma rappresenta anche l’uno, la “coidentità” d’origine, speranza di salvezza futura e insieme nostalgia di un paradiso perduto;
-l’ interezza è per la donna una necessità più forte che per l’uomo: dividendo i campi (infanzia/storia, famiglia/vita sociale) e imponendo ad essi la sua legge, l’uomo può garantirsi in qualche modo una continuità, sia pure precaria e insoddisfacente. La donna, confinata su un polo solo, è costretta a operare drammatiche sostituzioni:la creatività del pensiero al posto di quella biologica, l’impegno “virile” nel mondo contro un destino “femminile” di moglie e madre;
-la ricomposizione sembra non poter essere pensata altro che attraverso questa immagine duplice, una specie di divinità bifronte, e non come il naturale innestarsi (ad es. il corpo e il pensiero) in uno stesso essere, maschio o femmina. Con tutto ciò che porta con sé di assolutezza, perfezione, atemporalità, l’ideale androgino non può che essere fonte di sofferenza e causa di follia per la realtà concreta e limitata dell’individuo che attraverso di esso vorrebbe trascendersi.
A mantenere l’attaccamento a una identità illusoria contribuisce il modo contraddittorio con cui l’uomo si è rivolto da sempre alla donna. Scrive Virginia Woolf:
“Immaginativamente la sua importanza è estrema; ma praticamente, la sua insignificanza è totale. Ella pervade la poesia, da una copertina all’altra, invece dalla storia è quasi assente.” (2)
Nella “storia” di cui parla la Woolf riferendosi essenzialmente alle condizioni materiali di inferiorità delle donne, si può far rientrare anche la percezione svalutata che esse hanno del loro corpo: il corpo esaltato è solo quello che si può fantasticare come complemento dell’uomo, è il corpo che l’uomo -figlio, padre, amante, marito- ama perché indispensabile integrazione del suo essere.
Calata in un rapporto d’amore o nella poesia, l’immagine androgina diventa in ogni caso desiderio di “purificazione” da una materialità sofferente e fastidiosa.
(…)
Dopo il breve accenno al sogno d’amore -la Woolf è meno incline dell’Aleramo a lasciarsi incantare dalla bella “fola”- l’immagine androgina si trasferisce nell’esperienza artistica. Lo stato d’animo più propizio perché possa compiersi “l’atto della creazione” è quello che poggia sul “matrimonio dei contrari”. L’esito di questa “fusione” sembra che si possa riportare indifferentemente sull’uomo e sulla donna: è la creatura “integra” che esce come “terzo” dalla scomparsa dei sessi contrapposti. Ma non è un caso che venga a collocarsi nell’opera di un uomo, Shakespeare, e che il lungo oscuro sforzo che dovranno fare le donne perché rinasca Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare, approdi a un risultato analogo. (L’Aleramo dirà lo stesso di Ibsen, ma subito si accorge della contraddizione di aver proposto come modello per l’esperienza autonoma delle donne la scrittura di un uomo).
Anche la descrizione che la Woolf fa della mente nel suo pieno sviluppo creativo è modellata sull’esperienza maschile: quello che sparisce “consumato”, perché costituisce peso e ostacolo dentro un pensiero che si è fatto “incandescente e indiviso”, è il corpo, la vita emotiva, la sessualità, intesa come coscienza che pensa un sesso “separatamente” dall’altro.
Se questa frattura è problematica e faticosa per l’uomo, che trova comunque altrove luoghi per dare consolazione, accadimento e rassicurazione agli affetti, per la donna significa rinunciare alla sua pretesa di infanzia e all’unico luogo dove, per lungo confinamento, si è formata la sua sensibilità e la sua saggezza.
L’ “atto creativo” visto come “purificazione” comporta la perdita di un retroterra emotivo, fantastico, sessuale, che non si lascia ridurre. A parte le condizioni sociali e culturali di inferiorità che ne ostacolano il talento, la Woolf riconosce nelle donne “istinti contraddittori”, “ostili a questo stato d’animo”, che tuttavia considera fondamentale per potersi esprimere pienamente e liberamente.
(…)
Ciò che la Woolf non vede, e che l’Aleramo nella sua lunga vita viene svelando a tratti, è che per somigliare a se stesse occorre prima decantare l’immagine mitica di perfezione e integrità, e questo mutamento è difficile o impossibile finchè la zona muta, la parte inespressa dell’essere femminile, non trova altra rappresentazione che quella negativa, contrappositiva: oscurità contro chiarezza, materia informe contro forme di un’armonia assoluta. In uno dei frammenti inediti dell’Aleramo, datati intorno al 1904-1910, sono indicati i termini della contraddizione:
“La donna è combattuta tra il proprio oscuro istinto e l’ideale che l’uomo ha foggiato perch’ella lo accettasse senza esame.” (14)
Tra questi due poli oscilla tutta la vita e l’opera (tra loro inscindibili) dell’Aleramo, anche se con la coscienza di oggi possiamo vedere che questo istinto “oscuro” le ha dettato riflessioni di grande lucidità sul rapporto uomo-donna, e che il mito, l’immagine di un’ideale rappresentazione di sé, non è stato in lei così dominante come avrebbe voluto per la riuscita della sua arte, e come le sembrava fosse stato per la Woolf.
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Se è così difficile staccarsi dall’immagine mitica di sé è perché l’ “estasi”, l’androgino inteso come “matrimonio dei contrari”, sta a copertura di una realtà difficile da sopportare: il “duplice limite” relativo a un ordine naturale , imprescindibile, qual è da un lato la diversità di un sesso rispetto all’altro (che vuol dire rinuncia all’indispensabilità, alla complementarità su cui sono costruiti i “generi”), dall’altro l’esistenza singola, circoscritta nel tempo (nascita, morte) e nello spazio (per cui cade l’illusione di potersi fondere con l’altro, o di essere l’altro).
(L.Melandri, “Scrittura e immagine di sé: la mente androgina in Virginia Woolf e il tema dell’estasi negli scritti di Sibilla Aleramo, in Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, a cura di Annarita Buttafuoco e Marina Zancan, Feltrinelli 1988.)