Anche lo Stato ha un Piano…

Anche lo Stato ha un Piano…

Previsto, prevedibile, e soprattutto tempestivo, visto la ricorrenza del 25 novembre, cala dall’alto il secondo Piano nazionale contro la violenza maschile sulle donne.

Che un movimento o una Rete di donne, NUDM, di cui fa parte anche l’associazione nazionale dei Centri Antiviolenza -D.I R.E’ -sia venuta elaborando nel corso di un anno, dopo la grande manifestazione del 26 novembre scorso, attraverso tre convegni nazionali e un’infinità di assembee cittadine, un Piano collettivo articolato su tutti gli aspetti della violenza maschile -sessismo, razzismo, salute produttiva e riproduttiva, linguaggio dei media, scuola educazione di genere, precarietà femminilizzazione del lavoro, ecc.’, non si è tenuto alcun conto.

Il rapporto mancato tra movimenti e istituzioni resta una delle ragioni principali della crisi della democrazia, dell’estraneita’ e della sfiducia crescente nei confronti della rappresentanza e della politica in generale.

 

Per leggere il piano messo a punto da Non una di meno, clicca qui.

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Un titolo ad effetto su D La Repubblica

Un titolo che fa torto anche all’ articolo, per certi versi più articolato e contraddittorio.
Soprattutto un titolo profondamente diseducativo rispetto alla convinzione, oggi più condivisa che in passato, che la violenza maschile contro le donne vada affrontata attraverso processi formativi ed educativi fin dall’infanzia, sapendo quanto siano precoci i pregiudizi sessisti e razzisti derivanti dalla cultura che abbiamo ereditato da secoli di dominio maschile.

Quando si parla di “capire”, il riferimento non sono solo le ragioni “sociali e psicologiche” ma il portato di una ideologia che è stata per secoli il fondamento della nostra come di altre civiltà, della cultura alta, così come del senso comune.

È dentro questa cultura, che ha visto un potere -quello maschile- innestarsi e confondersi con le vicende più intime (la maternità, la sessualità), che vanno collocati e “capiti” i comportamenti violenti dei singoli o dei gruppi, con tutto il loro carico di patologia, responsabilità e storia.

Come spiegare altrimenti che molti uomini, anche giovani, intervistati, stando a quanto si legge nell’articolo, rispondono di non riuscire a “fare un collegamento tra sesso non consensuale e stupro”, che uno studente su quattro risponde che ” è colpa del desiderio”?
Non sarebbe forse il caso di cominciare a chiedersi che cosa è stato ed è ancora purtroppo, nell’immaginario e nella cultura di tanti uomini ( ma anche donne) quello che chiamiamo “amore” “desiderio”, “consenso”, ecc.?

Smettiamola soprattutto di confondere in modo così semplicistico “capire” con “giustificare”.

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Repetita…

“E’ importante perciò che si dica che la violabilità del corpo femminile – la sua penetrabilità e uccidibilità – non appartiene all’ordine delle pulsioni “naturali”, ai raptus momentanei di follia, o alla arretratezza di costumi “barbari”, stranieri, ma che sta dentro la nostra storia, greca romana cristiana, a cui si torna oggi a fare riferimento per differenziarla dalla presenza in Europa di altre culture.”

Articolo pubblicato il 24 nov. 2015 su ‘L’Internazionale’, fonte

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Amore e violenza

C’è un modo per uscire dal perverso intreccio di amore e violenza, amore e potere: interrogare l’amore così come lo abbiamo conosciuto finora, aprirlo a nuove possibilità.

E’ una delle domande che si pone François Jullien nel suo ultimo libro tradotto in italiano, “Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero”, Feltrinelli 2017:

“Un secondo amore, per essere non la ripetizione ma la ‘ripresa’ di un primo amore, in che cosa si deve distinguere da quest’ultimo?”

Alcuni frammenti:

“Il secondo amore, infatti, avendo dissolto il mito dell’ “Amore”, non essendo più cieco…ha compreso che la celebrazione dell’Altro può mascherare l’autogiustificazione di sé o che ciò che amo sono le qualità che proietto sull’Altro, adornandolo e idealizzandolo…Ma ha compreso anche un’altra cosa, che l’amore ha qualcosa non solo di equivoco, fra il possesso dell’altro e la donazione di sé, l’eros e l’agape, ma anche di doppio, di torbido e di ambivalente, che ci vuole poco per passare dall’amore all’odio, dal desiderio di fare del bene al bisogno di fare del male all’altro e di sacrificarlo (“io ti amo”, ma proprio per questo mi permetto di mutilarti).
(…)
“Ho definito ‘intimo’ il tenore del secondo amore. Esso è fatto non più di passione che si volge in delusione o, quantomeno, destinata necessariamente a incontrare il proprio limite, ma dell’intimo che scopre in maniera inesauribile fra i soggetti. Il primo amore, che pone l’altro come oggetto, chiaramente può non essere condiviso (io ti amo/tu non mi ami), drammatizzandolo e rendendo così piacevole analizzarlo: per questo se ne possono trarre romanzi che, attraverso crisi e riconciliazioni, non cessano di esplorare quel particolare tipo di gioco. Diversamente, l’intimo implica necessariamente la reciprocità. Lo dice anche la lingua: sono intimità con te, ‘siamo intimi’, ossia noi ci instauriamo egualmente –congiuntamente- in posizione di soggetti senza che si debba stabilire a chi dei due ciò è dovuto. O, piuttosto, siamo ‘divenuti’ intimi”.
(…)
“Ne consegue che l’intimo si presenti come la natura stessa del secondo amore: mentre il primo amore, anche quando cede, resta nell’ambito del rapporto di forza (ciò che si subisce invoca la rivincita), il secondo amore, al contrario, procedendo dall’intimo, nasce dall’aver iniziato a estrarre l’Altro dai rapporti di forza che costituiscono la trama del mondo e anche dal fatto che su di lui non si proiettano fini o scopi. Ciò significa riconoscerlo come ‘soggetto’. Da lì proviene la ‘dolcezza’ intima del secondo amore che, de solidarizzando con la forza (che è sempre limitata), è fatto non tanto di affetto quanto di infinito.”
(…)
“L’intimo non si sforza né si domanda, è pudico e non enfatico; si limita alla constatazione: non ha nemmeno bisogno di dirsi. In compenso, continua a scorrere e a farsi cogliere nelle ‘minuzie’ del quotidiano. Non c’è nulla da raccontare. Ecco perché il romanzo procede alla narrazione drammatica del primo amore ma si arresta sulla soglia del secondo, non trovando più nulla di saliente, nulla di significativo, nessun evento da riportare..”
(…)
“Conosciamo bene la strategia del primo amore, fatta di conquista e possesso, in quanto la troviamo descritta in una quantità infinita di romanzi: come l’Uomo fa ‘cedere’ la Donna che resiste per, alla fine, capitolare o tenere duro. Si tratta di una strategia di ‘attacco’ e ‘resistenza’ scandita da assedi, trappole, marce d’avvicinamento, colpi di mano, molestie, sconfitte e riprese, con la vittoria dell’uno che è la sconfitta derll’altro.”
(…)
“Si dovrebbe esplorare in profondità quegli investimenti strategici del secondo amore che sono anche astuzie e mosse esistenziali. Tale è, in particolare, la strategia di quella che definirei ‘stima’, in quanto deve impedire che l’intimo decada in intimità, ossia in una essenza e in una proprietà. Si deve impedire che la dolcezza dell’intimo, che estrae l’Altro dal rapporto di forze, si confini in affetto (in dolcezza affettiva che facilmente scade nell’affettazione) mettendo troppo prudentemente la relazione al riparo disinnescando la virulenza del faccia a faccia.”
(,..)
“Non ci troviamo più sul piano della celebrazione di quel bel viso, idealmente fotografato per i suoi tratti, su cui faceva leva il primo amore. Diversamente, in quel viso si percepiscono tanti visi o, piuttosto, finalmente appare l’immensità celata di un volto…si ha allora la sensazione di avere solo cominciato a vedersi, che prima non ci si era mai visti, che tutto ciò che precede non era che maldestramente tentato. A quel punto, può iniziare la ‘ripresa’”

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Circa la violenza sulle donne

A chi fa della violenza contro le donne un problema di “sicurezza delle città” o invoca la “protezione” maschile, una maggiore “riservatezza” femminile, quanto ad abbigliamento, uscite serali ecc., un interessante contributo di Stefano Ciccone, più che mai attuale.

‘Oggi si è tenuta a Taormina una manifestazione promossa da uomini contro la violenza sulle donne. Un segno importante di un mutamento in corso. Ma la riflessione nel mondo maschile è ancora fragile e limitata e così, spesso, iniziative frutto della buona volontà rischiano di riproporre inconsapevolmente vecchi stereotipi. Questo il mio contributo all’iniziativa con un messaggio al promotore che ringrazio: Caro Alessandro Cardente, purtroppo non posso essere a Taormina in questa occasione importante. Voglio però inviarvi un saluto e un piccolo contributo frutto dell’esperienza di maschile plurale, una rete di uomini che da tanti anni, in tutta Italia si batte contro la violenza maschile e contro la cultura in cui questa violenza nasce.
Purtroppo la violenza degli uomini contro le donne ha radici profonde dentro di noi: nell’idea di amore come possesso, nell’incapacità di accettare e riconoscere la libertà a l’autonomia della nostra compagna, nel mescolare protezione e controllo, sostegno e affermazione del proprio potere.
Per questo nessuno può sentirsi estrano a questa chiamata in causa: la violenza chiede innanzitutto a ognuno di noi di riflettere sulle nostre complicità, sulle nostre pigrizie e sulle nostre ipocrisie.
Oltre a incoraggiare le donne a denunciare dobbiamo vedere quanti, in famiglia, al lavoro, tra amici, voltano la testa dall’altra parte lasciando sole le donne. D’altronde diciamo: Tra moglie e marito non mettere il dito”…
La vostra manifestazione fa un passo importante: mette al centro gli uomini e chiede agli uomini di prendere parola in prima persona e di impegnarsi contro la violenza.
Ma cosa possono fare gli uomini e come possono impegnarsi? Non è facile e vi invito, anche questa sera a riflettere su quanto, anche quando ci battiamo contro la violenza, rischiamo di riprodurre una cultura radicata che è alla base di questa violenza.
Possiamo porci come i difensori delle donne, quelli che le proteggono dagli altri uomini? Questa idea che torna anche nell’immagine che promuove questa importante iniziativa, ha dei rischi su cui dobbiamo riflettere: il primo è di rappresentare, di nuovo, le donne come soggetti deboli, bisognosi di protezione da parte di un uomo. E quante volte questa idea ha autorizzato un uomo ad affermare il proprio controllo e il proprio potere? Io porto i soldi a casa, io ti proteggo dagli altri uomini e quindi sono il capo famiglia, quello che comanda. La violenza nasce spesso dall’incapacità di riconoscere e accettare l’autonomia, la libertà e la forza delle donne. Non nascondiamola. La violenza nasce spesso chiamando il proprio desiderio di controllo come protezione: non diamo alibi alla violenza.
L’impegno necessario che chiediamo agli uomini, quello che dobbiamo assumere come uomini, non è, dunque, di difendere le donne, le nostre donne dagli altri uomini. No. Sappiamo tutti che la violenza è opera di fidanzati, mariti, ex. La violenza non viene da lontano: è nelle nostre famiglie e nelle nostre relazioni: non dobbiamo difenderci da una minaccia estranea ma dobbiamo cambiare le nostre relazioni, la nostra cultura. Dobbiamo cambiare noi uomini.
E non solo per sradicare la violenza ma per vivere più liberi, tutti, insieme, donne e uomini.’

Lea Melandri: perché gli uomini uccidono le donne

Scrive Lea Melandri che non dovremmo meravigliarci che gli uomini uccidano le donne, finché queste sono identificate con la sessualità e la maternità quali doti femminili al servizio dell’uomo stesso (o a lui finalizzate). Essenzialmente corpi; a disposizione
Qualcosa che il femminismo ha iniziato a scalfire, ma che ancora lavora profondamente ed è costantemente incoraggiato dalla cultura mediatica. Tanto da far notare a qualcuno che del concetto “io sono mia” nemmeno si sente più l’eco…
Articolo pubblicato il 10 agosto 2017 su Politica femminile, fonte qui 
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A proposito della sequenza inarrestabile di stupri e femminicidi degli ultimi giorni…

A proposito della sequenza inarrestabile di stupri e femminicidi degli ultimi giorni, Dacia Maraini su La Stampa di oggi scrive: “Sono uomini apparentemente normali, bravi ragazzi, padri di famiglia, ma non reggono alla perdita del privilegio, del potere. Non reggono allo smacco, alla sconfitta. Non si uccide per amore, si uccide quando si perde qualcosa e non si sopporta di averla perduta.”

L’ amore c’entra invece, per tutte le ambiguità e contraddizioni che si porta dietro, così come c’entra una fragilità maschile che va interrogata alla luce della consapevolezza nuova che abbiamo oggi di un potere -dell’uomo sulla donna- innestato e confuso profondamente con le esperienze più intime, come la sessualità, la maternità, i legami famigliari. Come si spiega altrimenti il fatto che le donne, oggi più consapevoli e libere, ancora fanno fatica a riconoscere nell’uomo violento un pericolo, ancora sopportano a lungo maltrattamenti, ancora accettano di presentarsi a un appuntamento pur sentendone i rischi?
Possessivita’ e paura degli abbandoni nell’amore non sono solo dell’ “immaturità” maschile, ma di entrambi i sessi e di tutte le forme di amore, tra diversi e tra simili. Maschile è il potere con cui l’uomo ha fatto del suo primo oggetto d’amore -la donna madre- anche la garanzia della sua sopravvivenza materiale affettiva e psicologica, del matrimonio e della divisione sessuale del lavoro il prolungamento della sua infanzia, con ruoli rovesciati.

Oggi presidi di NON UNA DI MENO davanti ai TRIBUNALI di molte città italiane.

Chiediamo alla RAI di trasmettere “Processo per stupro”, regia di Loredana Rotondo, in prima serata come il 26 aprile 1979.
“Processo per stupro” e’ seguito da piu’ di tre milioni di spettatori. Se ne chiede a gran voce una replica che viene trasmessa in Ottobre del 1979 ed e’ seguita da nove milioni di spettatori. Il documentario mette in mostra come nel corso del processo la vittima, donna, diventa lentamente l’imputato. La donna e’ colpevole d’aver istigato, con comportamenti ambigui e cattivi costumi, la violenza dell’uomo. “Processo per stupro” ha una vastissima eco nell’opinione pubblica, spingendola a riflettere sulla mentalita’ sessista ancora imperversante nel paese.”

Riflessioni a margine del presidio davanti al Tribunale di Milano.

Ne’ sedotte ne’ seduttrici
La complicità femminile nel condividere, a proprio danno, logiche di potere e di violenza del sesso maschile continua a stupire, a sollevare interrogativi, come se fosse un evento inaspettato e dalla cause misteriose. Non sembra destare invece alcuna meraviglia che delle donne si possa dire una cosa e il suo contrario, considerarle una minaccia o una salvezza: la sessualità, “la colpa dell’uomo divenuta carne” o la sua redenzione.
Le donne non sono né sedotte né seduttrici, né vittime innocenti di un potere che si è appropriato dei loro corpi e delle loro menti, né maliarde disposte a usare contro l’uomo le loro ‘potenti attrattive’. Ma questa è l’immagine, contraddittoria, che con poche eccezioni è stata data di loro nel corso dei secoli e che ancora oggi affiora incontrastata nel discorso pubblico.
Sono uscite alcuni anni fa due inchieste che dicono, sostanzialmente, quanto grande sia la percentuale di donne che condividono le opinioni e i comportamenti più detestabili dei maschi: stando all’indagine condotta dall’Airs, l’associazione italiana per la ricerca in sessuologia (2009), il 33% pensa che è colpa delle donne stesse se vengono violentate o picchiate; in uno studio americano, raccontato dal New York Times, il mobbing subito dalle donne nei posti di lavoro sarebbe per il 70% praticato dalle proprie simili (La Repubblica 27.5.09).
Le attese nei confronti delle donne sono pari, per quantità e pesantezza, alle ingiurie materiali e ideologiche di cui sono state fatte oggetto. Gli uomini hanno sempre dialogato solo con se stessi, e, quando le donne hanno preso parola pubblica per dire del paradosso di un potere che passa attraverso i corpi e le esperienze più intime degli esseri umani, hanno chiuso le orecchie per non sentire.
Da oltre un secolo, il femminismo si interroga su cosa abbia comportato per le donne essere state espropriate del loro essere, a partire dal corpo e dalla sessualità, costrette a pensare se stesse e il mondo attraverso l’unica intelligenza che ha avuto cittadinanza nella storia. Da questa lunga ricerca di autonomia dal pensiero unico che ha finora guidato la civiltà nel suo sviluppo, non sono emersi né il femminile innocente mitizzato dagli adoratori ottocenteschi delle madri, come Bachofen e Michelet -la risorsa di umanità integra capace di rigenerare la stanca tempra dell’uomo-, né la figura di una replicante ben ammaestrata.
Nell’accostamento a una individualità femminile sottratta ai ruoli imposti e a stereotipi alienanti, si è potuto capire, a dispetto di tutte le semplificazioni, che molte restano le zone indecifrabili dove si incrociano, nel rapporto tra i sessi, l’amore e la violenza, la debolezza e la forza, il condizionamento biologico e la storia, l’adattamento e la scelta, la tenerezza e la rabbia, la dipendenza del figlio e il privilegio del padre.
Come si può pensare che di una capacità biologica diventata, attraverso il ruolo imposto di madre, moglie, amante dell’uomo, l’arma spuntata di un loro inequivocabile potere, le donne non si sarebbero servite? Perché avrebbero dovuto rinunciare a usare a loro vantaggio quelle che agli occhi del dominatore apparivano “potenti attrattive”- la sessualità e la maternità-, tenute perciò ferocemente sotto controllo?
Come potevano sopportare una sorellanza che si prospettava solo come condizione di miseria e di schiavitù, quando l’unico modo per sottrarvisi era la rivalità?
Finché la ragione su cui si fonda la subalternità delle donne è anche, inspiegabilmente e contraddittoriamente, la loro unica moneta di scambio -un corpo generoso di vita, di cure, di piaceri sessuali-, ogni giudizio volto a esaltarle per dignità e abnegazione, o a screditarle per spudoratezza, non può che nascondere un fondo di ipocrisia, soprattutto da parte di chi, come l’uomo e la cultura che porta il suo segno, in qualunque forma economica, politica, sociale si sia espressa, non sembrano aver tenuto in alcun conto il terremoto che ha scosso le vite delle donne e, attraverso di esse, saperi, poteri e istituzioni, costruiti senza di loro.
In assenza di un processo analogo di liberazione da parte dell’uomo, costretto comunque a recitare il copione di una virilità anacronistica, anche la più estesa presenza delle donne oggi sulla scena pubblica è destinata a ‘femminilizzare’ il mondo sulla base di modelli tradizionali, di donne-oggetto sessuale, madri e mogli irreprensibili, androgini o donne mascolinamente competitive.
(Riduzione di un articolo uscito su “L’Altro” nel giugno 2009)

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