Sapere che una lettera inviata per posta elettronica arriva a destinazione prima ancora che il pensiero sia riuscito a immaginarne l’effetto sulla persona che la riceverà produce una inquietante dissimmetria tra il tempo di cui si fa esperienza soggettivamente e quello della protesi meccanica che lo trasforma in estensione e velocità. Può capitare allora che l’attesa di una risposta obbedisca allo stesso impulso magico: abolire spazio, tempo, congiunture personali, per disporsi a ricevere la parola dell’altro nell’immediatezza di un presente immobile e disincarnato.
Tra il “tempo freccia” della vita sociale e il “tempo tartaruga” che ha radici nei ritmi biologici e psichici di ogni individuo, passa l’incantesimo del “qui” e “ora” di una comunicazione che sembra svincolata da luoghi e persone concrete. Il senso di leggerezza che si prova nell’ ‘intimità’ virtuale dei ‘contatti’ telematici nasce dall’assenza di qualunque tipo di attrito: dalla rugosità della carta da lettera, all’impatto sensoriale col corpo di chi ci sta davanti. Lo schermo stesso del computer si fa trasparente, sottile e impercettibile per i segni che vi scorrono sopra, veloci come i pensieri, e , come i pensieri, pronti a sparire e ricomparire in un battito di ciglia.
“C’è dell’ascetismo nel moto di idee e nelle pulsioni che fondano il trionfo della tecnica -scriveva Asor Rosa nel suo libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986)- un ascetismo del sacrificio e della sottomissione, della perdita di identità (…) non del dinamismo e della concentrazione spirituale”.
Eppure, se l’ascesi è “conservazione del tempo, rallentamento della fine”, concentrazione dentro il singolo istante di un tempo infinito, non c’è dubbio che un sistema di informazione “vorticoso, rutilante, prodigo di notizie sempre nuove” finisce paradossalmente per ottenere un effetto analogo, come cancellazione sia del tempo storico che del tempo biologico. E’ vero che non ci restituisce a noi stessi, a “ciò che effettivamente siamo”, ma spalanca le strade del mondo a quei “residui notturni” che non hanno mai smesso di agitare i sonni dell’uomo cosiddetto “civile”, a quel flusso torrenziale di immagini e voci che, come un inconscio diffuso, oggi attraversa la molteplicità dei mezzi di comunicazione.
Il tempo del sogno, della memoria arcaica della specie, con tutto quello che porta con sé di infantile e di barbarico, non solo non può essere considerato marginale o separato dalla realtà, ma, stando all’apparenza, va addirittura a confondersi con le costruzioni più artificiali della tecnologia.
Il rischio non è un eccesso di virtualità, ma di confusione. Aperto il vaso di Pandora, liberate le “viscere della storia” da una immobile “naturalità”, consegnata la “vita intima”, i suoi ritmi segreti, le sue ombre, alle luci abbaglianti dello spettacolo, è difficile immaginare per quali strade tornare a fare esperienza di sé e del mondo.
Saltati i confini tra ritmi temporali e lingue che si sono scontrate per millenni da sponde opposte e complementari, sembra che a reggere l’urto di tecnologie sempre nuove sia rimasto solo quella soglia di resistenza che finora ha impedito all’individualità concreta di uomini e donne di dissolversi totalmente dentro modelli, simboli, costruzioni sociali incorporate. Contro l’assalto di una “interiorità” che ci guarda dai manifesti pubblicitari, dagli schermi televisivi, dalle vetrine dei negozi, rimane sempre quel rumore di fondo che fanno i pensieri quando sembra che gli sia preclusa ogni via di uscita. Come acque inquiete, se proprio non trovano la strada della parola, già troppo consumata dalla chiacchiera mediatica, ci provano col gesto, la scrittura, il rifugio nel silenzio e nella memoria.
Ci sono molti modi per rallentare una corsa che oggi assomiglia sempre più alla freccia ferma di Zenone, un tempo che si segmenta tendenzialmente all’infinito, nell’illusione di una padronanza assoluta del principio e della fine di ogni cosa. Una strategia efficace consiste nel ritagliarsi una marginalità consapevole, qualunque sia il contesto in cui ci si muove, e da lì cominciare a guardarsi dentro e attorno, per scoprire che il passato, come già scriveva Virginia Woolf, non ha mai smesso di far affiorare le sue “scene”, i suoi odori, le sue ferite, sulla superficie del presente, in quelle acque, ora lisce ora agitate, in cui sempre torna a immergersi la “lenza” del pensiero.
Fare e disfare la propria storia, riconoscere nella mutevolezza della narrazioni possibili la materia ibrida, eterogenea, su cui si costruisce l’identità del singolo, è stata la pratica politica anomala del movimento delle donne degli anni ’70. Quello che poteva apparire, rispetto alle conquiste dell’emancipazionismo, un viaggio anacronistico “verso il luogo dell’origine”, si è rivelato al contrario un modo inedito di vivere il tempo: ripresa di esperienze del passato come apertura verso nuove soluzioni, nostalgia per qualcosa che ancora non si conosce e che, nella praticabilità del cambiamento, riesce a proiettarsi verso il futuro.
Nella foto: Achille e la tartaruga
