FEMMINILIZZAZIONE, MATERNALIZZAZIONE DELLA SFERA PUBBLICA O TRIONFO DELLA FIGURA IBRIDA DELL’ANDROGINO?

Che la cura, sotto l’aspetto di accudimento materno e di lavoro domestico, fosse una specie di Giano Bifronte, posta al centro di un ambiguo, invisibile annodamento di servitù e onnipotenza, debolezza e forza, amore e dominio, corpo e legge, era già chiaro dalla definizione contenuta nell’ Emilio di Rousseau. Ma bisogna aspettare qualche secolo prima che ne venga data, da una coscienza femminile anticipatrice come Virginia Woolf, una versione più veritiera: non un destino legato alla contraddittoria “natura” della donna, oscillante tra l’animalità e il divino, ma il fondamento, il supporto indispensabile della civiltà dell’uomo, espressione del suo dominio ma anche della dipendenza dall’altro sesso, luogo dove si danno insieme, intrecciate e confuse, l’inermità e la nostalgia del figlio, la violenza e la legge del padre.
“Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra sarebbe ancora palude e giungla.”
Benché evidente, nel suo prolungarsi molto oltre i bisogni dell’infanzia, il legame della cura con la volontà dell’uomo di garantire alla sua avventura pubblica un retroterra sicuro per la sopravvivenza lasciava però aperto l’interrogativo sul perché le donne stesse ne avessero fatto, loro malgrado, una ragione di vita. Sarà il femminismo degli anni ’70 a portare l’analisi e l’istanza di cambiamento fino alle regioni più remote e inesplorate della vita psichica, e a scoprire quanto la visione maschile del mondo si fosse incorporata, oltre che nelle istituzioni della vita pubblica, nel sentire profondo di entrambi i sessi.
(…)
L’emancipazione, ai suoi inizi, sembra che non possa percorrere che la strada già segnata dal modello dominante: da un lato diritti “neutri”, e dall’altro ruoli “naturali”, compiti specifici di un sesso e dell’altro, che avevano solo bisogno di essere riscoperti nella loro armoniosa complementarità.
Dietro il dilemma “uguaglianza/differenza”, che porterà comunque le associazioni femminili tra ‘800 e ‘900 a gettare le basi dello stato sociale, si può dire che fa il suo ingresso nella polis il sogno d’amore, come ricongiungimento dei due rami divisi dell’umanità riportati alla coppia originaria madre-figlio. “Educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana” le donne, che come scrive Sibilla Aleramo “uniranno le loro voci alle più intemerate del paese”, riscoprono la “divina funzione domestica” come integrante forza creativa capace di risollevare uomini “un po’ tristi e un po’ smarriti” in un periodo di “transizione ansiosa”.
Solo l’impeto giovanilistico e rivoluzionario di una generazione che aveva creduto di poter abbattere in un sol colpo le barriere dello psichismo inconscio e di consolidati poteri economici e politici poteva far credere alle femministe degli anni ’70 di avere avviato una volta per sempre il processo di liberazione dall’identità femminile prodotta dall’uomo e la crescita, sia pure lenta, di un “io non conforme” ai modelli dati, una singolarità capace di ripensarsi in una dimensione collettiva , relazionale, fuori dall’idea di appartenenza a un “genere” coeso, valido per tutte le donne.
(…) Il dubbio che l’emancipazione rinasca sempre dai sedimenti più arcaici della dualità ereditata da secoli di cultura maschile trova oggi la sua conferma sia nella femminilizzazione dello spazio pubblico -come richiesta di “talenti femminili” da parte della nuova economia, dell’industria dello spettacolo, della pubblicità, del consumo, ma anche come precarietà diffusa, crisi della politica, ecc.- sia nel modo con cui vengono affrontate e discusse dalle donne stesse le questioni sempre più pressanti della “conciliazione” vita e lavoro.
(…)
Ma c’è un’altra possibile interpretazione, se si tiene conto di quello che è stato finora il fondamento di ogni “dialettica”, modellata sul dualismo sessuale: la tendenza alla riunificazione dei poli complementari, l’illusione di un armonioso ricongiungimento. Il ‘neutro’ non nasconde solo il volto di un padre o di un figlio, ma anche la figura ibrida dell’androgino.
“L’uomo greco -ha scritto Geneviève Fraisse- esclude le donne reali mentre si appropria del femminile”.
Il declino del patriarcato sembra aver portato allo scoperto un ideale di “uomo femmina”, fonte di ispirazione di filosofi, poeti, artisti, pensatori religiosi, figura di una maschilità temperata da sentimenti, emozioni, affetti in cui non è difficile per le donne riconoscersi. Se gli intellettuali nostrani non avessero tenuto in tanto discredito autori vicini al senso comune e all’immaginario collettivo, come Bachofen, Michelet, Mantegazza, non avrebbero bisogno oggi di interpellare tanti saperi per rendersi conto che la femminilizzazione della polis era già inscritta nel suo atto fondativo.
“…questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose.” (Paolo Mantegazza, “Fisiologia dell’amore”, 1879).

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28 marzo 1941. Ricorrenze: Virginia Woolf

Viriginia Woolf:
“Lasciate dunque, come un bimbo che avanzi scalzo nelle acque fredde di un fiume, che io discenda di nuovo in quella corrente.”
In quel fiume, vicino a casa, il 28 marzo 1941, Virginia Woolf, dopo essersi riempita le tasche di sassi, discese per porre fine alla propria vita.
Frammenti da “Momenti di essere”, La Tartaruga Edizioni, Milano 1977
“Il passato ritorna soltanto quando il presente scorre così liscio da parere la superficie mobile di un fiume profondo. Allora si vede attraverso la superficie fino in fondo. In quei momenti ritrovo la soddisfazione più grande, che non è di pensare al passato; ma di vivere, in quei momenti, più appieno il presente (…) scrivo per ritrovare il senso del presente nell’ombra che il passato getta su questa superficie frantumata.
Lasciate dunque, come un bimbo che avanzi scalzo nelle acque fredde di un fiume, che io discenda di nuovo in quella corrente.”
“Non è dunque possibile, mi sono chiesta spesso, che le cose vissute con grande intensità posseggano una vita indipendente dalla nostra mente; continuino anzi tuttora a esistere? E se è così, non sarà possibile in futuro inventare una macchina per intercettarle? L’immagino, il passato, come un viale alle mie spalle; un lungo nastro di scene, di emozioni. E laggiù, alla fine del viale, stanno gli orti e la stanza dei bambini (…) Le emozioni intense non possono non lasciare traccia; si tratta solo di scoprire come ricollegarsi di nuovo con esse, e potremo rivivere per intero la nostra vita dall’inizio.”
“Fino ai quarant’anni e oltre -potrei stabilire la data controllando quando scrissi “Gita al faro”, ma non ho voglia ora di prendermi la briga- fui ossessionata dalla presenza di mia madre. Ne udivo la voce, la vedevo, mi immaginavo cosa avrebbe detto o fatto in ogni momento della mia giornata. Era una delle presenze invisibili che svolgono tanta parte in ogni vita umana (…) ebbene, se non sappiamo analizzare queste presenze invisibili, sapremo ben poco del soggetto delle memorie; e allora, che futile attività diventa scrivere biografie. Mi vedo come un pesce nella corrente; sospinto altrove; trattenuto; ma non so descrivere la corrente.”
“Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square pensai, come mi accade talvolta con i miei libri, pensai “Gita la faro” (..) scrissi il libro molto rapidamente; e quando l’ebbi finito, smisi di essere ossessionata da mia madre: non odo più la sua voce; non la vedo. Probabilmente feci a me stessa quello che gli psicoanalisti fanno ai loro pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda. Ed esprimendola ne trovai la spiegazione e la potei riportare placata.”
“Eccola, mia madre, al centro della vasta cattedrale che era l’infanzia; era là dall’inizio (…) E, s’intende, era il centro di tutto. Il centro:forse è questa la parola che esprime meglio la diffusa sensazione che avevo di vivere immersa così totalmente nell’atmosfera di lei, da non distaccarmi mai abbastanza da vederla come persona (…) Quante cose sconnesse ricordo di mia madre, se lascio scorrere il pensiero; ma tutte di lei in compagnia; di lei in mezzo ad altri; di lei generalizzata; dispersa, onnipresente, di lei come creatrice di quell’affollato, allegro mondo ruotante al centro della mia infanzia. “

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“PENSIERI DI PACE DURANTE UN’INCURSIONE AEREA”

Breve, coraggioso scritto di Virginia Woolf sui volti diversi del “desiderio di dominare”, pubblicato su Le strade di Londra (Il Saggiatore, Garzanti 1974, e ora, sul libro curato da Liliana Rampello.

Alcuni frammenti:
“Lassù in cielo combattono giovani inglesi contro giovani tedeschi. I difensori sono uomini, gli attaccanti sono uomini. Alla donna inglese non vengono consegnate armi, né per combattere il nemico né per difendersi. Ella deve giacere disarmata, questa sera. (…) ma c’è un altro modo di lottare senza armi per la libertà. Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee, le quali possono aiutare quel giovane inglese che combatte lassù in cielo a vincere il nemico”

“Cerchiamo di fare conscio l’inconscio hitlerismo che ci opprime. E’ il desiderio di aggressione; il desiderio di dominare e di rendere schiavi. Persino nel buio possiamo vederlo chiaramente. Vediamo le vetrine dei negozi illuminati a giorno, e le donne che guardano; donne incipriate; donne travestite, donne dalle labbra rosse e dalle unghie rosse. Sono schiave che cercano di rendere schiavi gli altri. Se possiamo liberarci della schiavitù, avremo liberato gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi.”

“Ma se fosse necessario per il benessere dell’umanità, per la pace nel mondo, che l’esercizio della maternità venisse ristretto, e l’istinto materno messo a tacere, forse le donne non si rifiuterebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Onorerebbero queste donne per il loro rifiuto di generare. Aprirebbero altre possibilità al loro potere creativo. E anche questo deve essere parte della nostra lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani inglesi a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi.”

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Virginia Woolf, Momenti di essere

“Il passato ritorna soltanto quando il presente scorre così piano da assomigliare alla liscia superficie di un fiume profondo. Allora,attraverso la superficie,arriviamo a vedere le profondità. In quei momenti provo una delle mie più grandi soddisfazioni, non perché stia pensando al passato, ma perché vivo allora più pienamente nel presente “.

La tartaruga edizioni, 1977

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Violenza contro le donne, quanto ha contato il silenzio della politica e della cultura maschile

Articolo pubblicato il 04.VII. 2016 su La27ora-corriere

La recente sequenza di femminicidi deve aver fatto cadere, da parte maschile, alcune delle resistenze più forti a interrogarsi come «genere», a chiedersi se la «follia omicida» di pochi non sia imparentata, nel profondo di «antiche e oscure emozioni» – come le chiama Virginia Woolf -, con l’idea di «virilità» di cui sono improntati sia la cultura alta che il senso comune.

«Viviamo ancora, noi maschi in Italia – scriveva Nicola Lagioia sulla prima pagina di Repubblica (il 10 giugno scorso – in un contesto che ci mette in una posizione di predominanza. Quanto ne siamo consapevoli? Quanto, consapevolmente o meno, cediamo alla tentazione di contribuire a cementare un modello che ci vede in differenti blocchi di partenza rispetto alle donne? E quanto siamo tentati di trasferire questo modello nel privato delle nostre relazioni sentimentali?».

Altalenando tra riflessioni più teoriche e testimonianze di vita personale, la parola degli uomini parla oggi con una coscienza di sé e della propria storia che il femminismo sollecitava da anni e che finora non era andata oltre la pratica politica di gruppi ristretti, come Maschile Plurale.

Sul Sole 24ore, un «intellettuale trentenne», Raffaele Alberto Ventura, descrive la nascita della figlia come una «piccola apocalisse»: la caduta di un intero edificio di valori e priorità, la scoperta che le «mutilazioni» che la paternità – e a maggiore ragione la maternità – avrebbe imposto a carriere, sogni di gloria, distrazioni, ecc., potevano non essere temute ma desiderate come tempo liberato dalle «promesse di un avvenire che non giungerà mai».

Si tratta di «legittimi dubbi su se stessi», sulle proprie fragilità, su logiche di potere interiorizzate inconsapevolmente e diventate «normalità», privilegio «naturale» maschile, che andrebbero però trasferite – come sottolineava giustamente Nicola Lagioia nel suo articolo – in un dibattito pubblico.

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Svelamento:L’androginismo e la creatività femminile. Virginia Woolf e Sibilla Aleramo

L’androginismo e la creatività femminile. Virginia Woolf e Sibilla Aleramo
Frammenti
Per quanto distanti, se si guardano le loro storie personali e intellettuali, Virginia Woolf e Sibilla Aleramo vengono a trovarsi inaspettatamente vicine quando si confrontano i termini con cui hanno inteso indicare quella specie di rigenerazione di sé che ha luogo nella creatività artistica, o nell’arte e nella vita insieme per la potenza miracolosa dell’amore (Aleramo).
La consapevolezza con cui entrambe indagano le condizioni di “insignificanza storica” delle donne, il rischio di una emancipazione che sia solo assimilazione all’uomo (al suo linguaggio, ai suoi modi) e, nel caso dell’Aleramo, la coscienza di una sottomissione ancora più profonda che fa coincidere il sacrificio di sé con la propria sopravvivenza, si arresta di fronte all’immagine -l’ “estasi per l’Aleramo, il “matrimonio dei contrari” per la Woolf.
Non dovrebbe essere difficile vedere che l’immagine della perfetta fusione degli opposti, così come ha preso forma nel mito e nella storia, è il sogno di una ritrovata integrità che va però a collocarsi sull’uomo: è la “madre nel figlio” (Nietzsche), il sole di Zarathustra che si “ingravida” perché ha sollevato a sé gli abissi.
Come in tutte le visioni profetiche e le attese di una sovrumanità, sono le viscere della terra e i mostri marini che vanno a ricongiungersi alle cime dei monti, non viceversa. Questa vicenda appare chiara in tutta la cultura dell’uomo e in alcune recenti analisi del mito classico e cristiano esplicitata in modo inconfondibile (Hillman). Le ragioni per cui ha ancora tanto fascino anche per parte del femminismo:
-l’androgino si profila come l’uscita da un dualismo che è fonte di insoddisfazione e sofferenza (natura/cultura, corpo/mente, ecc.), ma rappresenta anche l’uno, la “coidentità” d’origine, speranza di salvezza futura e insieme nostalgia di un paradiso perduto;
-l’ interezza è per la donna una necessità più forte che per l’uomo: dividendo i campi (infanzia/storia, famiglia/vita sociale) e imponendo ad essi la sua legge, l’uomo può garantirsi in qualche modo una continuità, sia pure precaria e insoddisfacente. La donna, confinata su un polo solo, è costretta a operare drammatiche sostituzioni:la creatività del pensiero al posto di quella biologica, l’impegno “virile” nel mondo contro un destino “femminile” di moglie e madre;
-la ricomposizione sembra non poter essere pensata altro che attraverso questa immagine duplice, una specie di divinità bifronte, e non come il naturale innestarsi (ad es. il corpo e il pensiero) in uno stesso essere, maschio o femmina. Con tutto ciò che porta con sé di assolutezza, perfezione, atemporalità, l’ideale androgino non può che essere fonte di sofferenza e causa di follia per la realtà concreta e limitata dell’individuo che attraverso di esso vorrebbe trascendersi.
A mantenere l’attaccamento a una identità illusoria contribuisce il modo contraddittorio con cui l’uomo si è rivolto da sempre alla donna. Scrive Virginia Woolf:
“Immaginativamente la sua importanza è estrema; ma praticamente, la sua insignificanza è totale. Ella pervade la poesia, da una copertina all’altra, invece dalla storia è quasi assente.” (2)
Nella “storia” di cui parla la Woolf riferendosi essenzialmente alle condizioni materiali di inferiorità delle donne, si può far rientrare anche la percezione svalutata che esse hanno del loro corpo: il corpo esaltato è solo quello che si può fantasticare come complemento dell’uomo, è il corpo che l’uomo -figlio, padre, amante, marito- ama perché indispensabile integrazione del suo essere.
Calata in un rapporto d’amore o nella poesia, l’immagine androgina diventa in ogni caso desiderio di “purificazione” da una materialità sofferente e fastidiosa.
(…)
Dopo il breve accenno al sogno d’amore -la Woolf è meno incline dell’Aleramo a lasciarsi incantare dalla bella “fola”- l’immagine androgina si trasferisce nell’esperienza artistica. Lo stato d’animo più propizio perché possa compiersi “l’atto della creazione” è quello che poggia sul “matrimonio dei contrari”. L’esito di questa “fusione” sembra che si possa riportare indifferentemente sull’uomo e sulla donna: è la creatura “integra” che esce come “terzo” dalla scomparsa dei sessi contrapposti. Ma non è un caso che venga a collocarsi nell’opera di un uomo, Shakespeare, e che il lungo oscuro sforzo che dovranno fare le donne perché rinasca Judith, l’immaginaria sorella di Shakespeare, approdi a un risultato analogo. (L’Aleramo dirà lo stesso di Ibsen, ma subito si accorge della contraddizione di aver proposto come modello per l’esperienza autonoma delle donne la scrittura di un uomo).
Anche la descrizione che la Woolf fa della mente nel suo pieno sviluppo creativo è modellata sull’esperienza maschile: quello che sparisce “consumato”, perché costituisce peso e ostacolo dentro un pensiero che si è fatto “incandescente e indiviso”, è il corpo, la vita emotiva, la sessualità, intesa come coscienza che pensa un sesso “separatamente” dall’altro.
Se questa frattura è problematica e faticosa per l’uomo, che trova comunque altrove luoghi per dare consolazione, accadimento e rassicurazione agli affetti, per la donna significa rinunciare alla sua pretesa di infanzia e all’unico luogo dove, per lungo confinamento, si è formata la sua sensibilità e la sua saggezza.
L’ “atto creativo” visto come “purificazione” comporta la perdita di un retroterra emotivo, fantastico, sessuale, che non si lascia ridurre. A parte le condizioni sociali e culturali di inferiorità che ne ostacolano il talento, la Woolf riconosce nelle donne “istinti contraddittori”, “ostili a questo stato d’animo”, che tuttavia considera fondamentale per potersi esprimere pienamente e liberamente.
(…)
Ciò che la Woolf non vede, e che l’Aleramo nella sua lunga vita viene svelando a tratti, è che per somigliare a se stesse occorre prima decantare l’immagine mitica di perfezione e integrità, e questo mutamento è difficile o impossibile finchè la zona muta, la parte inespressa dell’essere femminile, non trova altra rappresentazione che quella negativa, contrappositiva: oscurità contro chiarezza, materia informe contro forme di un’armonia assoluta. In uno dei frammenti inediti dell’Aleramo, datati intorno al 1904-1910, sono indicati i termini della contraddizione:
“La donna è combattuta tra il proprio oscuro istinto e l’ideale che l’uomo ha foggiato perch’ella lo accettasse senza esame.” (14)
Tra questi due poli oscilla tutta la vita e l’opera (tra loro inscindibili) dell’Aleramo, anche se con la coscienza di oggi possiamo vedere che questo istinto “oscuro” le ha dettato riflessioni di grande lucidità sul rapporto uomo-donna, e che il mito, l’immagine di un’ideale rappresentazione di sé, non è stato in lei così dominante come avrebbe voluto per la riuscita della sua arte, e come le sembrava fosse stato per la Woolf.
(…)
Se è così difficile staccarsi dall’immagine mitica di sé è perché l’ “estasi”, l’androgino inteso come “matrimonio dei contrari”, sta a copertura di una realtà difficile da sopportare: il “duplice limite” relativo a un ordine naturale , imprescindibile, qual è da un lato la diversità di un sesso rispetto all’altro (che vuol dire rinuncia all’indispensabilità, alla complementarità su cui sono costruiti i “generi”), dall’altro l’esistenza singola, circoscritta nel tempo (nascita, morte) e nello spazio (per cui cade l’illusione di potersi fondere con l’altro, o di essere l’altro).
(L.Melandri, “Scrittura e immagine di sé: la mente androgina in Virginia Woolf e il tema dell’estasi negli scritti di Sibilla Aleramo, in Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, a cura di Annarita Buttafuoco e Marina Zancan, Feltrinelli 1988.)

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L’immaginario della dualità

Virginia Woolf, Silvia Plath, Amelia Rosselli, Inge Muller…
Quanto è costata alle donne “la creatività di spirito invece che di carne”?
(Sibilla Aleramo)
“Ti dissi che tutto il poco che una donna riesce a realizzare nel campo della poesia è il risultato di una tensione infinitamente più tremenda della tensione virile; ti dissi quanto immolatrice sia colei che tenta creazioni di spirito invece che di sangue.”
(…)
“Questa mia sotterranea, seconda vita…Questa corrente tacita di pensieri e di sentimenti…è questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia, violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sè, ma lui è uomo, e non ne muore…”
(Paola Redaelli, “Tra Scilla e Cariddi”, in “Lapis” n.30, giugno 1996)
“Ma se lo scrittore è donna?Scoprirà, prima o poi, di sentirsi ombra, che quello di sentirsi ombra è uno dei suoi segreti. Dovrà scrutare in quest’ombra che può nascondere l’abisso, il vuoto oppure un magma, un crogiuolo di presenze spaventose e apparentemente inconoscibili. E scriverne.
(…)
Nell’ombra c’è dunque il corpo femminile, con tutte le connotazioni fantastiche e simboliche che questo nome e questo aggettivo portano su di sé. Queste connotazioni sono tali per cui noi spesso non sentiamo, non ci rappresentiamo il corpo femminile come nostro, ma come qualcosa che è in noi e costantemente ci minaccia di diventare noi stesse, tutta la nostra identità. Fuori dall’ombra c’è invece la parola scritta, quella che ci difende, perché ‘ci crea’, dalle fastidiose parole corpo femminile che per tradizione farebbero parte del novero di quelle che si possono anche soltanto dire.”
La poetessa americana Hilda Doolittle, nota come H.D., nelle sue Note sul pensiero e la visione , scrive:
“Dobbiamo ‘innamorarci ‘ prima di poter afferrare i misteri della visione […] Le menti dei due innamorati si compenetrano […] Il cervello, ispirato ed esaltato da questo interscambio di idee assume il carattere di super-mente… ”
La via d’accesso all'”estasi” o alla “visione” è anche qui il corpo, un corpo fecondato dall’unione d’amore, perché possa farsi luogo di una nascita spirituale che lo trascende e lo consuma.
“Il corpo appariva una forma di vita elementare, priva di bellezza e transitoria. Tuttavia ancora una volta mi avvidi di come il corpo avesse la sua funzione. L’ostrica produce la perla infatti. Così il corpo, con tutte le sue emozioni e paure e sofferenze consumate nel tempo produce lo spirito […]. Immagino, tuttavia, che il corpo, come un pezzo di carbone, adempia alla sua funzione più alta quando si consuma “.
Anche quando si tratta di realizzare “opere di anima” e non “di carne”, il riferimento obbligato sembra essere la maternità biologica, quel “pertinace naturalismo”, quella “aderenza alla vita” che Boccioni rimproverava all’Aleramo, e che l’uomo ha soltanto risolto altrimenti: separandosene, riducendola al silenzio a rigo immaginario su cui intonare la propria parola.
Ma per la donna, che con quella matrice è stata identificata, il processo creativo del pensiero rischia di trasformarsi in “pellegrinaggio mistico”: un corpo che “rappresenta”,mentre la agisce, la sua consunzione e la sua trasfigurazione.
Il dualismo in tutte le sue forme -a partire da quello che ha segnato il destino dell’uomo e della donna – è stato finora il fondamento di tutte le civiltà, inscritto nella vita sociale ma anche “nell’oscurità dei corpi”, come dice Pierre Bourdieu. Finché si resta dentro queste polarità complementari, è chiaro che si può solo tentare una ricomposizione, che, non a caso, avviene sempre sul popolo maschile. Tale è la “mente androgina”, come mente creativa, di cui parla Virginia Woolf. L’esempio che fa è, non a caso, è quello di Shakespeare. Per ritrovare mente e corpo nel loro naturale essere inscindibile, occorre pertanto uscire dell’immaginario della dualità, che abbiamo ereditato e che ancora condizionata il nostro modo di pensare e di sentire.13418898_1777695312466389_2152427091482708103_n

Una lucida follia

Stralci di un percorso personale e politico
La centralità che ha avuto il tema dell’amore nel mio percorso intellettuale e politico all’interno del movimento delle donne -in modo abbastanza solitario- è dovuta, almeno in parte, a un tratto romantico, sentimentale, che viene da qualche zona remota della mia storia personale. Più precisamente, si tratta di una singolare commistione di sogno e lucidità di analisi che ho ritrovato in Sibilla Aleramo e che ho cercato di analizzare nel mio libro Come nasce il sogno d’amore .
Ma c’è anche la spinta, radicata anch’essa nel mio passato, a tenere fermo lo sguardo su quella zona ancora oscura ed enigmatica che è l’origine, la preistoria dell’individuo e della specie.
Partire dalla memoria del corpo –dai sedimenti profondi della vita psichica- per interrogare il rapporto tra i sessi, vuol dire riconoscere che il dominio maschile non nasce da una volontà malvagia dell’uomo, o da una sua ‘naturale’ pulsione di morte, ma da passaggi inconsapevoli di necessità che riguardano lo sviluppo della specie umana, il passaggio dalla natura alla cultura.
Per tornare al percorso autobiografico che sta dietro ogni teorizzazione, anche la più astratta, devo dire che la centralità che ho dato alle tematiche del corpo è strettamente legata alla mia origine: figlia femmina di famiglia contadina che ha avuto il singolare privilegio di poter studiare. Il dualismo corpo-pensiero, natura-cultura, femminile-maschile, era nella mia condizione di partenza, e ha reso particolarmente lento, difficile, contrastato, il processo di emancipazione tradizionalmente inteso. Ho sentito a lungo estranea la vita pubblica, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le sue istituzioni, mentre è stato molto forte il legame con la cultura e i linguaggi dell’uomo-figlio: filosofia, religione, arte.
Nel momento in cui avrei potuto “emanciparmi”, dopo la fuga dal paese d’origine e l’arrivo a Milano, ho incontrato, per mia felice sorte, il movimento non autoritario del ’68 nella scuola e il femminismo, che partivano proprio dal corpo, dalla vita personale, dalla sessualità, per mettere in discussione l’ordine esistente, la divisione tra pubblico e privato, la relazione tra i sessi.
Ho cominciato allora a rendermi conto che quello che nei miei studi liceali era rimasto il “fuori tema” –una materia di esperienza dolorosa e intraducibile nelle lingue colte- poteva, nella prospettiva di una profonda rivoluzione culturale, diventare “il tema”. Nello stesso tempo, cominciavo a riflettere sui nessi, i legami che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro del dualismo, sulle implicazioni inconsapevoli che la dualità, come costruzione maschile, aveva con l’interiorizzazione da parte delle donne di un’unica visione del mondo.
Ricerca di nessi voleva dire per me, da un lato continuare a scavare a fondo nel vissuto corporeo, psichico, intellettuale del singolo -autocoscienza, scrittura di esperienza-, dall’altro, partendo da questo sguardo e da questa lenta modificazione di sé , intesa come autonomia da pregiudizi, habitus mentali, schemi cognitivi incorporati, affrontare i saperi e i poteri della vita pubblica.
Ho cominciato a farlo dagli anni ’70, individualmente e collettivamente -dal gruppo “sessualità e scrittura”, ai corsi della donne, alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”-, ma in modo ancora libresco o filtrato dai saperi disciplinari che mi erano famigliari, come la letteratura, la filosofia, la psicanalisi.
Gli anni ’80 hanno rappresentato, per quanto mi riguarda, l’inizio di una riflessione e di una scrittura più specificamente legata ai temi dell’immaginario amoroso: rubriche di “posta del cuore”, “scrittura di esperienza”, analisi del “sogno d’amore”.
Nel momento in cui prevaleva nel femminismo l’orgoglio dell’appartenenza di sesso, la voglia di “vivere con agio”, l’affermazione della fine del patriarcato, occuparsi del sogno d’amore -dal libro che stavo scrivendo alle rubriche di posta del cuore su “Ragazza In” e su “Noi donne”- fu visto da alcune come un tornare sulla “miseria femminile”. Per me ha voluto dire invece riprendere e approfondire l’intuizione originale del femminismo: il dualismo sessuale, la consapevolezza che le figure di genere non hanno dato forma solo a rapporti e gerarchie di potere tra uomini e donne, ma, come conseguenza della complementarità, anche all’amore tra i sessi, al sogno di ricongiungimento di “nature”diverse, e all’ideale di interezza dell’individuo.
Finché il maschile e il femminile sono visti come poli complementari, come se fossero le due metà di un intero, c’è nell’amore una “terribile necessità”.
Come spiegare altrimenti un’interiorizzazione della visione maschile del mondo così duratura? Come spiegare una subalternità così evidente delle donne nella vita pubblica, l’emancipazione come assimilazione al neutro? La difficoltà è pensare l’interezza del proprio essere fuori dall’ideale androgino, di cui parla Virginia Woolf.
La complementarità è ingannevole, ma esercita ancora una grande attrazione: basta pensare al protagonismo che hanno preso le due grandi attrattive delle femminilità nelle sfera pubblica: la maternità e la seduzione. Il processo di autonomia dai modelli interiorizzati ha ancora molta strada da fare. Ma, soprattutto, interessa uomini e donne, interroga la femminilità come la maschilità.

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Lea ospite a ‘Il visionario’, RaiTre, lunedì 13 giugno 2016, 23.10

Rai Tre- Lunedì 13 giugno 2016- h.23,10
Partecipazione alla trasmissione “Il visionario” condotta da Corrado Augias, insieme a Nadia Fusini e Serena Dandini.
Tema: In che modo Virginia Woolf, scrittrice inglese dei primi del Novecento, è stata una visionaria?
Autrice di romanzi straordinari come Orlando, Al faro, La signora Dalloway, la Woolf di fronte a una nuova realtà, non solo sperimenta una scrittura in grado di rappresentare il mondo contemporaneo ma inventa e mette in atto una nuova maniera di vivere. Una scrittrice di grande libertà intellettuale che con tagliente ironia mette in discussione le rigide convenzioni e i ruoli tradizionali imposti alla donna dalla società patriarcale. La Woolf diventerà un’icona del movimento femminista e punto di riferimento per generazioni di donne.
A raccontare la scrittrice in studio con Corrado Augias, Nadia Fusini, anglista e saggista, Serena Dandini e Lea Melandri, femminista storica e scrittrice.
Come per ogni puntata, il sociologo Ilvo Diamanti effettuerà un sondaggio in esclusiva per il programma.

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